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Lettera aperta agli studenti francesi da un vecchio ragazzo del “maggio”

Publie le lunedì 13 marzo 2006 par Open-Publishing
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Dazibao Lavoro - Disoccupazione Movimenti Scuola-Università Francia Oreste Scalzone

di Oreste Scalzone

Carissim“i” (carissime/i “student’ in lotta”), c’è un imbarazzo a rivolgermi a voi così. Il primo disagio, è l’aspetto di formula comunicativa, non di vera e propria lettera realmente indirizzata alle persone formalmente destinatarie. Però poi, questa “finzione”, questo come se, può diventare interessante: c’è un “effetto di parallasse” creato dal doppio funambolismo mentale a cui devo forzarmi (pensarmi come Vecchio, con conseguente esternità/estraneità); mettermi nei vostri panni, senza mai “perdermi di vista”, e cioé sapendo che lo sto facendo; scrivere questa lettera in italiano, rivolta a un “destinatario plurisingolare”, italianofono, dunque “parlare a nuore”..., almeno nell’immediato.

Iersera...parto dall’inevitabile, strana emozione provata in quella piazzetta, come allora “teatralizzata” da fuochi, musiche, rumori, fumo acre (e, loro non sanno, anche un po’ eccitante) delle granate lacrimogene, dove restai così impressionato in quella sorta di “Gran Teatro della Rivoluzione”, trentott’anni fa, ‘na sera ‘e maggio del secolo scorso... la comune come festa. Disagio, anche perché l’incipit inevitabile me ne richiama un altro: non mio...“Vi odio, cari studenti... ”, cominciava un testo di Pasolini dopo gli scontri romani di Valle Giulia nella primavera Sessantotto. Lo lessi, sull’Espresso, qui a Parigi... allora ci fu scandalo. Ed era sbagliato.

Comprensibile, ma sbagliato. Perché c’era sicuramente un errore teorico: Pasolini non vedeva la relazione tra la scuola del tempo e le modificazioni indotte dallo sviluppo capitalistico, ma non era grave: non credo che Pasolini si pretendesse “filosofo”, o “teorico”, nel senso un po’ ‘disciplinare’ che il termine aveva nel lessico “marxistese”. Grave era forse di più l’ipse dixit, quando esso devolve la facoltà, e anche la responsabilità, di pensare, ad un ceto di pensanti a nome e per contro d’altrui.

Cosa che in sé non è invece incompatibile con un certo tipo di egualitarismo... demagogico, ma andiamo oltre... Pasolini, dunque, non aveva una lettura marxiana della società, di uomini e cose, di fatti e cose. Non maneggiava né amava scatole di attrezzi concettuali che dovevano sembrargli aride: estrazione del plusvalore, rapporto di capitale, forma merce, Denaro come metamerce, merce misura delle altre merci ecc. Preferiva termini non codificati, come poveri, umiliati, offesi, oppure oppressori, oppressi, borghesia, ingiustizia, al più “sfruttamento” Aveva tuttavia una coscienza drammatica, empatica, fisica (ho male alla testa e all’universo; America che tossisci tutta la notte sotto le mie lenzuola e non vuoi lasciarmi dormire... di Ginsberg) - dello sfacelo logopatico, terminologico, concettuale, fino agli stupri semantici... sfacelo etico, dunque antropologico, della specie umana.
Ma non delle modificazioni della forma della produzione, della composizione organica del capitale, della composizione di classe. Pensava ancora agli studenti come i figli dei borghesi, quando già la riforma della scuola e le esigenze del nuovo mercato del lavoro, generati da quel modello d’accumulazione, aveva fatto irrompere nelle università i figli degli operai...

