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"W O IL RICORDO DELL’INFANZIA" DI GEORGES PEREC

Publie le mercoledì 2 novembre 2005 par Open-Publishing

Dazibao Libri-Letteratura Storia Francia

Foto: l’Opificio di Letteratura Potenziale (Oulipo)

Lingua, buco nero
Referto autobiografico di un’infanzia segnata da Auschwitz e insieme allegoria cifrata dell’universo concentrazionario: scritto nel 1975, torna in libreria il vero capolavoro(che smentisce lo stereotipo ludico)del geniale scrittore francese

di Massimo Raffaeli

Una celebre foto scattata nel settembre del 1975 in un giardino di Billancourt, alla periferia di Parigi, ritrae lo stato maggiore dell’Oulipo, e cioè l’Opificio di Letteratura Potenziale, un club di letterati/artisti/scienziati (per lo più matematici) dediti alla sperimentazione e alla combinazione, virtualmente infinita, dei segni linguistici, la cui produttività costoro indagavano sia sull’asse paradigmatico sia su quello sintagmatico.

E’ pacifico che fossero tutti cartesiani, o meglio degli strutturalisti eretici in quanto sedotti dalla plasticità giocosa del linguaggio, dalla sua ludica anarchia: al centro della foto, già anziano e segnato, siede Raymond Queneau, capitano di lungo corso di quell’accolita e peraltro ex Gran Satrapo dell’Accademia dei Patafisici, eredi di Jarry e di una poetica che nella mescolanza di comico e tragico vedeva la risoluzione di qualunque problema immaginario; a sinistra, appena discosto, siede Italo Calvino, da anni parigino d’adozione e agli occhi di tutti pregiato per l’abiura precoce dal neorealismo nonché successivamente laureato a pieni voti grazie all’uscita delle Cosmicomiche e delle Città invisibili.

Dietro il tavolo dei baroni, al centro di una piccola folla, pizzo e capelli crespi, camicia bianca e una sacca di cuoio molto bohèmienne, sta in piedi e parla fitto con qualcuno un giovane affiliato, però così incurante da sembrare capitato lì per caso nel gruppo dei curiosi e dei fotografi.Si tratta invece di Georges Perec, uno scrittore quarantenne cui rimangono appena sette anni di vita.

In quel momento egli rappresenta la quintessenza di uno sperimentalismo senza apparenti confini che ancora - se non in una cerchia ristretta - non ha il coraggio di chiamarsi postmoderno. Perec ha alle spalle non più di due libri riconosciuti: Le cose (1965), una fisica del quotidiano e della banalità della coppia nella società del tardo capitalismo, che lo ha etichettato come scrittore fenomenologo (piace infatti a Elio Vittorini, che lo fa tradurre subito da Mondadori); poi La disparition (1969, per molto tempo inedito in Italia), una prova di forza, una specie di cilicio autoimposto per cui un romanzo di genere tra i più banali, un giallo, viene scritto a partire da una casella vuota, in tal caso la lettera e che infatti non compare mai nelle trecento pagine di un libro composto di ottantamila parole.

Pochi sospettano che Perec stia già lavorando a un’opera dove la struttura modulare postmoderna ambisce all’epica balzachiana, ovviamente La vita: istruzioni per l’uso (1978); i più si contentano ancora dell’immagine di un autore che utilizza i dettagli e gli scarti, la minutaglia del quotidiano vivere/pensare, affascinato dalla classificazione schematica, persuaso che la casella vuota (in quanto e: biografia, esperienza, vissuto), sia proprio lui al tavolo della scrittura, convinto che del mondo si possa parlare a patto di sistemarlo in una griglia già data, in una asettica descrizione, in un erbario, in un cruciverba ovvero in un acrostico.

Nonostante una bibliografia critica di prim’ordine (da noi per esempio un eccellente numero monografico di «Riga», anni fa), Perec tende a rimanere congelato nel luogo comune del virtuoso da laboratorio, dello scrittore bizzarro o comunque tutto di testa, inventivo ma nella sostanza incapace di uscire da un’idea della letteratura come raffinata menzogna e/o premeditata costruzione.

