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ARMI/L’INDAGINE DI BRESCIA - Beretta connection - di Peter Gomez e Marco Lillo

Publie le giovedì 23 febbraio 2006 par Open-Publishing
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Dazibao Guerre-Conflitti Governi

Pistole della nostra polizia. Rivendute all’Iraq. E trovate anche in mano alla guerriglia. E ora una legge rischia di bloccare l’inchiesta

di Peter Gomez e Marco Lillo

Ci voleva un premier come Silvio Berlusconi per mettere in mano al tedoforo, al posto della fiaccola, una bella pistola fumante. Una Beretta calibro nove, per l’esattezza. È accaduto l’8 febbraio, quando nel decreto per le Olimpiadi, approvato dalla maggioranza a colpi di fiducia, è spuntato un articolo che non riguarda le gare di sci, quelle di bob o la sicurezza dei Giochi, ma la compravendita delle armi da guerra. Due righe in tutto con cui il governo permette ai fabbricanti di mitragliatrici e fucili anche "la riparazione delle armi prodotte" e "le attività commerciali connesse". Nove parole dietro le quali si nasconde l’ennesima legge ad personam, anzi ad armam.

Una legge che salva le pistole di un caro amico e sostenitore del leader di Forza Italia, Ugo Gussalli Beretta, patron dell’omonima industria di Gardone Val Trompia, e soprattutto tenta di mettere la sordina a uno scandalo con pochi precedenti: la svendita da parte del Viminale di migliaia di pistole della Polizia che oggi sparano in Iraq non solo in mano alle forze dell’ordine locali, ma anche in quelle degli amici di Al Zarqawi.

Per capire che cosa è successo bisogna andare a Brescia, in Procura, dove da più di un anno lo storico stabilimento è sotto inchiesta per una storia nera, fatta di armi rubate o senza numero di matricola, di società probabilmente vicine ai servizi segreti e di triangolazioni con la Gran Bretagna. Una storia che preoccupa la Beretta (in caso di condanna potrebbero essere messe in discussione le licenze di fabbricazione) e provoca molti imbarazzi anche a Roma, al ministero dell’Interno. Al centro di tutto, come ’L’espresso’ è in grado di rivelare, ci sono più di 40 mila Beretta della Polizia italiana, metà delle quali già approdate attraverso un giro tortuoso e, secondo i magistrati, illegale in Iraq, in parte anche nelle mani degli insorti. Le Beretta in questione erano quelle in dotazione alla Polizia dal 1978. Quando avevano ormai compiuto la loro gloriosa carriera invece di finire dal robivecchi sono state riacquistate dalla società lombarda. Dopo la caduta di Baghdad, in Iraq si erano aperte ricche prospettive di mercato. Bisognava riarmare le nuove forze dell’ordine e le pistole dei nostri poliziotti, rimesse a nuovo in fretta e furia, erano state spedite sul teatro di guerra attraverso una triangolazione con una società britannica. Il tutto, secondo i pm di Brescia, in violazione delle norme sul commercio di armi.