Ed oggi? Io vorrei prima di tutto ricordare, non per loro, ma per voi e tutti noi, l’importanza della sollevazione, insorgenza, incendio, insurrezione riduttivamente detta delle banlieue... Recita uno slogan dilagato a/traverso il mondo, “Un altro mondo è possibile”. Ma qui, per non dare niente per “scontato”, facciamo qualche passo indietro. Chiariamo intanto che un altro mondo, incessantemente diverso, è il cosiddetto sistema che lo produce e riproduce, vertiginosamente e catastroficamente. Il “sistema”: cioè, cominciamo col dire, quel “modo di produzione capitalistico” che io chiamerei “sistema mondiale integrato, tecno-economico-politico, cioè capitalistico & statale” (variamente chiamato, “modernità Mondo”...) che si è comunque totalizzato perché, ubiquo, sta sotto le logiche, i modi della razionalità, le leggi di funzionamento delle società.
E’ un sistema cui non sfugge neanche la più “antagonistica” delle entità, delle Patrie, Stati, regimi, o aspiranti tali. Questo modo di produzione è proprio figlio di quel capitalismo, che nel Manifesto dei Comunisti era definito “il modo di produzione più rivoluzionario mai apparso sulla Terra”. Nella più vertiginosa delle ambivalenze, come è ambivalente l’oppio, di cui non a caso Marx usa a proposito della “alienazione religiosa”: grido dell’uomo oppresso in un mondo senza sacro... illusionismo autoincantatorio che consola, ma occulta la nuda catena dello sfruttamento con fiori di carta, per impedire che venga spezzata...

Quando diciamo “un altro mondo”, diciamo dunque non solo fuori dallo stato, ma dal moto, dall’insieme di dinamiche, tendenze, controtendenze, risultanti... del modo di produzione e riproduzione della vita. Diciamo perciò prima di tutto una vita diversa, radicalmente. Diciamo fuoriuscire, ma questo esodo comincia dalla testa, dal desiderio, dai sogni e dalle lotte, dalle scommesse, ed è la base della possibilità di de/costruire, esorbitare, come un fiume che comincia col tracimare, poi esce dagli argini e finalmente li dissolve, per prendere un altro corso... Alla domanda se questo rivolgimento radicale è necessario, mi sembra si debba rispondere sì, è necessario. Di fronte all’immensa piaga che è il mondo, non possiamo abbandonarci, o peggio consolarci con un tardivo determinismo, sia pure misticamente provvidenziale, o magari aggrappato a una pseudo filosofia neo-idealistica della Storia. Non so, non saprei se si va al meglio, o all’ancor peggio. Anche quando dati e competenze d’expertise suggeriscono che si va ad una catastrofe eco-sociale (buco nella calotta d’ozono, OGM, desertificazione ecc.), non sappiamo se esista nella stessa tecnoscienza un principio di feed-back, che rende queste previsioni estrapolazioni al limite, apocalittiche, propagandistiche, che non tengono conto dei processi reali e della complessità delle risultanti. Su questo, si dice e si contraddice, e si resta sempre al palo di un immenso Rashomoon, in cui ciascuno vede ciò che vuol vedere. Ritenendomi però “materialista critico”, cioè non “volgare”, talmente materialista da piombare a piedi uniti nella metafisica, penso che - per questa specie umana che, si dice, sia caratterizzata dalla parola - il mentale è materialmente decisivo.

Una specie, la nostra, “pericolosa” perché essendosi affrancata dal naturale, cresciuta nella libertà, nella cultura, in parte produttrice della propria condizioni d’esistenza, non è più regolata dal semplice istinto di autoconservazione della specie che, persa la sua dimensione collettiva e sociale, è ridotto a un istinto individuale. Dunque, il problema è il mentale. Ora, seguiamo il filo di un ragionamento. Se la crescita economica si fosse legata ad una estensione planetaria del modello “fordista” degli anni del pieno impiego e della produzione di beni di consumo durevoli, come asse dello sviluppo, è chiaro che questo benessere - l’egualianza applicata al “paniere” dei beni - avrebbe portato all’ecocatastrofe inevitabile.

