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Democrazia sotto scacco e ruolo del pensiero critico

Publie le domenica 11 dicembre 2005 par Open-Publishing

Dazibao Movimenti Analisi

Colloquio con Pietro Bellasi, docente di sociologia all’Università di Bologna

di Patrizio Paolinelli

Con l’avvento del movimento dei movimenti la contestazione nei confronti dei poteri e dei saperi costituiti sta vivendo una lunga stagione di lotte di cui le marce per la pace e i World Social Forum sono tra le manifestazioni maggiormente visibili. Rispetto ad altri momenti conflittuali, quelli collegati ai partiti della sinistra storica degli anni ’20-‘30 e quelli collegati alle rivolte studentesche degli anni ’60-‘70, oggi la richiesta di nuove forme di democrazia nasce prevalentemente da un processo di autorganizzazione della società.

Questa differenza segna un passaggio epocale. Tuttavia la contestazione dello stato di cose presenti lascia intravedere un filo rosso che forse può permettere di individuare alcune continuità tra i conflitti della dimensione industriale e quelli della dimensione post-industriale.

Tentare di cogliere delle costanti nella lotta tra dominati e
dominatori è una operazione finalizzata a fornire ulteriori strumenti
analitici a chi oggi si oppone alla violenza del neoliberismo e alla
dittatura del pensiero unico. Per farla breve: qual è la relazione
principale che tiene insieme i movimenti di opposizione apparsi da un
secolo e mezzo a questa parte? Con Pietro Bellasi, docente di
sociologia e sociologia dell’arte all’Università di Bologna, abbiamo
ipotizzato che questa relazione può condensarsi intorno ad un modo
d’essere: pensare criticamente. Nei limiti della breve intervista
concessa da Bellasi abbiamo così cercato di cogliere alcuni nessi tra
la Teoria critica della società sviluppata dalla Scuola di Francoforte,
il dissenso antisistema del movimento dei movimenti, la forza di un
pensiero che seppure in forme diverse rivendica l’emancipazione
collettiva.

 

Molti affermano che viviamo in una società post-moderna. Una categoria
in difficoltà ma che resiste ancora. Lo si percepisce per esempio nel
doppiofondo del linguaggio della sinistra moderata. Ma a parte questo,
ciò che permane nella pratica discorsiva post-moderna è un pensiero
precritico. Tuttavia il pensiero critico non è un fatto residuale come
dimostra la presenza della sinistra alternativa e l’affermazione dei
movimenti. Allora la domanda di fondo è: cosa caratterizza oggi pensare
criticamente?


Intanto la presa d’atto di un’assenza: soprattutto nell’analisi
politica e nelle scienze sociali attuali siamo di fronte ad una
mancanza di interpretazione. Non c’è nessun altro termine che colga il
problema della libertà e dell’autodeterminazione quanto il temine di
interpretazione. Vorrei insistere su questo punto perché è la
parola-chiave della teoria critica in generale e della Scuola di
Francoforte in particolare. D’altra parte i componenti di questa
scuola provenivano da una cultura ebraica che per eccellenza è
interpretazione. L’interpretazione è antitetica a qualsiasi pensiero
unico, a qualsiasi pensiero che monopolizzi le persone. Detto questo,
per rispondere alla tua domanda, la caratteristica principale del
pensiero critico è porsi il problema dell’interpretazione del mondo,
delle dinamiche sociali, della partecipazione. In una parola: il
problema della democrazia.


Sul piano dell’agire politico possiamo dire che dal punto di vista del
pensiero critico interpretare significa non accettare la società così
come è...


Sì. Horkheimer e Adorno denunciano il fatto che il neocapitalismo, così
come si definiva allora la fase di passaggio verso la società dei
consumi, è un pensiero di mera duplicazione del reale nel pensiero. Il
neoliberismo, così come si definisce oggi il passaggio del capitalismo
verso la finanziarizzazione dell’economia, è esattamente la stessa
cosa. In fondo l’idea di critica nei francofortesi verte sulla
separazione del concetto da oggetti come la società, la democrazia, la
libertà, la pace. La tensione tra il reale e il concetto, ossia il
reale pensato, è la critica. E questa distanza è l’interpretazione.
Interpretare vuol dire andare contro un’ideologia che tende a
fotocopiare nel pensiero ciò che la realtà è, così come si presenta:
semplicemente, volgarmente, violentemente.


Queste considerazioni permettono di introdurre un tema assai concreto
che peraltro è uno degli oggetti di riflessione del materialismo: la
produzione sociale del dolore. Nonostante i computer, le sonde
spaziali, le biotecnologie noi viviamo in un modo saturo di afflizioni.
Come si pone il pensiero critico dinanzi all’offesa continua e senza
limiti della vita?