Il diavolo però fa le pentole, ma non i coperchi. Così l’affare comincia a venire alla luce il 6 dicembre del 2004. Quel giorno viene arrestata una dipendente della Beretta mentre tenta di portare una calibro nove fuori dalla fabbrica. È un’impiegata addetta al magazzino. Ha accesso ai registri informatici della società e i carabinieri, che le trovano in casa altri due revolver, ipotizzano un suo legame con la malavita organizzata calabrese. Inizialmente la donna viene accusata di aver asportato tra marzo e dicembre ben 152 pistole. Ma agli investigatori basta poco per rendersi conto che all’interno del magazzino si sono verificate numerose irregolarità che non dipendono da lei. Come si legge nell’ordinanza del tribunale del riesame, con cui è stato confermato il sequestro della seconda tranche di 15.478 pistole semi-automatiche dirette in Iraq, la Beretta custodiva "armi prive di matricola o con matricola abrasa o ripunzonata, armi prive di punzoni del Banco Nazionale Prove", mentre dal magazzino erano spuntate fuori anche alcune delle 152 pistole che secondo il registro risultavano rubate. In un caso poi viene anche sfiorata la spy-story. Tra le armi conservate in azienda ce ne è una il cui furto risulta denunciato dai nostri servizi segreti nel 1980. È la stessa pistola o sono due armi diverse? Una sola cosa è certa. In fabbrica le regole non sono rispettate. Durante una perquisizione vengono scoperte addirittura centinaia di Beretta 92S "sprovviste di numeri di matricola ed altre che non risultano prese in carico sul registro informatico di Pubblica sicurezza della ditta (che al contrario di quanto accade normalmente viene firmato non dalla questura ma dal sindaco di Gardone ndr)". Un’armeria fantasma in piena regola.

La vicenda probabilmente si sarebbe chiusa qui se, il 14 febbraio del 2005, i carabinieri di stanza in Iraq non avessero comunicato che "alcune pistole Beretta 92S" erano state "rinvenute in possesso di forze ’ostili’". A quel punto l’intera storia comincia a scottare. E minaccia di diventare un caso internazionale. Molte delle armi sequestrate agli insorti risultano "vendute tra il 1978 e il 1980 dalla Beretta al ministero dell’Interno" italiano. Perché? Bastano poche settimane per svelare l’arcano: tra il febbraio del 2003 e l’aprile del 2004, 44.926 pezzi dichiarati "fuori uso" dal ministero erano stati ceduti alla Beretta nell’ambito di due contratti per una nuova fornitura. La società di Brescia le aveva poi ’rigenerate’ e tra il giugno e il luglio del 2004 ne aveva rivendute 20.318 a una società inglese, la Super Vision International Ltd, insieme a 20 mila carrelli di ricambio "per un controvalore di un milione e 398 mila e 826 euro".

Beretta aveva richiesto alla prefettura di Brescia l’autorizzazione all’esportazione. Aveva ricevuto l’ok, ma sui documenti non risultava il nome della ditta acquirente (la sconosciuta Super Vision), ma quello di una seconda azienda con una sede prestigiosa e una storia ventennale: la Heltston Gunsmith. Secondo gli investigatori non è una semplice casualità. Se fosse emerso il nome della Super Vision la licenza all’esportazione sarebbe stata negata o ritardata. Il prefetto, come spiegano i giudici, deve infatti poter assumere informazioni sull’affidabilità dell’acquirente e in questo caso non ha potuto "sapere in anticipo la reale destinazione finale della merce, ovvero l’Iraq, ed eventualmente sospendere l’esportazione".

Il commercio delle armi è regolamentato in maniera severa. A partire dal 2001 i controlli sono diventati ancora più stringenti. Da tre anni a questa parte poi il ministero dell’Interno richiede sempre il certificato ’end user’ (utilizzatore finale) e soprattutto lo valuta, incrociandolo con le relazioni del Sismi sulla situazione politica del paese realmente destinatario delle armi. Proprio per questo il ministero ha bloccato grosse forniture Beretta in Centramerica, Medio Oriente e Asia. La cosa, ovviamente, ha infastidito molto l’azienda. Ugo Gussalli Beretta, un uomo talmente legato da rapporti di amicizia a Berlusconi e alla famiglia del presidente americano Bush da essere stato proposto come ambasciatore italiano a Washington (vedi scheda in questa pagina), ha attivato i suoi canali politici per lamentarsi della burocrazia divenuta, a suo dire, troppo rigida. Il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Gianni Letta si è così rivolto al ministro Giuseppe Pisanu che ha fatto pressioni sul proprio apparato. Ma le procedure non sono cambiate.