Se, al contrario, avesse teorizzato una sorta di sterminismo, per applicare l’uguaglianza solo a pochi eletti, si sarebbe avuta una globalizzazione di tipo nazistico. In realtà, non per decisione di uno Stato Maggiore o di un Grande Fratello, ma come risultante della complessissima interazione “fra tutto e tutto”, il modello, dunque la tendenza dominante, è stato quello di una centralità strategica della produzione di merci immateriali a mezzo di merci immateriali (diciamo, relativamente immateriali, perché anche l’energia è in ultimo materiale). Questo significa che l’economia è diventata illusionista. L’antica coppia bisogni(crescenti) /risorse(scarse) è azzerata, perché al bisogno si è sostituito il manque artificiale: lo stato carenziale del tossicomane. Sul piano delle caratteristiche merceologiche, dei valori d’uso, l’ossessione della velocizzazione, dell’intensificazione parossistica della produttività ha fatto sì che le merci “regine” diventassero sempre più ambivalenti: ne è specchio la Pubblicità, che ci bombarda di ingiunzioni autocontradditttorie, magnificando merci-miracolo e al contempo allungando la lista degli effetti negativi secondari e lucrando anche su questa...

Più in generale, sul piano sociale, si promette il rischio-zero, la fine delle malattie, la cura delle malformazioni, lo spostamento della frontiera della morte, ma al tempo stesso si “vendono” sul mercato politico crescenti paure, terrori, oscure minacce da fantascienza/fantapolitica, incubi di processi incontrollabili, mostruosi mutanti. Un esempio clamoroso: la miracolistica attesa (e ricerca) dell’elisir di lunga vita, e la catastrofe reale delle società che invecchiano, dei vecchi che vegetano, dell’assistenza impossibile, dei già vecchi che sono ancora figli.... Questo dell’ambivalenza dei messaggi, va assieme alla realtà e impressione di globalizzazione reale, cioè di localizzazione del mondo nella testa di ognuno. Il nostro territorio di prossimità diventa - in una alternanza tra synopsis e blow up realmente possibili e in più simulati - l’intero globo, l’insieme dei suoi territorî esistenziali, e al contempo ogni “locale”, minuziosamente circostanziato.

E’ evidente che, su questa base, l’impegno diventa solo sofferenza estrema, impotenza a capire ed agire, esercizio di una denuncia, una querimonia incessante non si capisce rivolta a chi, ad uso di chi. Se la visione è globale, occorre un riduttore di complessità, una “chiave” forte: per l’ideologia liberale del capitalismo questa era la risposta di Adam Smith, la fine della penuria verrà assicurata dagli spiriti animali della capitalizzazione, il narcisismo primario trasformato in forza demiurgica imprenditoriale, alla fine, secondo questa ideologia, la ridda degli egoismi si auto-equilibrerà.

Per Marx, il principio attivo è invece l’autonomizzazione singolare e comune degli umani, il cui “Dna” esiste in ciascuno e nell’insieme. Questa comune autonomizzazione è stata inibita, mutilata, compressa, confiscata dalla società del capitalismo e dallo Stato moderno, come l’acqua immessa in condotte forzate, obbligata in un percorso deciso da una regola estranea ad ogni sua molecola. Ecco, io ritengo che siamo arrivati alla soglia, o forse siamo già oltre: il proseguimento del sistema capitalistico-statale non può che risolversi in uno sfacelo semantico, concettuale, etico, mentale. Epperò - dobbiamo dircelo - l’emergere spasmodico, incoercibile del bisogno di uscire da questo “sistema”, lungi dal produrre una coalizione, una confederazione dei piccoli contro il grande (o i grandi), delle genti del “sotto” contro i sovrastanti, ha innescato innanzitutto il crescente scannarsi tra poveri, la crescita di una competizione, di una concorrenza a morte...

