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Una torta alla coca per gli 80 anni di Fidel (da Evo) - Intervista a Morales

Publie le giovedì 29 giugno 2006 par Open-Publishing

Dazibao America Latina Storia

Una torta alla coca per gli 80 anni di Fidel
Il cocalero Evo Morales vuol togliere alla sacra foglia la stigmate del narco-traffico, trattarla e lanciarla industrialmente in campi dal farmaceutico al cosmetico, contro diabete, obesità e artrite

di Serena Corsi

A metà giugno Evo Morales, portato al governo da quel Mas (Movimiento al socialismo) nato per difendere la tradizione della «sacra» foglia dalle ingerenze internazionali (Usa prima di tutte) e per toglierla dal senso vietato del narco-traffico, ha annunciato un nuovo capitolo nella tormentata storia della coca boliviana: 27 mila ettari su tutto il territorio da risuddividere in accordo con i cocaleros .

Coerente con l’impronta redistributiva e nazional-indigenista che sta dando al suo dall’insediamento di gennaio , Evo ha parlato di restituire alla foglia sacra il suo valore culturale regolandone la produzione , l’industralizzazione e il commercio , sradicando la coltivazione intensiva invariabilmente nelle mani del narco-traffico e incentivando la produzione famigliare o comunitaria.

Com’è stato anche per il passo della nazionalizzazione degli idrocarburi, Morales ha potuto contare sull’appoggio concreto del presidente venezuelano Hugo Chavez - che ha accettato di finanziare il primo impianto industriale di lavorazione della coca , scommettendo sulla prossima diffusione del commercio della pianta - e su quello del leader cubano Fidel Castro, a cui sta preparando una torta di farina di coca da inviargli in occasione del suo compleanno in agosto.

Felipe Caceres, viceministro boliviano per la difesa sociale, anche lui proveniente dalle fila dei cocaleros, ha dichiarato che «per ora il ministero coca e sviluppo agricolo si limita a vedere la farina di coca», ma «io, come ex produttore, credo che ci si possa poi lanciare su campi come il farmaceutico, il cosmetico, gli sciroppi per diabetici, contro l’obesità e contro l’artrite».

Chavez non è l’unico ad aver intravisto le molteplici possibilità offerte dalla «liberazione» della foglia caduta nella gabbia dell’oscurantismo proibizionista e del narcotraffico: basti pensare che anche i governi di India e Cina si sono già mostrati interessati alla duttilità dei suoi molteplici usi. Lo stesso presidente argentino Nèstor Kirchener, non potendo ignorare il fatto che nel nord dell’Argentina il commercio della foglia di coca mette in circolo almeno 50 milioni di dollari l’anno e che dovrà inevitabilmente affrontare i problemi legati al consumo e all’importazione, si è detto disposto ad affrontare la questione durante il prossimo incontro con Morales, domani.

Per quanto riguarda l’esportazione in Europa, invece, bisognerebbe superare lo scoglio delle innumerevoli convenzioni che mettono coca e cocaina sullo stesso piano e nella stessa lista nera delle sostanze proibite. E’ un fatto però che, in pochi mesi, con Evo al potere, l’obbiettivo si è spostato dalla sradicazione forzata (che ha provocato centinaia di morti e attentato a una cultura millenaria) alla proposta di esportazione.

Uno sdoganamento che ha un sapore rivoluzionario e che mette in discussione un altro dei pilastri del potere di Washington nel continente. Evo ribadisce la dignità e sovranità nazionali sulla cultura e sulla coltura. Intanto la tv boliviana ha annunciato programmi sulle virtù della coca.

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Evo, prima hermano e poi presidente

Bolivia Il paese che dopo 500 anni di apartheid si muove Intervista al presidente boliviano Morales che parla dei suoi primi cinque mesi di governo. Ricordando di quando suonava nella banda «Imperial» e dirigeva le lotte dei cocaleros del Chapare Non mi convince quel «señor presidente». A volte non mi sento ancora presidente. Preferisco che mi chiamino «Evo» o «hermano presidente» o «compañero presidente». Dà più fiducia Non sono le visite o le parole di Chávez o di Fidel a incidere. L’ambasciata e l’amministrazione Usa hanno già definito la loro linea: provocar

