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Un taxi da Lisbona a New York - la Rivoluzione dei garofani

Publie le mercoledì 5 ottobre 2005 par Open-Publishing

Dazibao Europa Storia

Un taxi da Lisbona a New York

Un protagonista (minore) del 25 aprile portoghese vive a Manhattan da quasi 30 anni, guidando un taxi. Il ricordo delle «radiose giornate» e la nuova patria, eternamente estranea

di CLAUDIA RUSSO

Il tassista Travis Bickle viene dal fumo bianco dei tombini, dalla luce dei semafori, dal rumore della notte. Travis Bickle è un’invenzione di Martin Scorsese del 76. Il tassista Marcio De Carvalho viene da un'altra storia ma quel fumo ce l'ha addosso, quelle luci e quel rumore. Ed è un uomo vero del 2005. La puzza di hot dog e patatine, che non cogli attraverso lo schermo cinematografico, nella vita reale ti resta appiccicata e si mescola al tuo odore e a quello del passeggero precedente. Credevo che New York mi avrebbe conquistata con i suoi grattacieli: invece New York mi ha fatta sua sul sedile posteriore di un taxi giallo, da Central Park al Financial District, passando per Times Square, Fashion Center, Soho, Chinatown, Battery Park. Poco più di 60 dollari, circa 60 minuti: in cambio, oltre la corsa, la storia di una città europea sullo sfondo di quella americana per eccellenza. Marcio è portoghese. Vive negli Usa da trent'anni. Negli ultimi ventitré ha guidato un taxi. Salgo sul suo cab che ha la luce spenta: significa che non vuole passeggeri, ma io non lo so e mi ci infilo dentro sorridente. Lui sta fumando una sigaretta. Mi fissa perplesso. «Where are you from?», mi fa in un inglese cantilenante, simile al mio. «From Italy». Gli si illumina lo sguardo. «Portoghesi e Italiani hanno lo stesso grande cuore. Il mio migliore amico è di Napoli. Ha un ristorante a Little Italy. Ho lavorato per lui appena arrivato qui». Lo stereotipo del tassista scorbutico, alla De Niro, va in pezzi alla prima curva. Non reduce del Vietnam ma protagonista di una rivoluzione che significò democrazia per il Portogallo e libertà per le sue colonie, l'uomo non smette più di parlare. Come se aspettasse questo momento da tutta la serata, ma anche da prima. Il suo turno è iniziato alle 4 del pomeriggio e non finirà prima delle 4 del mattino, come tutti i giorni della settimana. C'è tempo. All'interno del cab, accanto alla licenza di guida, un adesivo con la bandiera portoghese e uno con quella a stelle e strisce, un'immagine della madonna e un cappello da baseball. Musica e garofani «Cosa facevi a Lisbona?». «La Rivoluzione» - ride sotto i baffi grigi. «Sono nato il 25 aprile 1950. Il mio ventiquattresimo compleanno l'ho festeggiato in Rua Antonio Maria Cardoso davanti alla sede della Pide» (la polizia segreta, pilastro del regime fascista, obiettivo primario per la popolazione nei giorni della Rivoluzione dei Garofani e unica forza governativa a non passare spontaneamente dalla parte dei rivoltosi, aprendo invece il fuoco sulla folla e causando quattro morti e decine di feriti, ndr). «Insieme a me, mio padre e mia madre, che avevano un figlio arruolato a forza in Mozambico e che da anni aspettavano la fine di una guerra assurda voluta da un governo fascista ma combattuta dai figli della gente come noi. Famiglia cattolica. Tre figli maschi. Mio fratello gemello faceva le pulizie a Radio Renascença, la principale emittente del paese. Era amico di Carlos Albino e lo vide uscire di fretta dalla radio la mattina del 24. Si scoprirà poi che era diretto alla libreria Opinião per l'acquisto di una copia dell'album Cántigas do Maio di José Afonso, contenente la canzone che sarebbe stato il segnale rivoluzionario». «La radio trasmetteva all'epoca, tra la mezzanotte e le due, un programma chiamato Limite (di cui proprio nell'edizione pomeridiana del 24 aprile il giornale República aveva elogiato la qualità artistica consigliandone vivamente l'ascolto, ndr). Carlos non volle dire a mio fratello cosa stava succedendo, ma nel primo pomeriggio consegnò a Manuel il disco 'proibito' e andò con lui fino alla chiesa di S. João do Brito per accordarsi sulla scaletta del programma senza dare nell'occhio. Manuel Tomás, che sapevo esser tornato da poco dal Mozambico dove si era dato da fare per la democrazia e aveva appoggiato gli elementi progressisti delle Forze armate, era il tecnico di Rádio Renascença responsabile del programma. Sai che riuscì a vincere la censura interna dell'emittente nonostante questa fosse legata alla Curia di Lisbona, per trasmettere il brano? Comunque io quella sera avevo la radio accesa. Dalle onde dell'Eal, João Paulo Dinis, accordatosi con il Mfa, annunciò la canzone E depois do adeus di Paulo de Carvalho, che era un gran successo ma era pure parecchio stupida e sdolcinata. Era il primo segnale (primeira senha). Alle 12,20 in Rua Capello, sede di Rádio Renascença, Manuel Tomàs, con 19 secondi di ritardo rispetto all'ora concordata con Albino, dà uno strattone alla mano dell'altro tecnico, José Videira, facendo partire il nastro dov'era stata registrata la proibitissima Grândola vila morena e interrompendo gli annuci pubblicitari. Mio fratello era lì. Era ilcelebre segnale’ (célebre senha). Il lavoro segreto svolto per le strade era riuscito. La rivoluzione cominciava».