Un bel problema per la Beretta che a partire dal 2003, con la caduta di Saddam Hussein, vuole finalmente rientrare in un mercato precluso da anni. Grazie all’accordo con il ministero dell’Interno vengono ritirate a un prezzo bassissimo, pare inferiore ai dieci euro, le vecchie pistole (qualificate come ’fuori uso’ anche se spesso sono perfettamente funzionanti) e già in questo caso ci si muove con disinvoltura. I quasi 45 mila pezzi arrivano a Brescia senza che il ministero della Difesa (come previsto da una legge del 2000) ne abbia deliberato la dismissione. Da questo punto di vista, secondo i giudici, "la stessa cessione delle armi da parte del ministero (dell’Interno, ndr) appare illegale". Non solo: Beretta non ha più dal 2002 la licenza per riparare le armi. Quindi non può nemmeno rimetterle in funzione per rivenderle. L’azienda non se preoccupa. Comincia le spedizioni e solo quando la merce è già partita chiede per via ufficiale di esportare in Iraq armi destinate alla Cpa (Coalition Provisional Authority), il governo provvisorio di Baghdad. Ma, di fronte alle domande di chiarimenti, rinuncia. E, proprio in quel periodo, conclude la triangolazione con il Regno Unito.

Poi iniziano i problemi. Prima l’arresto della dipendente infedele. Quindi il ritrovamento da parte dei carabinieri delle nostre vecchie armi impugnate dagli insorti. Evidentemente qualcosa in Iraq è andato storto. Alcune Beretta 92S sono passate di mano. Nel caos del dopo Saddam la polizia locale le ha cedute alla cosiddetta resistenza. L’11 febbraio del 2005 Pietro Beretta, il figlio di Ugo, annuncia che l’azienda "è vicina" ad aggiudicarsi dei contratti di fornitura per la polizia e il nuovo esercito iracheno, ma spiega che "le procedure di acquisizione, attraverso i contractor, non sono proprio semplici". In realtà, come dimostra l’informativa dei carabinieri redatta solo tre giorni dopo, molte Beretta già sparano a Baghdad.

A quel punto l’azienda di Brescia si trova di fronte a un mare di guai. Il 20 aprile la magistratura dispone il sequestro delle restanti 15.478 vecchie 92S ancora in magazzino ma già vendute e pagate dall’inglese Super Vision International ltd. Una settimana dopo Ugo Gussalli Beretta presenta ricorso al tribunale del riesame. In ballo non c’è solo un affare valutato complessivamente più di due milioni e mezzo di euro. C’è molto di più. Un eventuale processo e un’eventuale condanna potrebbe portare al ritiro della licenza di fabbricazione. E se la licenza dovesse essere ritirata la Beretta dovrebbe essere venduta a un’altra società in regola. Davanti ai giudici della prima sezione penale del tribunale l’azienda si difende così con le unghie e con i denti. Sostiene che avendo già in mano una licenza che gli permette di fabbricare armi, detenerle e poi venderle, non era necessario richiederne una seconda per ripararle e commercializzarle. Aggiunge che le Beretta 92S non vanno considerate armi da guerra (e quindi soggette a particolari restrizioni). Afferma di "aver notiziato il capo della Polizia della destinazione finale delle pistole". I giudici del riesame le danno però torto su tutta la linea. Anche per loro sono state violate "le norme in materia di acquisto, riparazione ed esportazione". Il sequestro delle pistole è confermato.

Si cominciano così a battere altre strade. Tutte politiche. La Beretta insiste col ministero nel chiedere la semplificazione delle procedure e Pisanu preme sull’apparato. Poi si apre uno spiraglio: il decreto sulle Olimpiadi. All’improvviso il governo cambia la legge: chi fabbrica pistole può anche ripararle e commercializzarle. Poco importa se già il tribunale aveva spiegato quale fosse la ratio di una norma "che mira a proteggere l’ordine pubblico interno e internazionale ponendo sotto rigido controllo ogni passaggio e trasferimento di ogni singola arma". Una legge che se ignorata porterebbe all’assurdo di rendere non punibile la commercializzazione, da parte di chi ha una generica licenza di detenzione e vendita di armi, di pistole e fucili provento di furto. In molti tirano un sospiro di sollievo. E non solo a Brescia, ma anche a Roma, dove decine di migliaia di pistole sono state vendute come "fuori uso", quando bastava un po’ di grasso per permettere loro di ricominciare a sparare.

