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Lo “slalom” di Diliberto tra le contraddizioni del PdCI

Publie le martedì 20 settembre 2005 par Open-Publishing
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Dazibao Partiti

di Ok. Tober

Il precedente articolo sulla discussione apertasi all’interno del PdCI attorno alla proposta di lista “bicicletta” o “arcobaleno” per le prossime elezioni politiche ha suscitato diverse reazioni. In particolare sono intervenuti iscritti a questo partito che hanno contestato la mia analisi su vari punti. In un caso il commento arrivato a Bella Ciao ha l’aria di una precisazione “ufficiale” ed un chiarimento è quindi dovuto.

Sulla base della documentazione disponibile in Internet affermavo che al Comitato centrale di luglio del PdCI si è aperta una differenziazione sostanziale sulla linea politica proposta da Diliberto. Mi basavo quindi solo sugli interventi del Segretario e di Cossutta e non sull’intero dibattito. Mi è stato precisato che gli altri testi sono stati pubblicati sul settimanale del PdCI, che per parte nostra non siamo riusciti a reperire. Viene però confermato e persino amplificato il valore della notizia che abbiamo dato, quando ci viene preciato che al Comitato Centrale vi sono stati “numerosi interventi più o meno critici” della politica di Diliberto e di Cossutta.

Confermata la notizia, vorrei cercare di inquadrarla nel contesto più ampio della politica del PdCI così come si è venuta caratterizzando dalla scissione del 1998 ad oggi.

La nostalgia non è più quella di una volta

Nata da una decisione contingente, seppure di grande rilevanza, come il sostegno al governo Prodi, la scissione da Rifondazione ha portato ad un complessiva ridefinizione identitaria del PdCI. Non si è solo distinto dal “Grande Satana” Bertinotti (ossessivo bersaglio di tutte le polemiche dei pidiccini e considerato fonte pressoché esclusiva di tutti i mali della sinistra italiana, passati, presenti e futuri) ma dalle stesse premesse su cui era nata Rifondazione Comunista. Come sintetizzò efficacemente al tempo un militante che aderì alla scissione: “qui non c’è niente da rifondare”. Venne anche cancellato anche il riconoscimento della pluralità delle storie che stanno dietro alle parole “comunismo” e “comunista”, partendo alla convinzione che nessuna di queste diverse identità è sufficiente da sola a rispondere adeguatamente al tema della trasformazione della società “oltre” il capitalismo.

Si trattava di riprendere la storia del PCI e di fare come se nel frattempo nulla fosse successo. L’operazione più semplice è quella che si può realizzare a livello simbolico e retorico. Riprendere il simbolo (grazie all’”aiutino” non disinteressato dei DS), chiamare il massimo organismo “Comitato Centrale”, l’organizzazione giovanile FGCI, il settimanale “Rinascita”, ecc. Ma il PCI fu una comunità umana complessa che seppe sintetizzare, fino ad un certo punto della sua storia, realtà molto diverse che andavano dall’illuminismo borghese al ribellismo meridionale, dall’operaismo della grande fabbrica al capitalismo-fai-da-te del ceto medio delle regioni rosse. Tutto questo non si riproduce certo a partire dai simboli o, con una parola che piace molto a Diliberto, con le “liturgie”.

Dal punto di vista del mercato politico questa operazione aveva però l’utilità di ricorrere ad un “marchio” di successo, che poteva contare su un patrimonio di consenso che è stato rilevante. Un po’ come la FIAT quando ha riproposto la “cinquecento”, contando sul forte significato simbolico che questo nome evocava. Era l’auto del boom economico, il passaggio per una parte consistente degli italiani dalla miseria ad un limitato benessere, ecc. Ma la FIAT ben sapeva che si trattava di un auto di nicchia non certo del prodotto del futuro.

Anche il ricorso al patrimonio simbolico-retorico da parte del PdCI era ed è finalizzata alla definizione di un partito di nicchia. Il primo problema si è riscontrato quando, contrariamente alle aspettative, Cossutta non è riuscito a portare con sé la maggioranza degli elettori di Rifondazione e di consegnare al “cesto della spazzatura della storia” l’odiato Bertinotti. Questa situazione ha aperto un problema di prospettiva per il PdCI. Fra pochi anni cominceranno a votare quelli che sono nati dopo la scomparsa del PCI. Quanti saranno quelli che definiranno la propria identità politica o, più modestamente, il proprio voto sulla base di una retorica passatistico-nostalgica che si giustifica sulla base, ad esempio, di quello che fece Togliatti nel ’48 o Berlinguer nel ’76?