Critica come interpretazione vuol dire soprattutto cogliere l’aspetto
distruttivo di ciò che chiamiamo il progresso. Adorno dice che chi si
adatta con prudenza ad un mondo sconvolto si rende partecipe della
follia. In questo caso prudenza vuol dire non avere il coraggio
dell’interpretazione. Per tutti i francofortesi la felicità non può non
misurarsi con la smisurata infelicità di ciò che è. Direi allora che
l’orientamento critico è chiedersi come mai nella contemporaneità
sussista il dolore. E qui ritorna il problema dell’interpretazione. Il
pensiero critico non pone domande prudenti ma estreme, radicali: come
mai il principio fondamentale dei sistemi capitalistici è la violenza?
Come mai la scienza e la tecnica misurano la loro potenza a partire da
strumenti di distruzione? Queste domande non duplicano la realtà. La
interrogano e interrogandola la interpretano. Critica significa
interpretare il mondo, distanziarsi dalla realtà, progettarne un’altra.
Critica significa chiedersi perchè la violenza costituisce la verifica
dell’operatività e della funzionalità del sistema sociale in cui
viviamo e di tutti i suoi sottosistemi. Critica vuol dire porsi il
problema di come mai il dominio sulla natura e sulla società continua
ad essere estraniazione dell’individuo, vale a dire perdita di
coscienza.

L’idea di estraniazione e la perdita di coscienza a cui hai fatto cenno
hanno in qualche modo a che fare con la lunga crisi della democrazia.
Non ci addentriamo su questo rapporto. Rileviamo che il più recente
aspetto della crisi della democrazia consiste nella leggi
antiterrorismo emanate negli USA e più recentemente in Inghilterra. Le
libertà civili, il pluralismo dell’informazione, gli spazi di agibilità
sociale sono oggi fortemente minacciati. Quali strumenti
politico-culturali può offrire il pensiero critico per impedire di
scivolare in società bloccate come quella statunitense e quella inglese?


Qui subentra un altro dei fondamenti del pensiero critico: il concetto
di dominio. Il dominio non cade più sotto la nozione di potere. E’ un
fatto totale che entra nel profondo dell’individuo attraverso
meccanismi messi in atto dall’industria culturale. E’ questo un altro
concetto insuperato della Scuola di Francoforte. Un concetto che per
dirla in breve comprende il cinema, la televisione, la cultura di
massa, la moda, le tante forme di spettacolo e di intrattenimento.
Nell’attuale crisi delle democrazie i poteri si servono di una serie di
strumenti per generare paure e limitare gli spazi di protesta. I
mass-media sono uno di questi strumenti. Forse oggi il principale, dato
che l’azione politica pubblica avviene all’interno dello spazio
mediatico. Accade così che il pensiero unico, dominante negli organi di
informazione, riesca di fatto a imporre un diktat: dinanzi al
terrorismo il venir meno dei diritti fondamentali dell’uomo è una legge
naturale da cui non ci si può sottrarre. Anche in questo caso non c’è
analisi, non c’è interpretazione ma semplicemente constatazione di
quello che è. Il discorso viene politicamente chiuso all’interno di un
modello discorsivo al di fuori del quale c’è soltanto utopia, fantasia,
estremismo. Ecco che allora la produzione di paure collettive è
politicamente necessaria. Il pensiero critico smaschera questo agire e
afferma che le leggi speciali altro non sono che la duplicazione del
fenomeno terroristico nel terrore del terrorismo.


Come tutti i dispotismi anche quello neoliberista non si limita solo a
mettere in moto stringenti meccanismi di controllo sociale e di
autocontrollo individuale ma crea anche una serie di pregiudizi. Questi
pregiudizi da un lato servono come collante per una società di persone
infelici e dall’altro permettono di scaricare l’aggressività accumulata
in una vita frustrante verso nemici immaginari. Riappaiono così
fantasmi che fanno a pezzi la democrazia quali il militarismo e il
razzismo...


Il pane che l’industria culturale e i media ammanniscono agli uomini
non cessa di essere la pietra della stereotipia. D’altra parte, la
crisi delle democrazie occidentali attira l’aggressività sociale nei
confronti dei deboli. Attraversiamo un momento storico in cui il
sistema di dominio deve ritrovare una maggiore sicurezza. E questa
maggiore sicurezza la ottiene verificandosi contro gli immigrati, i
lavoratori precari, i nuovi poveri. Nella loro immoralità i centri di
permanenza temporanea dimostrano l’accanimento del dominio nei
confronti di chi è socialmente penalizzato: l’immigrato
extracomunitario che fugge dalla miseria e dalla guerra della sua terra
d’origine. Dicevano i francofortesi che la debolezza attira coloro che
non sono mai riusciti a compiere il doloroso processo di
civilizzazione, consistente nella repressione degli istinti, e che
negando le loro paure si sentono in dovere di mostrare la propria
forza. Il dominio nella post-modernità è ancora più oggi il sintomo di
una grande frustrazione: quella di non aver saputo trasformare il
progresso scientifico-tecnologico in civiltà, in maggiore democrazia,
in maggiore libertà. Insomma, in vittoria contro il dolore e in
realizzazione di un benessere diffuso che la tecnologia potrebbe
rendere possibile. Su questo fallimento il dominio alimenta
l’aggressività contro indigenti e nazioni povere. La condizione di
miseria estrema in cui è stato gettato un continente ricchissimo come
l’Africa è sotto gli occhi di tutti. Davanti all’immensità di questo
dolore si ripete la tragedia degli olocausti.