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Messaggi

  • Caccia grossa con i Bush

    Affari, amici e passioni di Ugo Beretta

    di Peter Gomez

    Fin da ragazzo trascorre negli Stati Uniti dieci giorni al mese. È amico della famiglia Bush che ha cominciato a frequentare alle convention del Safari Club, il circolo esclusivo degli amanti della caccia grossa. Con Bush senjor e junior non discute però solo di fucili da imbracciare e animali da stecchire. Spesso parla di più concreti finanziamenti elettorali. La sua azienda appoggia infatti la National ryfle association, la lobby dei produttori di armi, che lui ama descrivere come "un’associazione che difende il concetto del diritto all’autodifesa. Un diritto sancito dalla Costituzione americana". Non deve stupire perché Ugo Gussalli Beretta, 67 anni, tredicesimo erede della dinastia industriale più antica d’Italia, non è un uomo che ama i giri di parole. Ma un imprenditore. Un imprenditore fino al midollo. Anche per questo Silvio Berlusconi

    nel 2002, quando si trattava di nominare un nuovo ambasciatore negli Usa, pensa a lui. Gussalli Beretta prima sembra lusingato. Poi, non appena esplodono le polemiche delle organizzazioni pacifiste, si tira indietro: "Non sono disponibile, ho un’azienda da seguire". I rapporti con il presidente americano restano così quelli di sempre: più commerciali che politici, con George Bush junior che per andare a caccia imbraccia un Beretta S09, un fucile da soli 3,2 chili e ben 45 mila dollari di prezzo, veste con giubbotti Beretta e si rifornisce alla gallery Beretta di New York di cravatte di Marinella, stampate apposta per lui. Pure in Italia il feeling è tutto con il centro-destra, anche se Gussalli Beretta, non fa mistero di non aver mai apprezzato le spinte secessioniste della Lega Nord ed aver sempre preferito le posizioni di Gianfranco Fini e di Berlusconi. Nonostante questo, delle proposte della Lega ne salva una: la nuova legge sulla legittima difesa. Da sempre, del resto, è solito ripetere: "Il cittadino deve aver il diritto di difendersi se lo Stato non riesce a proteggerlo. Poi, certo, le armi bisogna saperle usare. Ma è un problema di istruzione. Credo che non si farebbe male a mandare i ragazzini al poligono di tiro".

    Occhi da orientale, faccia tonda e baffetti sottili che fino a qualche hanno fa riportavano alla mente quei caratteristi che nella Hollywood del primo dopoguerra impersonavano gli affaristi cinesi, Ugo Gussalli Beretta vive a Gardone Valtrompia, poco distante dai 75 mila metri quadrati della sua azienda, in una singolare residenza tra il liberty e il neogotico, progettato da suo nonno Pietro e da un amico, l’architetto Dabbeni. Due figli, poco più che quarantenni, i quali si occupano delle attività di famiglia (accanto alle armi, ormai c’è anche un’importante produzione di abbigliamento e di spumante), Gussalli Beretta ha pure aperto una fabbrica nel Maryland, rifornisce di Beretta 92

    le Forze Armate e le polizie di Stato americane, ma anche la Gendarmerie nationale francese e la Guardia Civile spagnola. Il settore militare, pur restando il fiore all’occhiello dell’azienda, in termini di ricavi sembra destinato a pesare sempre meno, appena il 7 per cento su un fatturato consolidato da 388 milioni di euro nel 2004, contro i 369 milioni del 2003.

