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Omofobia d’Italia - La repressione omosessuale nel Ventennio

Publie le mercoledì 19 ottobre 2005 par Open-Publishing

Dazibao Discriminazione Storia

In questo ponderoso studioun giovane storico romano presenta la casistica sulla repressione omosessuale nel Ventennio.E «dimostra il carattere autarchico del culto fascista della virilità

di Piero Gelli

Per lungo tempo io, cresciuto e scolarizzato in epoca democristiana, ho pensato che il problema dell’omosessualità e della sua tolleranza in Italia non avesse mai superato la soglia di una generica ripulsa di origine soprattutto cattolica, persino durante il fascismo. «Che queste cose non vengano da voi neanche nominate», dice San Paolo agli Efesini, citato da Pasolini, come se queste parole, quasi impresse nei precordi del desiderio, mettessero d’accordo e potere politico e potere religioso. Così il «turpe vizio», non nominato e quindi denegato, poteva praticarsi con una liberalità e sicurezza perfino superiore a tutti gli anni cinquanta e oltre.Mi sembrava di trovare conferme nei testi che leggevo al Gabinetto Vieusseux di Firenze, preparando la tesi su Gadda.

Mi sorprendevo che il fascismo tollerasse la pubblicazione di libri come Allegoria di Novembre di Palazzeschi, o Salmace di Soldati, e ancor più il suo America, primo amore (1929), con la descrizione dei Gents della 43ma strada, o le poesie di Sandro Penna; o che su «Letteratura» uscissero pagine del Diario di Piero Santi, dilungantisi su incontri particolari negli antri oscuri di certi cinema fiorentini. Non tenevo conto, ingenuamente, che la circolazione letteraria, allora, riguardava un esiguo numero di persone, che le tirature non superavano le mille copie e che la permissività era direttamente proporzionale alla loro clandestinità. Di certe cose non si parlava, l’«oscarwildismo» era una degenerazione, una malattia di cui era immune o quasi la razza italica.

Il regime doveva soprattutto preoccuparsi di forgiare l’uomo nuovo, maschio, virile, guerriero, prolifico; degli altri, «fia laudabile il tacersi». Così, in questa predeterminata tattica del comodo silenzio, i gay non ancora gay, non ancora etichettati, non ancora minoranza proclamante propri spazi e diritti, si muovevano nell’ombra con agio; bastava non dare scandalo, non incorrere in qualche rumoroso incidente. «Che paese meraviglioso era l’Italia durante il periodo del fascismo...»: un sospiro o un grido pare, quello di Pasolini, che apre la sua recensione a Un po’ di febbre di Sandro Penna (1973) e che mi riecheggia favolosi racconti di quei lontani anni fiorentini, da parte di noti chroniqueur dell’amore proibito, dall’antiquario Giovanni Bruzzichelli al regista Mauro Bolognini, da Carlo Coccioli a Piero Santi, che aveva appena pubblicato il criptico Sapore della menta (1963).

È vero, siamo in ambito privilegiato, cosiddetto artistico, e agli «artisti, si sa, in quanto stravaganti e fuori norma, veniva concesso ciò che ai normali era vietato. A sgombrare il terreno da ogni convinzione d’acquiescenza, e a far luce sulla strategia repressiva, c’è ora il poderoso saggio di Lorenzo Benadusi Il nemico dell’uomo nuovo L’omosessualità nell’esperimento totalitario fascista (Feltrinelli «Campi del sapere», pp. 448, ÷ 25,00): Benadusi che, con la veemenza della sua giovane età, ci sommerge di informazioni, di documenti e di concetti. Forse gli sarebbe stato utile un più rigoroso controllo di editing, una rilettura più distanziata, a evitare certe prolissità e iterazioni concettuali, ribadite di capitolo in capitolo.

Ma è il solo appunto che so trovare, da lettore più che da critico, per uno studioso così documentato e appassionato. Del resto il saggio lo si legge di un fiato per la ricchezza delle notizie, sparse tra testo e note, e per l’intelligenza con cui, attraverso sette parti, svolge il suo assunto, riuscendo a dimostrare ampiamente, innanzi tutto, che la repressione dell’omosessualità nel fascismo non nasceva da una progressiva congiunzione di intenti all’«etica» nazista, ma era parte intrinseca, antropologica, del regime, della sua politica e della sua estetica: l’uomo nuovo proposto dalla stereotipia fascista, virile, impetuoso, aggressivo, generoso rovesciava i canoni del borghese dell’età giolittiana e accentuava una rivolta verso quei canoni che era già presente agli inizi del secolo, se si hanno presenti certe pagine di Giovanni Papini o di futuristi come Marinetti.