«Io in quegli anni avevo parecchi amici nel Mfa e conoscevo in anticipo le loro intenzioni. Quando Radio Clube Portugues passò il primo comunicato alla popolazione, alle 4,20 di mattina, sapevo che la gente avrebbe disubbidito e sarebbe scesa in strada. I miei ed io uscimmo di casa verso le 5,30 quando già le emittenti trasmettevano le canzoni di Adriano Corriera, Josè Mario Branco, Sergio Godinho. Quando hai 24 anni e ti svegli una mattina che la tua città è invasa dai militari con fucili e carri armati che invece di fare la guerra protestano per la pace, quando ascolti canzoni che non avevi mai potuto ascoltare e parole mai prima pronunciate, credi davvero che il mondo si possa cambiare. E che a cambiarlo sarai anche tu».

Dal sedile posteriore osservo le mani di Marcio sul volante. Scure e rugose come la sua faccia. «A me del capo del governo (Marcelo Caetano, ndr) che poi scappò non me ne importava niente. Volevo che mio fratello tornasse a casa e che mia madre smettesse di avere quello sguardo rassegnato. Cercavo di raggiungere Praça Do Comercio, sede dei ministeri, ma era impossibile perché era stata occupata da quelli della Escola Pratica de Cavalleria de Santarem. Mentre mi facevo largo in quella direzione riuscii a scorgere mio fratello gemello che come me era piccolo di statura e aveva un aspetto malaticcio, motivo per cui eravamo entrambi scampati al servizio militare e alla guerra nelle colonie. Mi disse che la sua radio era stata assediata' ma non aveva capito bene da chi. Sembrava impazzito. Tutti lo eravamo. A metà mattina avevo raggiunto Largo Do Carmo. Lì le porte della caserma erano state sbarrate. Da un parte le truppe Gnr, fedeli al governo, dall'altra quelli del Mfa e noi, cioè la gente scesa in strada. Si arresero presto. C'era vicino a me un giornalista italiano che scriveva per qualcosa tipo... L'espresso. Mi intervistò, credo. Mi chiese se pensavo che l'ondata rivoluzionaria sarebbe dilagata in tutta Europa. Io risposi di sì, ma fu per l'entusiasmo del momento. Ricordo infine l'assalto alla Pide, l'uccisione di un agente e la fuga di altri pides dall'edificio. La mattina del 26 mi sentivo un eroe». Luci sulla città «Poco più di due anni dopo partii per New York. Mio fratello era tornato dall'Africa. Io andavo in quello che avevo sempre considerato il Continente luminoso. Non ho forse ragione?». Guardo fuori dal finestrino. Stiamo percorrendo Broadway, downtown, verso sud, avvicinandoci a Wall Street. Di luci ce ne sono tante, e non sono certo quelle delle stelle. Il cielo è solo una striscia lontana incastrata tra i grattacieli e offuscata dalla nebbia metropolitana. «Mentre lavoravo a Little Italy mi sono sposato con un'americana. Non sono più tornato in Portogallo. Mai. Se mi chiedessi ora a cosa sono serviti quei garofani a Lisbona direi: a far tornare mio fratello. Non so cosa sia unavera’ democrazia. Qui a New York si sta bene, ma io non ho mai voluto diventare cittadino Usa. Di votare non mi importa. Mia figlia Jenny, che è nata qui e ha la doppia cittadinanza, dice sempre che l’America è il paese della `falsa’ democrazia. Può darsi. Ma non credo che questa gente, quelli che conosco e che lavorano con me o che mi sono estranei ma mi capita di portare in giro per le strade, la pensi così. E comunque non farà certo una rivoluzione per questo».