Giorgio Amendola e i suoi epigoni

Le tradizioni, come ha spiegato lo storico inglese Hobsbawm, sono sempre frutto di una invenzione, più o meno consapevole. Il PCI ricostruito dalla memoria del gruppo dirigente del PdCI non è mai esistito (ci scappa detto un “per fortuna”) in quanto ne vengono assemblati dei pezzi. Non ne esce solo qualcosa di più piccolo, né esce qualcosa di diverso.

Ciò a cui assomiglia di più, forse, è l’idea di partito che aveva in mente Giorgio Amendola, che però non fu mai il PCI, ma solo una sua parte seppur importante. Non mi dilungo sul giudizio complessivo di questa figura perché mi porterebbe lontano dal tema che sto affrontando. C’è stato un articolo recente di Rina Gagliardi che lo definiva “stalinista”, c’è del vero in questo ma non credo che colga fino in fondo la sua storia politica. Penso che lo stalinismo in Amendola ci fosse, ma fosse figlio più che padre di una certa idea della politica. Lo stalinismo, l’URSS, il confronto tra i blocchi, erano il contesto da cui non si poteva e non si doveva prescindere per la costruzione di un “partito dei lavoratori” in Italia.

All’inizio degli anni sessanta Amendola propose il “partito unico della classe operaia”, un soggetto che avrebbe dovuto unire la tradizione comunista italiana con quella socialista, a con l’obbiettivo della rappresentanza dei lavoratori. Dalla lettura dei testi del PdCI, sfrondata la parte retorica e autocelebrativa, e la parte di pura tattica (del genere: Prodi fa questo, Fassino fa questo, Bertinotti fa quest’altro, quindi noi dobbiamo fare quest’altro ancora) i pochi riferimenti strategici riecheggiano la prospettiva amendoliana.

Se ne potrebbero fare parecchie ma mi limito ad una citazione del “pidiccino” Severino Galante sull’Ernesto (maggio-giugno 2005), secondo cui la priorità ineludibile è la “ri-costruzione di una forma di organizzazione politica che sia effettiva e coerente espressione del mondo del lavoro”. Questa forma Galante la intravede nella Confederazione della sinistra, sulla quale torneremo.

In Amendola, che fondava le proprie proposte su un “pensiero forte”, su una analisi discutibile ma ricca della società italiana, il partito dei lavoratori presupponeva il superamento del PCI. Questo superamento si rendeva necessario perché le origini del PCI lo rendevano parte di un movimento internazionale influenzato dal leninismo e dalla rivoluzione d’ottobre. La rappresentanza degli interessi sociali non poteva essere separata dal progetto politico, ovvero la trasformazione della società e il superamento del capitalismo.

Nella formulazione di Galante e di altri esponenti del PdCI, la rappresentanza degli interessi del mondo del lavoro, acquisisce contorni che appartengono più ad una certa tradizione laburista che a quella propria del PCI. Non è un caso che a suo tenpo la proposta di Amendola sia stata sconfitta, e non solo per miopia tattica. La politica, se vuole avere come orizzonte l’andare oltre il capitalismo, non può essere solo “rappresentanza di interessi”, ma deve essere orientata dal processo di costruzione di una alternativa di società. La contraddizione del PdCI è di proporre una prospettiva neo-laburista facendo finta di continuare a “fare il PCI”. (Detto, en passant, trovo curioso che i leninisti dell’Ernesto, sempre pronti a sottolineare gli scarti di Rifondazione dal comunismo “classico”, non trovino nulla da dire su questa proposta. Verrebbe da pensare anche in questo caso: non ci sono più i “leninisti” di una volta).

Ma soprattutto credo che Amendola, pur meritandosi un sincero rispetto, sia la più datata delle personalità di primo piano espresse dal PCI. La sua visione economicistica dei soggetti sociali, la sua ostilità ai movimenti, la sua concezione dell’arretratezza italiana, e la sua idea “realpolitica” del contesto internazionale fanno sì che la sua strategia fosse costruita per una Italia che sicuramente non esiste più e che forse non c’erà già più ai suoi tempi. Per questo riproporla oggi rappresenta un anacronismo.

Lista arcobaleno e confederazione della sinistra

La proposta di lista PdCI-Verdi deve rispondere al problema del superamento della soglia del 4%. Da questo punto di vista è una operazione del tutto legittima, come è abbastanza logico che la si “venda” agli elettori come qualcosa di più di una mera sommatoria di partiti finalizzata ad ottenere una rappresentanza istituzionale.