    Un impero che la famiglia Beretta controlla attraverso la Beretta holding che a sua volta fa capo alla Upifra, una società di diritto lussemburghese il cui acronimo sta per Ugo-Piero-Franco, i nomi cioè di Gussalli Beretta e dei figli. In passato Beretta è stato presidente degli industriali bresciani (dopo Milano e Torino la più importante associazione d’imprenditori d’Italia), ma il vero circolo a cui tiene di far conoscere la propria appartenenza è il Club internazionale Les Hénokien: l’associazione che riunisce le famiglie con alle spalle una storia industriale almeno bicentenaria e che al momento annovera appena 19 soci. Beretta, del resto, a una praticità completamente yankee sembra unire l’eccentricità della vecchia aristocrazia industriale europea. In un intervista ha detto: "Bush caccia di tutto, soprattutto volatili. Io invece amo l’Africa e gli elefanti". In che senso ama gli elefanti? "Nel senso che gli sparo".

    Premiata Ditta Pallottole

    La Beretta è la più antica azienda del mondo: nata nel XV secolo, è citata nei documenti a partire dal 1512. Appartiene alla stessa famiglia, non ha mai cambiato sede restando radicata a Gardone Valtrompia, nel cuore del distretto bresciano degli armaioli, e continua a produrre fucili e pistole da sempre. Leader nelle carabine da caccia, solo negli anni Trenta si è imposta sul mercato militare con la pistola 34 e il fucile mitragliatore Mab.

    Durante la guerra alleati e nemici facevano di tutto per avere una Beretta 34, considerata migliore della celebre Luger, e dopo l’8 settembre i tedeschi presero il controllo della produzione. Nel dopoguerra dopo una fase di crisi, il boom. Esordisce con il mitra M-12, quello del simbolo di Prima Linea: una delle icone degli anni di piombo. Poi la Beretta 92, oggi sinonimo di pistola in tutto il mondo: dopo avere vinto la gara per le Forze armate americane, è stata venduta a decine di eserciti e centinaia di polizie. Infine i fucili a pompa Benelli e Franchi, adottati dai marines: due marchi inglobati rendendo di fatto Beretta monopolista in Italia.

    Gli altri prodotti militari languono: il fucile d’assalto AR 70/90 non è stato esportato, la nuova pistola Cougar - fatta impugnare con mossa di marketing agli ultimi James Bond del cinema - viene promossa da poco mentre la mitraglietta Storm è appena entrata sul mercato. In più le mode belliche portano i colonnelli stranieri verso calibri più potenti di quelli tipici degli armieri bresciani.

    Ottimi invece i risultati nel settore delle armi da caccia, soprattutto con i ricchi clienti arabi e statunitensi che spendono migliaia di euro per personalizzare le loro carabine. Inoltre è stata lanciata una linea di abbigliamento sportivo, con buoni risultati negli Usa. Il tutto per una holding che ha 2.500 dipendenti.
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    • "L’industria delle armi, o come per pudore si dice ora "della difesa", è quella che vanta oggi il maggior fatturato nel mondo, superiore anche a quella energetica e chimico-farmaceutica. Gli interessi che gravitano intorno a questa industria condizionano le politiche di tutti i governi e le economie di tutti gli stati. Non ci si deve pertanto meravigliare che anche l’Italia faccia la sua parte con Beretta e con le sue armi quasi-giocattolo, essendo le vere armi, quelle di distruzione di massa, monopolio esclusivo degli Stati Uniti. Per l’economia capitalista il commercio delle armi è fondamentale in quanto consente si superare le crisi cicliche di questo sistema , rimettendo in circolo una enorme quantità di plusvalore che non potrebbe essere riassorbito dal normale circuito di consumo. Si tratta di un fenomeno strutturale connaturato al capitalismo e di fatto ineliminabile."
      MaVinella