«Guido taxi diversi da ventitré anni. Mai nessuno è stato di mia proprietà. Sempre della compagnia, che paga assicurazione e spese. Io prendo la mia parte più la mancia, che nel caso dei turisti è sempre abbondante perché loro non capiscono bene e io non gli do il resto».

Non sorrido. Guardo il tassametro e il mio portafoglio da turista. Sento più forte l’odore del cheeseburger che Marcio ha mangiato in macchina poco prima che salissi.

«E tu non la rifaresti la Rivoluzione?». «Marcio storce la bocca in un sorriso-ghigno simile al primo e guarda nello specchietto retrovisore cercando i miei occhi. «Certo. Se avessi ancora 24 anni, vivessi a Lisbona e avessi tutti gli amici che avevo. A Manhattan nessuno è di Manhattan e nessuno è amico di nessuno. Io vedo tante persone. Poche vedono me». Una frase da film, che si ricorda.

«Il capitalismo è morto in Portogallo», titolava il Times nel 1975. A trent’anni dalla «favolosa» Rivoluzione dei garofani, non solo il capitalismo è sopravvissuto, ma ha fagocitato i suoi vecchi nemici e sfidato i nuovi. Ha tenuto Lisbona e colonizzato il mondo intero. Trent’anni fa in Portogallo nasceva la repubblica e moriva la dittatura, mi ha raccontato Marcio, che beve Coca Cola e mangia da McDonald’s, mentre il suo taxi passa lentamente accanto a Ground Zero.

http://www.ilmanifesto.it/g8/dopogenova/4343f22343f63.html


A Lisbona, l’altro 25 aprile

Appena usciti dalla metropolitana ci siamo trovati immersi nel sole e nella confusione di Praça Marquez do Pombal. Qualche bandiera rossa, ad ogni passo una donna o un ragazzino vendevano garofani.
di Lorenzo Misuraca, Data 20 aprile 2005

Il 25 di aprile del 1974 il Movimento delle Forze Armate MFA, rovesciò il regime della dittatura che da 48 anni opprimeva il popolo portoghese. Restituendo la Libertà ai Portoghesi, con la Rivoluzione dei garofani, i militari di aprile posero fine all’isolazionismo al quale il Portogallo era stato condannato da anni. Risolvendo il problema coloniale, dando origine a nuovi paesi indipendenti, la Rivoluzione dei garofani fu il movimento pioniero di enormi trasformazioni democratiche in tutto il mondo e dimostrò che le Forze Armate non sono condannate ad essere uno strumento di oppressione potendo, al contrario, essere un elemento di liberazione del popolo. Democratizzare, decolonializzare e svilupparsi fu il punto che fece ritornare il Portogallo nel circolo delle nazioni libere e amanti della pace.