I soggetti che ne stanno discutendo hanno motivazioni tra loro abbastanza diverse. Si ha a volte l’impressione che nessuno si preoccupi di confrontarsi con quello che dicono e fanno gli altri possibili contraenti, per vedere se i rispettivi progetti sono compatibili. Già sul simbolo non è chiaro come stiano le cose. Cento, dei Verdi, ha dichiarato pubblicamente: “via la falce e martello”; per Diliberto mantenere il simbolo di partito è una pregiudiziale. C’è chi parla di “rifondare la politica”, chi di “dare spazio alla società civile esclusa dai partiti”, chi vuole dare una sponda politica ad una corrente della CGIL, chi creare una aggregazione della sinistra del centro-sinistra, insomma di tutto un po’.

Anche all’interno del PdCI emergono delle differenze di impostazione, ma ufficialmente la lista è presentata come un passaggio nella costruzione della “Confederazione della sinistra”. Proposta formulata al congresso di Bellaria del 2001, confermata in quello successivo, ma fatta risalire già a quanto sostenuto da Cossutta nel 1991 al momento della formazione del PDS e della nascita di Rifondazione.

Al di là di una certa ambiguità su quali forme concretamente dovrebbe assumere questa Confederazione è chiaro, ed è stato ribadito più volte, che essa è uno strumento politico che prevede la partecipazione dei DS, in quanto partito nella sua interezza. Questo è l’obbiettivo strategico del PdCI, dentro il quale viene collocata la proposta di lista arcobaleno. La scelta di parlare di sinistra al singolare non è causale ed è finalizzata a mantenere un legame strategico con i DS all’interno del centro-sinistra.

C’è chi ritiene che il rifiuto di Rifondazione Comunista di accettare la proposta di lista comune sia frutto di una chiusura settaria. Ritengo che confrontando le strategie del PdCI e del PRC ci siano diversi elementi che rendono oggi incompatibili i rispettivi percorsi. Per far questo assumiamo, per ipotesi, che il PdCI sia effettivamente interessato ad avanzare una proposta unitaria a Rifondazione Comunista, anche se tutto quello che viene dichiarato e scritto dal partito di Diliberto e Cossutta, dimostra esattamente il contrario.

Per Rifondazione Comunista esiste in Italia, come in Europa, una sinistra moderata e una sinistra alternativa. La prima acceta di opera all’interno del capitalismo come orizzonte invalicabile, la seconda cerca di andare oltre. Tra le due può esistere conflitto o collaborazione a seconda delle situazioni, ma all’interno di un confronto per l’egemonia. Per il PdCI esiste una sola sinistra al singolare che si differenzia per identità e “liturgie” ma che deve essere alleata con i moderati e può convivere in un solo organismo politico, la Confederazione.

Per il PRC l’Unione non è l’Ulivo, ma è una alleanza più ampia e soprattutto più avanzata nei contenuti, non solo perché c’è Rifondazione, ma perché è maturata sull’onda di movimenti di lotta. Per il PdCI l’Unione e l’Ulivo sono due diverse forme di un unico e identico schieramento, il centro-sinistra all’interno del quale c’è la sinistra che rappresenta il mondo del lavoro e ci sono i moderati, senza i quali non si possono battere le destre. Il cambio di nome deriva dal fatto che Bertinotti si è pentito di aver fatto cadere il governo Prodi nel 1998. E’ solo lui che è cambiato, il resto è tutto uguale.

Per il PRC il futuro governo non dovrà essere la continuazione dell’esperienza di Prodi e D’Alema, ma occorrerà introdurre elementi di discontinuità sul piano sociale, della politica estera e così via. La vecchia esperienza di governo era subalterna al neoliberismo, quella nuova può avviare una fase offensiva e alternativa. Per il PdCI i governi di Prodi e D’Alema andavano bene e non c’era motivo di contrastarli, la destra italiana è forte e più pericolosa che negli altri paesi europei, la sinistra è debole. Per questo occorre un programma che non spaventi i moderati. Su molte questioni Bertinotti chiede le stesse cose che chiede il PdCI, ma un conto è chiedere perché cercare anche di ottenere è rischioso, per questo alle primarie è meglio votare per Prodi.

Per il PRC il rapporto con i movimenti non è solo paritario, ma si basa sul principio della contaminazione. Il partito non rinuncia al proprio ruolo, ma si misura con le culture e le soggettività che i movimenti esprimono rimettendo in discussione anche la propria identità e la propria cultura politica. La convergenza elettorale può nascere dalla convergenza su un progetto di trasformazione della società. Per il PdCI le culture dei movimenti non hanno nessuna influenza sul partito, la cui identità è determinata dal passato. La convergenza può realizzarsi su singoli obbiettivi, se è conveniente al partito anche sul piano elettorale. La contaminazione partito-movimenti sarebbe “movimentismo” o peggio ancora “bertinottismo”.

