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Il prodismo antipolitico malattia senile del girotondismo

Publie le mercoledì 18 gennaio 2006 par Open-Publishing
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Dazibao Partiti Elezioni-Eletti Rina Gagliardi

di Rina Gagliardi

Nella sua ormai trentennale storia, la "Repubblica" ha privilegiato un obiettivo su tutti gli altri: la “modernizzazione” del sistema politico italiano. Via via, mutavano i protagonisti delle campagne sostenute (De Mita contro Craxi, Lama contro Berlinguer, Occhetto e Segni contro il proporzionale, e vari altri), ma l’idea restava sostanzialmente la stessa: finirla con la storica anomalia di questo paese, che era data dall’esistenza dei partiti di massa e in particolare del Partito comunista italiano; superare, in via più o meno definitiva, la natura fortemente ideologica della nostra cultura politica nazionale; marciare verso un bipolarismo di tipo europeo, anzi anglosassone. A tutt’oggi, questo resta il “programma fondamentale” del quotidiano fondato da Eugenio Scalfari: il quale, in coerenza, da anni è schierato con nettezza sia contro Berlusconi e la destra, sia a favore delle componenti più moderate della sinistra e del centrosinistra.

In questo schieramento - ecco la novità relativa - oggi la "Repubblica" tende a cavalcare il “prodismo puro”: non il semplice (e scontato) sostegno al leader dell’Unione, ma un appoggio pressoché incondizionato alla sua leadership nella sua variante, chiamiamola così, più estremisticamente antipartitica e antipolitica. Talora, è stato il professor Parisi a delineare l’essenza autentica del progetto, ovvero una “radicale” uscita dal Novecento e dalle sue ideologie, una nettissima soluzione di continuità con tutte le tradizioni della sinistra. Tal’altra, è stato Carlo De Benedetti a imprimere una cifra più precisa, di classe, alla più generale proposta del Partito Democratico: come quando ne ha chiesto la “tessera numero uno” e ne ha nominato, sul campo, i leader autentici, Walter Veltroni e Francesco Rutelli. Con ciò rendendo palese l’atteggiamento suo proprio, e di una parte della borghesia “illuminata”, nei confronti di Romano Prodi: quella del Professore altro non è che una fase tanto “necessaria” quanto contingente e transeunte.

Intanto, però, è ancora Prodi il leader sul campo: tanto da riprovare a rimettere in discussione la scelta di Margherita e Ds di presentarsi separati al Senato, tanto da far balenare la possibilità, per il 9 aprile, di dar vita a una sua propria lista. Nell’Ulivo tende dunque a riaprirsi la dialettica tra il leader designato e le forze maggiori della sua coalizione - e, in un quadro nient’affatto risolto, la "Repubblica" tende a diventare proprio l’organo del “prodismo”. L’articolo domenicale di Ilvo Diamanti aveva quasi anticipato l’iniziativa del Professore. Mosso dalla preoccupazione che l’ancor rovente scontro sull’Unipol finisca con restituire troppa forza ai Democratici di sinistra, il politologo si era lanciato in una accorata “denuncia” dei partiti e del loro ruolo ingombrante. Chiedeva a Prodi di superare le sue prudenze e chiedeva alla Quercia di sciogliersi - né più né meno - consegnando agli archivi ogni traccia, anche la più residua, della sua storia. Sono le posizioni espresse con quasi quotidiano vigore da altri commentatori di "Repubblica" (Maltese, Berselli ed altri). Del resto, non era stato proprio Eugenio Scalfari uno dei protagonisti del referendum del ’93, tanto da definirlo in Tv come “una bomba ad orologeria messa sotto i partiti”? E non è vero che ormai i principali organi di stampa (anche il "Corriere della sera") tifano forsennatamente per il Partito Democratico, quasi completamente a prescindere dai suoi contenuti, dalla sua possibile fisionomia, dai suoi programmi?

Cerchiamo di capire di che cosa davvero si tratta. Così come viene sollecitato, auspicato, preconizzato, il Partito Democratico sarebbe un soggetto politico nuovo di zecca: la vera chiave di volta per superare tutte le arretratezze italiane. Modellato sul suo omologo statunitense, sganciato da ogni legame organico con gli interessi dei lavoratori e con il conflitto sociale, privo di ogni fisionomia forte, esso avrebbe il compito di costituire attorno a sé un’aggregazione elettorale - capace di coinvolgere la “medietà” dell’opinione di sinistra, gli intellettuali, un po’ di “liberal”, un po’ di borghesi progressisti, un pizzico di ambientalismo, e anche un po’ di movimentismo, purché autocensurato nelle sue sfere d’intervento e nella sua pratica sempre e comunque “compatibile”con l’esistente. Sarebbe, insomma, uno dei due poli nei quali suddividere una politica finalmente normalizzata: del tutto simili l’uno all’altro sulle grandi discriminanti (la politica internazionale e quella economica), la scelta sarebbe ridotta agli “umori” - tra un fronte vagamente progressista e un fronte, più o meno, reazionario. A tutto il resto sarebbe riservato, come massimo, un diritto di tribuna, all’interno di un destino di marginalità.

Ma come mai un’idea come questa affascina, quasi con la stessa intensità, intellettuali (quasi) “radicali” e imprenditori? “Girotondini” antiberlusconiani e borghesi perbene? Estremisti prodiani ed estremisti “riformisti”?