Vasco Lourenço Associação 25 de Abril

Appena usciti dalla metropolitana ci siamo trovati immersi nel sole e nella confusione di Praça Marquez do Pombal. Qualche bandiera rossa, ad ogni passo una donna o un ragazzino vendevano garofani. Ho provato una strana sensazione di straniamento: in Italia questo fiore era irrimediabilmente associato al capo del partito socialista più a destra del mondo, allora fuggiasco in Tunisia. Ma lì, a Lisbona, nel sole del 25 aprile di tre anni fa il garofano era il simbolo di una rivoluzione: a revolução dos cravos (dei garofani, appunto).

Non credo alla Cabala, ma mi hanno sempre affascinato le coincidenze dei numeri. Ricordo la sorpresa e il piacere quando un portoghese mi fece scoprire casualmente che l’Italia e il Portogallo si erano risvegliate dal sonno della ragione, liberandosi dalle rispettive dittature lo stesso giorno, il 25 di aprile. Nel 1945 in Italia, nel 1974 nel paese di Vasco de Gama e Fernando Pessoa. Erano giorni movimentati in Italia. Era il 2002: il paese si muoveva in massa contro Berlusconi. La Cgil portava tre milioni di persone in piazza a Roma e riempiva il circo massimo di padri e figli che traboccavano nelle vie circostanti. Dai giornali italiani comprati in un’edicola di Roxio, il salotto buono di Lisbona, scaduti da un giorno e rigorosamente in bianco e nero, apprendevo delle manifestazione ripetute e delle dichiarazioni allarmate di pezzi di istituzione e di cultura. Da così lontano, dal molo occidentale del continente, mi sembrava di perdermi un pezzo di storia. Credevo, addirittura, che il governo sarebbe potuto cadere da un momento all’altro. Potevo seguire tutto a distanza da internet e dal telefono, nulla più.

Allora partecipare all’altro 25 aprile, a quel 25 abril, era una sorta di risarcimento che concedevo a me stesso. Con il garofano in mano (che essiccato e pieno di polvere conservo ancora) giravo per la piazza. Mi colpiva una cosa: c’erano tanti vecchi, un buon numero di quarantenni e pochi giovani. Chiedevamo alle persone presenti, ci rispondevano che “Os jovens jà esqueceram, tèm outras coisas para fazer”, i giovani avevano già dimenticato e avevano altro da fare. Pensavo ai 25 aprile passati marciando per le strade in Italia, gridando “ora e sempre resistenza” tre una ragazzina coi rasta e una mamma col passeggino e mi chiedevo se non fosse vero che il prezzo della democrazia è una costante vigilanza, come disse qualcuno.
Partimmo per Avenida da Liberdade. C’erano cartelli, bandiere e un sole bellissimo. Io e Gianluca tirammo in alto orgogliosi il cartello preparato a casa con due fogli di cartoncino. C’era scritto: 25 abril 1945. Liberação da Italia do fascismo. E grande, che tutti lo potessero leggere, Resistir Resistir Resistir. Era la frase che aveva detto il magistrato Borrelli in un suo discorso ufficiale contro l’abbattimento dell’indipendenza della magistratura portato avanti da Berlusconi. Lo facevamo nostro e lo offrivamo ai portoghesi, senza soluzione di continuità dall’insurrezione proclamata dal Cnl nel ’45 al fascismo strisciante del presente in occidente passando per i garofani che i lisboeti misero nei fucili dell’esercito che aveva appena liberato il paese da Salazar.

E gridavamo “Berlusconi, Berlusconi, Vaffanculo!”. Si univano a noi gli amici francesi e gli spagnoli. Ricambiavamo il favore mandando a quel paese anche Aznar e Chirac. La gente ci guardava incuriosita e divertita. In breve fummo in praça do Roxio. Ci fermammo e cominciammo a cantare “Grandola villa morena” l’inno della rivoluzione dei garofani. Poi ognuno rimase o andò via, in gruppo o da solo, come più preferiva, che il dovere di ricordare era stato compiuto.

http://www.girodivite.it/article.php3?id_article=2127


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