Non molti si accorgono nel settembre del ’75 (e ora come allora) che Perec ha appena pubblicato la smentita secca del proprio stereotipo con W o il ricordo dell’infanzia (riedito, dopo molti anni dalla prima uscita italiana, nella versione di Henri Cinoc, Einaudi «L’Arcipelago», pp. 187, ÷ 12,00), che taluni ritengono a ragione il suo capolavoro.

Spartito in due, a capitoli alterni, questo libro inclassificabile è tanto un referto autobiografico quanto una invenzione allegorica; apparentemente disgiunte, tipografate in tondo e in corsivo, le due scritture sottotraccia si parlano e infine si incontrano in una vera e propria esplosione del senso.

Da un lato c’è l’autobiografia dello scrittore bambino, un orfano che dispone soltanto di poche fotografie e taluni flash memoriali: i genitori ebrei immigrati di origine polacca, il padre soldato (morto per una pallottola vagante nei primi giorni della disfatta), la madre deportata ad Auschwitz e presto dissolta nel nulla, l’Esodo e lo sfollamento, zia Esther e i compagni di scuola che tornano e si affollano alla stregua di un pensiero dominante («La mia infanzia è tra le cose di cui so di non sapere granché.

Eppure è alle mie spalle, è il terreno su cui sono cresciuto, mi è appartenuta nonostante l’ostinazione con cui affermo che non mi appartiene più. Ho a lungo cercato di aggirare o di nascondere l’evidenza. Trincerandomi nell’innocua condizione dell’orfano, del mai nato, del figlio di nessuno. Ma l’infanzia non è nostalgia, e neanche terrore o paradiso perduto o Vello d’oro, al contrario, è forse l’orizzonte, punto di partenza, insieme di coordinate che potranno dare un senso alle direttrici della mia vita»); dall’altro lato, sta l’epopea di W, un isolotto della Terra del Fuoco dove vive una comunità perfettamente ordinata e completamente dedita all’attività sportiva quale glorificazione pagana del corpo, un’Arcadia che riconosce nel principio di prestazione e nelle dinamiche della fisica selezione l’unico legame possibile della vita associata.

Se il cammino a ritroso del ricordo conduce Perec al margine corroso di poche foto ingiallite, alla nebbia di una pura sospensione (oppure al «buco nero» del genocidio, come lo definì Primo Levi nel suo ultimo scritto), l’epopea di W, quasi fosse il suo riflesso allucinato, svela che il principio di prestazione funziona in realtà come struggle for life, che gli atleti o gli adepti di W sono sudditi di un universo concentrazionario tanto più coatto quanto più dissimulato, che infine l’isolotto di W, recluso e insieme protetto, duplica trionfalmente il campo di Auschwitz (e appunto lo è, in allegoria).

Georges Perec non avrebbe potuto essere più chiaro: a quel punto, persino la lettera e del tutto assente nelle ottantamila parole della Disparition può accedere, in retrospettiva, al suo autentico significato di traccia fatta scomparire, di ulteriore prova e contrario del genocidio. Qui sul serio è difficile pensare con disinvoltura ai ludi linguistici dell’Oulipo; semmai tornano in mente certe pagine presaghe, per altra via, di Modernità e Olocausto di Zygmunt Bauman.

Tra i pochi lettori italiani di W, in mente il noto interdetto di Adorno contro l’arte dopo la Shoah, così ne concludeva Alberto Cavaglion (in Ebrei senza saperlo, l’ancora del mediterraneo 2002): «La finzione, il gioco gratuito della lingua e delle combinazioni formali sono stati scatenati dall’esperienza del vuoto, del delitto. Non è vero che non si possa più scrivere, non si può più scrivere come prima (non si può più abitare nello stesso luogo di prima). A suo modo, senza farsi teorico di se stesso, Perec ridà impulso alla letteratura, facendosi partecipe della sua rinascita».

http://www.ilmanifesto.it/rec/recetalpa.html


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