Ad esempio ci sono sempre più movimenti che reclamano un riconoscimento dall’alto, chiedono che lo Stato certifichi e legalizzi persino i sentimenti, che sia braccio secolare del bisogno di giustizia per elaborare il lutto, cosicché l’idea di giustizia diventa penale e sempre più attizza risentimenti, invidie mortali, altri odii e vendette. Reclamiamo una sanzione universale, oggettiva, come un nostro primato di legittimità, ma proprio così ci uniformiamo, perdiamo autonomia, diventiamo faziosità scatenata tra identici... Finiamo per accusarci l’un l’altro, in nome degli stessi “Principii Universali”, che intanto cancellano la dissimmetria “di classe”... Un po’ come i politiciens che nei plateau televisivi esprimono un’aggressività da polli d’allevamento, senza nemmeno più una traccia - per ipocrisia, per demagogia - di rivendicazione della difformità e incompatibilità di interessi e soggetti, accusandosi vicendevolmente di essere indegni di far parte della “classe dirigente”... Tutto questo per dire, che arrivati a questo punto, noi dobbiamo rompere ogni rispecchiamento, ogni dialettica con questa follia del sistema. Il discorso sarebbe lungo. Ma, devo dire senza poterlo qui dimostrare, che il “virus” di questa condanna a risultare il contrario di ciò che si vorrebbe, a mio parere ha radici lontane. Questo diventar controrivoluzionaria della rivoluzione, possiamo scorgerlo negli anni immediatamente seguenti alla straordinaria vicenda e al brutale schiacciamento della Comune di Parigi. L’idea (incarnata all’epoca da un a voi sconosciuto Ferdinand Lassalle) che lo strumento dell’emancipazione dei proletari potesse essere lo Stato; e contemporaneamente l’idea che si dovesse delegare la propria autonomizzazione ad un ceto specializzato, di politici, di intellettuali, alla fine di governanti “di professione”, ha prodotto un esito esattamente contrario. Per questo dimenticare il Novecento, dimenticare Seconde, Terze e anche quarte e quinte Internazionali, e anche le ideologie di sostituzione è assolutamente necessario.

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Messaggi

    • Lettera aperta agli studenti francesi 2^parte

      Mi permetto di approfittare, epperò “a carte scoperte” (dichiarando il gioco, il che rende limpido l’espediente comunicativo) del carattere apparentemente “sghembo” di questa “Lettera aperta” agli studenti francesi -ribellatisi contro una legge che rilancia e santifica una proliferazione colossale del precariato; lotta, movimento che va dilagando e si è trovato un epicentro altamente simbolico, Sorbona occupata e barricate sul Boul’Mich’, con annessi e connessi, che anche volendo non possono non diffondere, come la madeleine della Recherche proustiana, un profumo di remake - per dire alcune cose che probabilmente risultano a prima vista un po’ astruse a lettori e lettrici ventenni, in Italia o in Francia o altrove.

      Cose, che possono risultare un po’ “esoteriche”, strizzate d’occhio tra addetti ai lavori. Vero: ma si deve scrivere solo perché chi legge si rassicuri, trovando ciò che sa già, o suppone sapere, trattandolo come il cane di Pavlov; oppure per stupire, angosciare, “stressare”, sgomentare? Certo, per lo più così si fa, cosi’ si fa “in alto” - si fa “dall’alto in basso”. Cosi’ si fa, in primo luogo, nell’immensa “cronaca nera” in tempo reale assestata dai media, così come in tanta fiction “nerissima”, da incubo: si fa cosi’, nella definizione dei confini fra cronaca, fiction, “reality-show”, genere “fantastico”... Come osserva Debord, nella una “follia del capitale”, al di là di una certa soglia, «il vero diventa una figura del falso». Che si fa, si concorre all’abbassare l’attività del pensare all’esibizione alterna di un «latinorum» esoterico, buono a mettere-in-soggezione, vero e proprio «terrorismo intellettuale» che semina sgomento, mobilita forse, ma solo in forme di “psicosi collettive”, che mette in uno stato di vertiginosa frustrazione e di dipendenza per inibire immediatamene ogni fermento di autonomia, di critica, di messa-in-comune? O si partecipa di una riduzione del pensare a “pensiero-propaganda”, forma estrema di un pensiero ridotto a slogan da spot pubblicitari, quale quella che trionfa, con minime eccezioni, negli arenghi dello spettacolo “porno” del confronto pre-elettorale?