Così come si presenta oggi la lista arcobaleno non sembra accettabile a Rifondazione se non rimettendo in discussione elementi chiave della sua prospettiva politica, non solo nella dimensione italiana ma anche europea (con il Partito della Sinistra Europea). Per lo stesso PdCI la scelta della lista arcobaleno potrebbe aprire scenari inediti, costringere ad un ripensamento esplicito della propria identità tale far emergere contraddizioni e differenze finora tenute sotto controllo dalla diarchia Cossutta-Diliberto.

Democrazia e tatticismo

Due questioni che ho toccato nel mio precedente articolo hanno sollevato una certa irritazione fra i sostenitori del PdCI che hanno inviato i propri commenti a Bella Ciao.

Il primo è il tema della democrazia interna. Conosco tutte le argomentazioni portate in favore del “centralismo democratico”, del divieto delle correnti, ecc. Sono state moneta corrente nel PCI. Nel PdCI non c’è solo il divieto alle correnti e a qualsiasi forma di aggregazione fra iscritti, c’è anche il divieto per un iscritto di esprimere pubblicamente il proprio dissenso su una scelta compiuta dal gruppo dirigente. Inoltre lo statuto nega di fatto che un congresso possa vedere un confronto fra proposte diverse. Tutto ciò è il prodotto di una concezione burocratico-autoritaria del partito, ed è uno dei meccanismi che prodotto la degenerazione del socialismo post-rivoluzionario in Unione Sovietica. Riproporlo oggi non è solo sbagliato, è inquietante. Inoltre non impedisce nemmeno l’affermarsi di fenomeni degenerativi della vita interna, compresi quelli che di solito si accompagnano alla formazione di correnti.

Anche la mia considerazione sul tatticismo di Diliberto ha indispettito qualcuno. Il gruppo dirigente del PdCI si è costruito un’immagine che deve esprimere coerenza dei comportamenti, affidabilità e serietà sempre in contrasto con lo “sventato” Bertinotti. In realtà se si confrontano scelte e argomentazioni di Diliberto si vede che c’è una grande agilità tattica, e una notevole spregiudicatezza nelle argomentazioni. Avevo citato nel precedente articolo il giudizio sprezzante dato sulla “lista dei professori” in occasione delle elezioni comunali di Firenze, e gli inviti agli stessi “professori” ad entrare in lista oggi col PdCI. Ma potrei aggiungerne altre. In una intervista del 2002 definiva “inconciliabili” le culture dei verdi e dei comunisti (e quando parla della cultura dei comunisti, Diliberto intende la sua propria e quella di Cossutta). Allora doveva sostenere la giustezza della scelta di presentarsi da soli come PdCI, contro le liste “bicicletta”. Sulle primarie il PdCI ha deciso di sostenere Prodi, ma a ottobre Diliberto aveva proposto di presentare un candidato alternativo a Prodi e soprattutto a Bertinotti (“La mia opinione è che sarebbe meglio se noi avanzassimo un candidato non di partito che rappresenti un’area vasta. Quando arriverà il momento, si riunirà la Direzione e decideremo. Ma un dato va qui assunto: Bertinotti non può essere il rappresentante della sinistra contro Prodi, tanto più alla vigilia delle elezioni regionali”).

Rilevavo i tatticismi di Diliberto perché ritengo che siano uno degli elementi della discussone interna del PdCI. Confesso che non ho particolari simpatie per un dirigente politico che si definisce “marxista-leninista col trattino” e che in un’occasione, per togliere ogni dubbio sulla sua idea di partito, si è vantato “di aver studiato a Mosca”. Ma a parte le simpatie personali, credo che Diliberto debba far sopravvivere un partito che si basa su premesse politiche e teoriche inconsistenti o anacronistiche, e non possa fare altro che cercare di occupare gli spazi che gli altri gli lasciano.

Messaggi

  • Non c’è che dire...l’analisi di Ok.Tober è ineccepibile....Tra le contraddizioni rilevate ne aggiungerei molte altre, tutte prodotto ultimo ( e direi quasi inevitabile ) della natura intima dell’atto fondativo del PdCI e dunque delle premesse politiche sulle quali si è poi costruito...
    Come valutare ad esempio le critiche stizzose rivolte allo "strumento Primarie" e la disinvoltura con la quale poi si presenta un proprio candidato in Sicilia...? Il problema, per il PdCI, si circoscrive in realtà tutto intero entro una dimensione tatticista, piegata sulla "praticabilità politica" ( in termini di semplici consensi al partito stesso, ovvero di sopravvivenza ) dello scenario che di volta in volta si presenta...
    Vivono "specularmente" alle iniziative degli altri. Di briciole, insomma.