Le tante anime del movimento e i partiti della sinistra alternativa
avvertono pienamente il pericolo di un precipitare nella barbarie a
livello planetario. La dottrina della guerra permanente, l’esportazione
della democrazia con i carri armati e la tortura di massa, lo
strapotere di organismi finanziari quali il WTO (World Trade
Organization), la Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale
hanno svuotato la politica e in buona parte neutralizzato le sue
tradizionali forme di rappresentanza. Semplificando un po’ possiamo
dire che il potere sostanziale è nelle mani delle grandi multinazionali
e non dei parlamenti. Dinanzi a questa transizione delle forme di
governo verso nuovi autoritarismi i partiti di ispirazione
socialdemocratica sembrano balbettare...


Purtroppo la sinistra riformista sta dimostrando da molto tempo la
mancanza di un’interpretazione che si ponga interrogativi radicali
sulla violenza. Una delle carenze più gravi di gran parte della
politica è proprio quella di non avere il coraggio del pensiero, il
coraggio dell’interpretazione. E’ un limite gravissimo che denuncia il
distacco dalla realtà anche di un’area che teoricamente dovrebbe essere
illuminata. Si tratta di un distacco relativo ma dirompente. Ci sono
tre elementi analitici che il riformismo a mio giudizio dovrebbe
recuperare: primo, prendere atto del fatto che la cosiddetta società
post-moderna mantiene intatti tutti i caratteri fondamentali del
capitalismo; secondo, l’ideologia neocoservatrice è la peggiore delle
ideologie perché non si riconosce e non si fa riconoscere come tale;
terzo, la realtà dell’attuale neoliberismo non è tanto diversa dal
capitalismo di trenta, quaranta anni fa. A questi elementi va aggiunto
che la crescete mercificazione di ogni aspetto della vita fa da base
alla violenza diffusa alla quale ci siamo abituati: il Mediterraneo è
diventato un cimitero di immigrati clandestini entrato ormai a far
parte della nostra quotidianità. Tra uno spot e l’altro la Tv ci dice
quanti sono riusciti a sbarcare e quanti sono affogati. Poi tutto
prosegue come prima in attesa della prossima tragedia. In definitiva:
credo che anche la socialdemocrazia debba tornare ad interrogarsi sulle
cause del dolore e ad interpretare la fase attualmente attraversata dal
capitalismo.


Più volte abbiamo toccato il rapporto tra mass-media, dominio e
società. Come è noto la vita politica italiana è condizionata da oltre
dieci anni da Silvio Berlusconi, un tycoon della comunicazione. Le Tv
di Berlusconi e la pubblicità che le sostiene trasmettono una precisa
idea del corpo, dei sentimenti, della felicità, addirittura della
sessualità. In una parola: trasmettono un senso della vita. Ogni minuto
di trasmissione radiotelevisiva, non solo di Mediaset ma anche della TV
pubblica, la RAI, diffonde un’ideologia fondata sull’individualismo, la
concorrenza, il possesso, l’arrivismo...

Insomma tutto l’armamentario del
liberismo di ieri e del neoliberismo di oggi. Da questo processo la
sinistra si sente estranea, come se avesse a che fare con territori
neutri, spazi di libertà privata in cui in definitiva la politica non
deve entrare. Ed ecco che la pubblicità è la trasmissione più seguita
dal pubblico occidentale. Ecco anche che il primo libro globale del
movimento è No-Logo di Naomi Klein, un j’accuse contro la
colonizzazione della vita quotidiana da parte degli sponsor, contro la
pseudocultura del branding, contro la riduzione dell’esistenza a una
totale integrazione tra pubblicità, marchio e desideri collettivi.
Negli anni ’60 i teorici della Scuola di Francoforte analizzarono il
processo di penetrazione dell’ideologia mercantile nelle tante forme di
intrattenimento di massa e furono spesso criticati dalla sinistra
tradizionale di allora. Poi la scuola di Francoforte è caduta nel più
assoluto dimenticatoio. Ma ha elaborato categorie analitiche che forse
possono essere ancora utili in una società che ha mitizzato lolite e
calciatori e proprio per questo può permettersi di convivere
normalmente con una violenza e un dolore ormai senza misura. Qual è una
delle più significative?