      Ho pensato dunque di approfittare del gioco e delle regole per diree in parole nude e crude una serie di cose lanciate non certo come tesi, al limite neanche come congetture, diciamo... come “pulci nell’orecchio” destinate alle orecchie di “addetti-ai-lavori” che non sono “studenti della Sorbona” e neanche i loro coetanei in Italia, bensì militanti, e anche militanti che «pensano pubblicamente». Resta, d’altra parte, che queste cose non sarebbero in effetti ininteressanti nemmeno per i “Cari studenti”...

      Messe così “le mani avanti”, aggiungo qualche domanda che sarebbe - ripeto- un po’ stolto liquidare come “criptica”. Concludevo la prima parte di questa lettera, domenica, invitando a dimenticare il Novecento, a dimenticare Seconde, Terze e anche quarte e quinte Internazionali, e anche le ideologie di sostituzione. E’ possibile? Prima di dire come, e in che direzione, conviene dire che la peggiore delle superstizioni sarebbe ritenerlo fatalmente impossibile. Mai dire mai... Bisognerebbe pensare una articolazione duale.

      1. L’istanza immanente, che Marx aveva chiamato «comunismo critico», vederla come esodo, come qualcosa che non ha un inizio peraltro sempre differito, che prima non c’è poi c’è poi magari muore. Vederlo invece come movimento (diciamo, asintotico), significa poter dire che non è per domani, è da oggi, qui, altrove: e al contempo, che non è che la cosa si definisce per un (una) “fine”, «un regime, uno stato di cose da instaurare, una formula, una ricetta, un piano di riorganizzazione della società», come scrive Marx: e potremmo allungare, col senno di questi anni, la lista di “ciò che non è”, che non «chiamiamo comunismo»: potremmo aggiungere che non è un Eden, un paradiso perduto, una patria esotica lontana, un rimpianto, un qualcosa che un qualche Dio ci aveva promesso, e di cui siamo stati proditoriamente defraudati... Non è un’utopia, una identità, un patrimonio, cioé qualcosa di “proprietario”... Si potrebbe dirlo un movimento “asintotico”, e un’ «idea direttrice» come definisce Foucault, per esempio, l’abolizionismo carcerario. Potremmo pensarlo come una facoltà, un fare: in questo senso, da qui e ora, e senza possibili atti di nascita, copyright, certificati di decesso...

      2. Poi c’è la vita materiale, le condizioni dell’esistere, le “infrastrutture contestuali del vivere”. Ecco, lì si dovrebbe essere aperti al coro - plurale, come la biodiversità... - delle forme, dei modi d’azione, delle resistenze e delle offensive e controffensive, degli obiettivi, delle sperimentazioni, e anche inevitabilmente attenti al non eludibile rapporto di forza. L’articolazione di questa “dualità” non è quella fra uovo oggi e gallina domani. Non quella tra cosiddetto “pragmatismo”, terreno difensivo, “sindacalistico” e piano cosiddetto nobile, e al contempo sempre differito, sfuggente, inafferrabile, della “rivoluzionarietà possibile”...

      Né quello tra “il pane” e “le rose”. Pensare un orizzonte di fuoriuscita radicale dalle logiche costitutive di questo mondo, è anche l’unica scommessa possibile per sfuggire a quella che - e pazienza se può sembrare “apocalittismo” - a me sembra un fine corsa senza scampo verso uno “sfacelo mentale”, sentimentale, etico... diciamo, antropologico. Perché se è vero come è vero che ciò che si chiama “la Storia” è un lungo fiume di sangue appena interrotto qua e là, è anche vero che questo era bensì atroce, ma (faccio qui volutamente il cinico a fini euristici...) “allora” ognuno sapeva solo delle sue sofferenze, e di quelle del suo prossimo locale...