Nasce il mito della gioventù, dell’ardimento, della virilità, che, se da un punto di vista letterario, rappresentava una risposta alla mitologia decadentista e crepuscolare, da quello politico servì a costruire quell’icona retorica di maschio in camicia nera cui tutti avrebbero dovuto conformarsi.In realtà, e Benadusi lo dimostra doviziosamente e acutamente, Mussolini e la propaganda del regime fallirono nell’intento, e «il borghesismo artificioso e molliccio», tipico del libro Cuore, non venne mai sradicato. Per imporre tale modello, «emblema di un’era favista» come dice Gadda (Eros e Priapo), era necessario eliminare ogni altra tipologia, non tanto l’uomo pantofolaio, ma ancor più il diverso, il perverso, insomma l’omosessuale, e soprattutto quello la cui diversità fosse subito evidente, voyante.

A questo punto Benadusi sposta il suo obbiettivo indietro e, nel secondo capitolo, uno dei più avvincenti del saggio, ripercorre la storia della sessualità «anormale» nell’Ottocento, uno dei secoli più omofobi, ma anche quello in cui il problema viene affrontato e cerca una sua definizione, scientifica medica, poi psicoanalitica (ricordo che il termine «omosessuale» viene coniato nel 1869). In Italia, però, nonostante il radicalismo di pionieri come l’ebreo-livornese Aldo Mieli, il primo a considerare l’omosessualità un fatto del tutto naturale, e il ruolo svolto dalla sua «Rassegna di studi sessuali», l’«inversione rimaneva una perversione, e gli studi psicoanalitici non andarono oltre alcuni lodevoli interventi (Servadio, Musatti); al regime erano più congeniali l’indirizzo endocrinologico o l’approccio organicista alla Lombroso, quando non le teorie di Otto Weininger, il cui Sesso e carattere, apprezzato anche dal duce, ebbe una larghissima diffusione italiana.

A ciò bisogna aggiungere il peso decisivo della Chiesa perché, nonostante le divergenze e gli attriti tra potere cattolico e fascio, per quanto riguarda l’omosessualità, e specificatamente l’orribile sodomia, prevalse una sostanziale intesa: un vizio abominevole tra peccato e reato. E benché, sul piano giuridico, il codice Rocco avesse derubricato il reato omosessuale, anche perché «per fortuna in Italia non era così diffuso», questo non impedì al fascismo di spedire tante e tante persone al confino o in carcere o in manicomio.

L’accusa di omosessualità, con l’esclusione sociale che ne seguiva e che spesso colpiva anche la famiglia dell’accusato, divenne col tempo e col consolidarsi delle gerarchie di partito una terribile arma di calunnia, di controllo, di delazione: tra tanti episodi, Benadusi riferisce dell’emblematica vicenda di Augusto Turati che, dati i conflitti con Farinacci, finì, con l’accusa di pederastia, prima in manicomio, poi in esilio a Rodi; oppure del dossier accumulato da Mussolini sul «vizietto» di Umberto di Savoia, che avrebbe dovuto servigli per ricattarlo e probabilmente per arrivare a eliminare la monarchia.

Ma dove il saggio è più sapidamente ricco di dati e documentazione è sulla capillarità della repressione omosessuale durante il ventennio e sui modi con cui veniva perpretata. Ovvio che, vista anche la particolare concezione o disposizione, più o meno presupposta, dell’omosessualità in area mediterranea, dove si è sempre operata una distinzione tra pederastia attiva e passiva, l’omosessuale maschio nerboruto, ritenuto attivo, il più delle volte veniva giustificato. A finire come monito al confino erano i «depravati», e cioè i prostituti, gli effeminati, coloro che per natura indole o scelta non potevano o non volevano nascondere la loro diversità: una lunga lista di nomi, di storie, di luoghi, di destini; perfino una località, San Domino, nelle Tremiti, riservata a loro, per tenerli isolati dai politici e dagli «indigeni».

Comunque, un numero esiguo finiva confinato, precisa lo studioso, rispetto a chi veniva tenuto d’occhio e perseguitato dall’apparato poliziesco con altri sistemi, altre torchiature. Altri sono poi i temi importanti che lo studio affronta, che concernono il significato politico della repressione omosessuale, tra cui il fallimento di una formazione di rispettabilità in uniforme opposta a quella borghese. Tuttavia, a mio parere, il merito primo di Benadusi, di questa sua ampia indagine, così ricca di riflessioni e argomenti, è soprattutto quello di aver infranto il silenzio della storiografia sulla dittatura fascista, riguardo a un argomento così rilevante.

A tal punto che, a una strategia dell’occultamento», come afferma Emilio Gentile nella sua prefazione, si può dire che sia seguita, per lunghi decenni del periodo repubblicano, un «occultamento del silenzio». E conoscendo riserve e pregiudizi di tanti storici della sinistra presessantottina non c’è da stupirsene.

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