Direi quella di desublimazione repressiva teorizzata da Marcuse. Per
comprendere questo concetto è bene ricordare che per Freud la
sublimazione è un processo che spiega attività umane apparentemente
senza alcun rapporto con la sessualità ma che trovano la loro spinta
nella pulsione sessuale. In questo senso l’arte e l’indagine
intellettuale sono attività sublimate. La desublimazione consiste nel
processo inverso: le energie prodotte dalla pulsione sessuale non sono
più messe a disposizione del lavoro culturale. Attraverso la nozione di
desublimazione repressiva Marcuse intende comprendere gli effetti delle
libertà calate dall’alto. Si tratta di processi che hanno conosciuto
un’affermazione colossale attraverso lo sviluppo dei mass-media. 
Prendiamo proprio il caso della libertà sessuale: ai tempi di Marcuse e
ancor più oggi la sessualità è promossa come stimolo commerciale, è una
voce attiva negli affari della moda e del turismo, è un simbolo di
status. In queste sere mi è capitato di guardare in TV per alcuni
minuti quella cosa da pazzi che è l’elezione di Miss Italia. Questa
forma di libertà di espressione del corpo comporta di fatto una
repressione perché impedisce il lavoro di sublimazione degli istinti e
sbarra il passo alla formazione dell’autonomia individuale rendendo le
persone acritiche e conformiste. Le pseudolibertà concesse dal potere
allontanano da quella che i francofortesi chiamavano la felicità della
conoscenza e la sostituiscono con un surrogato di potere. Lo spettacolo
di Miss Italia comporta che gli spettatori in qualche modo gustino non
la felicità della conoscenza ma la furbizia del loro dominio su quelle
ombre catodiche seminude che vedono dibattersi per due ore di seguito.
Tuttavia, l’accrescimento di tale pseudopotere sulle ombre degli altri
è un’estraniazione dal mondo reale. Questa illusione di libertà devia
il processo di sublimazione, devia la possibile felicità della
conoscenza. Lo spettatore e le spettatrici giocano con quelle ragazze.
Le vedono soffrire, piangere, ridere. Finché a poco a poco resta la
vincitrice: un oggetto del desiderio lontano ed estraneo a cui si sente
il bisogno di conformarsi. Si tratta di un meccanismo ripetuto in mille
occasioni della vita quotidiana che non è separato dalla politica
perché l’appiattimento dei valori culturali sull’ordine sociale
esistente permette la pressoché totale manipolazione dei bisogni. Nel
senso che la manipolazione crea il bisogno, il bisogno a sua volta si
presenta alla manipolazione e così via in un processo senza fine. Il 
risultato è la paralisi della critica e il trionfo del pensiero unico.
Se questa non è politica....


Vorrei chiudere questo nostro colloquio tornando al linguaggio politico
comunemente inteso. Mi riferisco al rapporto tra partiti della sinistra
alternativa, in particolare Rifondazione Comunista, e movimenti. Un
rapporto che conosce alti e bassi ma mai interrotto. Come può
sviluppare ulteriormente?


I movimenti sono tra i pochi aggregati sociali che si sono assunti il
problema del dolore. I ragazzi che partecipano alle marce della pace
credo seguano il suggerimento di Adorno: fissano lo sguardo
nell’orrore. E così riescono a distanziarsi dai meccanismi del dominio
e dell’industria culturale. I mediattivisti ad esempio hanno sviluppato
un comportamento da loro stessi definito: net criticism. In questa
maniera praticano Internet opponendosi a chi vuol fare della Rete un
business o un mezzo di controllo sociale come la Tv. Ecco, direi che
ieri come oggi la teoria critica ci insegna a vedere in minoranze
escluse, giovani, extracomunitari e precari soggettività che prendono
le distanze dalla realtà così come è. Non si lasciano imprigionare.
Aggiungo che non si lasciano imprigionare da nessuna teoria. Neppure
quella critica. Se saranno in grado ne concepiranno una loro in piena
autonomia. Ma va detto che grande è il rischio di essere riassorbiti
dal dominio, dalle piccole utopie fatte su misura per piccoli gruppi
come è tipico della cultura post-moderna. Forse è proprio qui che le
formazioni politiche e un partito come il PRC possono trovare un
proprio ruolo. Non certo quello di incapsulare i movimenti ma di
condurli verso una razionalità più rigorosa, verso una progettualità
che investa il sociale nel suo insieme, verso il sogno di un mondo
senza violenza.

 

Alternative, n° 5 del 2005