Risposta numero uno. In realtà, nell’immaginario ideologico postcomunista e nelle campagne della "Repubblica", il Pd, il Partito Democratico è da intendersi proprio come una scorciatoia: non è un partito, ma la fine dei partiti. Non è una nuova forza politica, ma l’approdo “necessario” dello scioglimento delle forze attuali. Non è un nuovo inizio, ma la conclusione desiderabile della crisi delle grandi narrazioni novecentesche. Si scrive Pd, ma si deve leggere - almeno per una parte sostanziale - come fine della politica classica, quella fondata sulle grandi categorie della politica europea (comunismo, socialismo, socialdemocrazia, e perfino liberalismo). Si capisce bene, perciò, perché piace a una parte, la meno volgare, del capitalismo italiano. Contemporaneamente, esso - il Pd - non può che piacere a un’intellettualità che è, al tempo stesso in crisi e critica, “libera” e separata, priva cioè di rapporti diretti con la realtà sociale, ma bisognosa di ritrovare una funzione e di esercitare un’influenza. Gli uni e gli altri, alla fine, rispondono alla crisi dei partiti (che c’è) e al degrado della politica (che c’è) con una ricetta dall’apparente semplicità: l’antipolitica.

Risposta numero due. In quanto ideologia antipolitica, il Pd corrisponde ai miti oggi più diffusi dal sistema mediatico: l’efficienza, la competenza, il merito, intesi come valori “in sé”, in qualche modo neutrali e comunque sempre benefici. Se la politica è rappresentata come il regno delle chiacchiere, della retorica inetta, della “fannullonaggine” (come ha detto Berlusconi nel faccia a faccia con Bertinotti), e se in conseguenza i politici di professione sono identificati con burocrazie tanto costose quanto voraci, il Tecnico - ovvero il Non Politico di mestiere - viene esaltato in quanto tale, in quanto detentore in sé e per sé di un potere salvifico.

A destra, Berlusconi ha fatto di questa ricetta - l’orgoglio imprenditoriale e aziendale - una chiave del suo successo, e a suo tempo anche del suo consenso popolare. A sinistra, di Romano Prodi si esalta, in quest’ottica, il ruolo di Professore, di Tecnico, di “esperto” (ciò che è anche oggettivamente fondato). Eppure, in quest’ultimissima fase, se c’è un fallimento conclamato, sotto gli occhi di tutti, non è proprio quello dei Grandi Tecnici (Fazio), dei manager ex-furbi, degli imprenditori, dei raccoglitori puri di ricchezza? Ma la retorica della “società civile” - vaga e indifferenziata, interclassista, priva di soggetti e interessi sociali definiti - resta forte. Un’icona quasi irresistibile.

Risposta numero tre. I fans del prodismo e del Partito Democratico, anche quelli che ci credono davvero, sottovalutano radicalmente il rapporto tra qualità della democrazia - anche della democrazia liberale e rappresentativa - e presenza dei partiti. Non sembri un paradosso polemico: ma è perfino curioso annotare quanto poco ai “democratici in fieri” interessi la democrazia, quanto poco (quasi nulla) questo tema compaia nelle loro riflessioni. Come se l’antica formazione azionista - quella sorta di riflesso ipergiacobino e paternalistico che costituisce tanta parte della cultura politica della "Repubblica" e del suo fondatore - si proiettasse “naturalmente” su intellettuali, opinion maker, analisti. Come se l’ossessione dell’uscita dalle grandi narrazioni novecentesche costituisse, a tutt’oggi, la vera priorità

Ma è anche grazie a quelle narrazioni che, per la prima volta nella storia moderna, si è rotto - o incrinato - il dominio delle oligarchie: le classi subalterne si sono date strumenti di partecipazione, riflessione e intervento, hanno scoperto la militanza in prima persona, in una parola, hanno inventato i partiti di massa. La politica di trasformazione rivoluzionaria, ma anche, allo stesso tempo, un nuovo e determinante innervamento della stessa democrazia liberale. La politica, insomma, non più come tecnica riservata ad una élite di specialisti, destinati ad amministrare al meglio gli interessi delle classi dominanti, ma come riconciliazione tra il cittadino astratto e la persona in carne ed ossa - con il suo essere sociale, i suoi bisogni, le sue sofferenze, le sue gioie. E’ vero che questa epopea straordinaria conosce da tempo una crisi profonda - per molte ragioni che qui non possiamo analizzare. E’ vero che il più grande tentativo rivoluzionario del ‘900 è finito in un disastro - non solo in quella che è stata l’Unione sovietica. Ed è vero che, in conseguenza, non solo il movimento comunista, ma la sinistra, in quanto tale, in tutte le sue varianti, non appare più capace di promettere il futuro. Ma la risposta può essere quella, in fondo molto banale, del nodo gordiano? Se i partiti sono in crisi, se deludono, e gravemente, se sono - talora - una vera schifezza, si può pensare davvero che sia un bene eliminarli? Tagliarli come fossero solo escrescenze fastidiose e ingombranti? Sradicarli a forza? E senza pagare prezzi salatissimi dal punto di vista dello stato di salute della democrazia?

Conclusione (provvisoria). Dunque, da Diamanti a Panebianco, la richiesta è univoca - ed è logico che il bersaglio privilegiato della campagna per il Partito Democratico siano i Ds. Per quanto sia stato fatto dai suoi gruppi dirigenti (quasi) tutto quello che è stato chiesto - dalla Bolognina in poi - non sono né soddisfatti né placati: perché i Ds, a dispetto di tutto, sono un partito, vengono dalla sinistra, ne portano tracce profonde e rispondono comunque ad un popolo. I suoi dirigenti (e militanti) vengono, per lo più, dal Pci - un altro peccato, una “diversità”, una storia, che si possono scontare soltanto con una buona eutanasia. Alla fin fine, può darsi che le sirene della "Repubblica" incantino la Quercia: ognuno decide liberamente il proprio destino. Ma c’è un classico motto della politica classica che potrebbe tornare utile anche in questa circostanza: “primum vivere”...

http://www.liberazione.it/commento.asp?tutto=1

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