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Battaglia campale a Kathmandu

Publie le venerdì 21 aprile 2006 par Open-Publishing

Dazibao Manifestazioni-azioni Internazionale

KATMANDU (Reuters) - I manifestanti che protestano contro la monarchia in Nepal hanno bruciato pneumatici e gettato tronchi e cancellate nelle strade della capitale Katmandu ieri, in vista di un coprifuoco imposto per impedire una marcia sul palazzo di re Gyanendra. Fumo nero si è levato da diversi luoghi nella città che conta 1,5 milioni di abitanti, mentre i manifestanti cercavano di bloccare i movimenti di polizia ed esercito prima che scattasse il coprifuoco di 11 ore alle 5.15 italiane.

Ieri la polizia ha aperto il fuoco su decine di migliaia di manifestanti che cercavano di violare il coprifuoco e marciavano sulla città dalla periferia. Almeno tre persone sono state uccise e 100 sono rimaste ferite. I partiti hanno detto che organizzeranno un’altra grande marcia oggi, e le autorità hanno risposto imponendo nuovamente il coprifuoco. "Così tante persone sono scese in strada nonostante il coprifuoco e il giro di vite", ha detto Krishna Prasad Sitaula, uno dei leader del Congresso Nepalese, il maggior partito politico del Paese.

"E’ il segno che il nostro movimento ha successo. Deve solo essere annunciato il risultato. Continueremo finché il risultato sarà a favore del popolo", ha aggiunto. Una coalizione di sette partiti è in agitazione dal 6 aprile per costringere re Gyanendra a restaurare una democrazia multipartitica. Da allora sono state uccise 12 persone e centinaia sono state ferite nelle azioni della polizia contro i manifestanti.

Battaglia campale a Kathmandu

Altri due manifestanti uccisi dalla polizia ieri in Nepal, 8 vittime in due settimane di proteste per la democrazia. Il paese himalayano è in rivolta, aumenta la pressione internazionale: ma re Gyanendra non cede. Oggi una grande marcia nella capitale

di MARINA FORTI

La capitale nepalese è di nuovo sotto coprifuoco, dalle tre di questa mattina: su ordine di re Gyanendra, le forze di sicurezza si preparano così alla manifestazione indetta per oggi dall’ampia coalizione dei partiti democratici nepalesi, che chiedono le dimissioni del re e il ritorno a un sistema democratico. La coalizione per la democrazia aveva annunciato centinaia di migliaia di persone in piazza, oggi: si annuncia una nuova giornata campale nel paese himalayano, 26 milioni di abitanti di cui il 40% sotto la soglia di povertà.

Da due settimane ormai decine di migliaia di persone ogni giorno sfidano il coprifuoco, le manifestazioni sono estese da Kathmandu alle principali città e il movimento armato che da 10 anni conduce una lotta armata contro la monarchia ha proclamato la tregua, in appoggio alle proteste democratiche: ormai, il Nepal intero è in rivolta contro re Gyanendra.

La tensione è aggravata dalla notizia che ieri altre due persone sono state uccise dalla polizia, portando a 8 il numero dei morti nelle due settimane. L’ultimo episodio è avvenuto nella città di Chandragadi, nell’est del paese, e dalle notizie che trapelano nonostante il coprifuoco in quella zona il bilancio potrebbe essere più grave. La Bbc riferisce di una folla di manifestanti che affronta le forze dell’ordine, comincia a correre, la polizia la incanala verso uno stadio e poi comincia a sparare. I feriti sono numerosi e si teme una carneficina, anche se è difficile verificare le testimonianze.

Poco prima di annunciare il coprifuoco, ieri il governo reale aveva fatto scarcerare due dirigenti della protesta: Madhav Kumar Nepal, segretario generale del Partito Comunista nepalese, e Ram Chandra Poudel, dirigente del Nepali Congress, cioè i primi due partiti del paese. Centinaia di persone li hanno festeggiati con lancio di polvere vermiglia, davanti al tribunale. «Il movimento continua», ha detto Nepal alla folla, «andremo avanti finché la piena sovranità sarà restituita al popolo».

Pressioni internazionali

Finora le pressioni internazionali non hanno convinto re Gyanendra a scendere a patti. Ma le condanne aumentano: ieri il rappresentante dell’Onu per i diritti umani in Nepal, Ian Martin, ha dichiarato che «oggi in Nepal non esistono diritti democratici», e ha chiesto al governo deve rispettarare le pacifiche manifestazioni, «invece di chiudere ogni strada a chi vuole protestare in modo pacifico».

Da ieri poi è a Kathmandu un inviato speciale del primo ministro indiano. «Spero che il Nepal possa tornare alla pace e alla prosperità», ha detto Karan Singh atterrando nella capitale nepalese. Per l’India è una questione di sicurezza: i due paesi hanno in comune una frontiera aperta, il passaggio di persone e beni è intenso; «non vogliamo interferire negli affari interni» del vicino, ha detto Singh, ma «i nostri interessi sono coinvolti». Ieri l’inviato indiano ha incontrato alcuni dirigenti della coalizione di partiti nepalesi, oggi dovrebbe incontrare re Gyanendra, con cui Karan Singh, discendente degli ultimi maharaja del Kashmir, è imparentato. E’ a Kathmandu anche il Segretario agli esteri indiano Shyam Saran: l’India, finora restìa a mollare la monarchia nepalese per timore del caos (e della rivolta maoista, che ha forti contatti con analoghi movimenti nella stessa India), ora ha deciso di intervenire.

Ormai solo le forze dell’ordine sono rimaste fedeli a re Gyanendra, i 150mila uomini dell’esercito e polizia: ma perfino nell’esercito ci sono segnali di allarme, a quanto riferiscono alcuni corrispondenti, anche se nessuno si aspetta che diserti il sovrano. Intanto la parola «rivoluzione» è pronunciata sempre più spesso. Partecipano al movimento di protesta ormai persone di ogni estrazione, inclusi gli impiegati e funzionari statali. Un modo generale di rifiuto al re incoronato il 1 giugno 2001 (dopo il misterioso eccidio a palazzo reale in cui fu ucciso il fratello maggiore, re Birendra) e sovrano assoluto dal febbraio 2005, quando ha sciolto il parlamento e messo agli arresti domiciliari il premier e molti esponenti politici.

Diceva di aver assunto il «potere diretto» perché i politici erano stati incapaci di combattere la decennale rivolta maoista; poi ha cominciato a governare per decreti, limitare i diritti civili, censurare la stampa. Ora i partiti e i maoisti fanno causa comune contro di lui.

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