      Oggi, la forma stessa di questo capitalismo (che è stato definito come “cognitivo”, e che per parte nostra diremmo: “sistema capitalistico-statale integrato, biopolitico, illusionistico, tossicomane, psicosomatico, criminogeno/penale...) comporta il fatto che l’orrore universale è - in tempo reale, con un andirivieni tra sguardo d’insieme e dettaglio, fino al “singolare” e all’attimale - sotto-gli-occhi-di-tutti! Ciò che è inedito, e di cui non si possono calcolare le conseguenze a catena, in reazione a catena, è che “tutto” - una Babele infinita di “locali”, di lingue, “valori”, criteri, pesi, misure, memorie - è compresente sullo stesso palcoscenico; e che in più sono compresenti passati, futuri, “remake”, ibridi... Nuovo, inedito, sconosciuto, è che si è scatenata una competizione a morte fra tutti e tutti, fra ciascuno e ciascuno, per dimostrare che il suo Esperanto personale, la sua aritmetica privata.... la sua legittimità assoluta (di vittima innocente etc.) dev’essere “universalmente” riconosciuta.

      E questa competizione a morte, al contempo e paradossalmente, rende tutti uguali come l’Unico in serie (produzione di serie di “unicità” esclusive...., di Totalità, di Assoluti..., che omologa ferocemente, rendendo tutti dipendenti come tossici da uno stesso Moloch), e spinge d’altra parte ad una volizione di annientamento di ogni altro “concorrente”. Le due cose sono direttamente proporzionali, facce dello stesso processo. Il piano del “fare comune autonomia” non può dunque darsi che come esodo: e quello preliminare, prioritario (e anche più fattibile) è cominciare a chiamarsi fuori da questa corsa. Forse potremo pensare che c’è scampo (e lavorare per questo) il giorno che uno dei soggetti sottoposti, sopraffatti, sommersi, a chi gli chiede: «Cosa vuoi, implori, reclami, desideri?» - risponderà, come si narra di Diogene ad Alessandro Magno: «Nulla. Che ti levi dalla vista poichè mi copri il sole».

      Che un soggetto dica, risponda: «Non reclamo da alcuno e men che mai dalla legalità dello Stato alcun riconoscimento. Alcuna “giustizia” in nome e per conto mio. Non c’è alcun “Altare” di alcuna “patria”, alcuna medaglia che possa interessare noi altri, visto che non abbiamo in comune alcuna lingua». Che alle profferte di quel tipo si risponda, come il Bartheleby di Melville, «I prefer not to». Semmai - questo, piuttosto, sì - aggiungendo «Sciur padrun da li beli braghi bianchi, föra li palanchi, fora li palanchi!» Detto in napoletano: «Posa e sord..». Ecco, solo di questo possiamo discutere. Solo questo ci attendiamo eventualmente da voi, e vi reclamiamo... Su questo, la discussione ricomincia. C’è un lungo elenco da tener presente: precarietà, migranza, specificità dei soggetti più assoggettati alle forme più estreme di quella volizione di possesso/distruzione che è la logica del sistema…E giusto che ci siamo, ci piacerebbe - ma siamo costretti a rinviarlo ad una prossima volta - dire due parole su quello che nel frattempo (mentre gli studenti francesi, cacciati ormai dalla Sorbona, si scontravano con lo Stato di polizia di Sarkozy e di De Villepin per le strade di Parigi) accadeva per quelle di Milano…

      Oreste Scalzone www.liberazione.it

    • Bisogna vedere Oreste in che modo
      si dice

      «Posa e sord..».

      In questo modo qui mi sta bene

      http://italy.indymedia.org/news/2006/03/1024321.php

      con stima
      vittoria