Pablo Stefanoni

L’elicottero della Fuerza Aérea Boliviana si leva in volo e entro pochi minuti si può vedere l’infinita e arida estensione dell’altipiano. Il viaggio è verso la comunità di Pampa Aullagas, l’ «Atlántide perdido» - secondo il cartogtafo inglese Jim Allen, la città di Atlante si trovava sull’altipiano di Oruro - e la sede di una fiera regionale di lama e quinoa. L’ora di viaggio serve al presidente Evo Morales per trovare il tempo di parlare dei suoi primi 5 mesi di governo e della sua prossima visita a Buenos Aires, fissata per oggi, dove dividerà il palco con il presidente Néstor Kirchner e, dopo le turbolenze seguite alla nazionalizzazione degli idrocarburi annunciata il primo maggio, firmerà l’accordo che porta il prezzo del gas boliviano venduto all’Argentina da 3.40 a 5 dollari per milione di Btu (l’unità di misura del gas). Kirchner è «un buon patriota latino-americano», dice

Poco prima di arrivare a destinazione Evo Morales scorge un paesaggio che lo riporta alla sua prima gioventù. «In quel pueblito mi sono guadagnato 100 dollari suonando con la bandaImperial», ricorda visibilmente emozionato. Pochi minuti dopo l’elicottero sorvola la sua antica casa di mattoni a Orinoca. «Ogni volta che ci torno i miei familiari e amici mi fanno piangere», confessa. In mezzo a questi ricordi, Morales tocca i tempi più caldi della sua gestione.

Qual è il suo bilancio dopo i primi 5 mesi da presidente?

In 5 mesi ci siamo consolidati come governo rispondendo alle domande sociali e, allo stesso tempo, affrontando i temi strutturali. Abbiamo aumentato i salari e abbiamo ridotto la flessibilità del lavoro, abbiamo lanciato programmi di alfabetizzazione e piani per la salute diretti ai settori più poveri, come la Operación Milagro grazie anche all’appoggio cubano. Tutto questo accompagnato da una forte politica di austerità e di lotta contro la corruzione nel settore pubblico.

In campo strutturale abbiamo nazionalizzato gli idrocarburi e avviato la riforma agraria, abbiamo approvato la legge per l’Assemblea costituente, che a partire dal giorno del voto, il prossimo 2 luglio, sarà l’ambito legale per rifondare la Bolivia. In questi 5 mesi ci siamo attenuti alla parola d’ordine di comandare obbedendo e oggi constatiamo di raccogliere un enorme appoggio del popolo boliviano (81% per Evo Morales e 80% per il vicepresidente �?lvaro García Linera).

Lei continua a ripetere di sentirsi più a suo agio nel farsi chiamare «compañero presidente» o «hermano presidente». Cosa distingue oggi il presidente dal leader sindacale?
Io mi sento più dirigente sindacale che presidente della repubblica. Ci sono volte in cui ancora non mi sento presidente. Preferisco che mi chiamino Evo o compañero Evo, perché questo dà più fiducia. Prima il mio personale di sicurezza si rivolgeva a me come «señor presidente», adesso mi chiamano solo «presidente» o «presi».

Mangiamo alla stessa tavola e questo ha prodotto un senso di vicinanza con la gente della polizia e delle forze armate. Non mi convince quel «señor presidente», mi sto abituando e mi piace «hermano presidente» o «compañero presidente». E’ l’espressione dell’affetto dei compañeros.

Perché continua a essere anche il presidente delle 6 federazioni cocaleras del Chapare?

E’ stata la volontà unanime delle 6 federazioni, ma è anche una garanzia per loro, che sono la mia grande famiglia. Nell’attività sindacale campesina ho realizzato il mio apprendistato politico, abbiamo camminato insieme, insieme abbiamo subito la repressione, abbiamo pianto i nostri morti nel Chapare e insieme abbiamo anche ballato e festeggiato le nostre vittorie. Qualcosa che non si puo dimenticare. E’ per questa fratellanza che ho accettato di continuare a essere il loro leader.

L’opposizione dice che la Bolivia ha scambiato di dipendenza: da quella degli Stati uniti a quella del Venezuela...

Non c’è nessuna dipendenza dal Venezuela e neanche da Cuba. Questi due paesi fratelli hanno manifestato una solidarietà senza condizioni rispetto all’integrazione latino-americana. E noi siamo grati per il loro aiuto. Cuba ad esempio ci sta aiutando nel campo dell’alfabetizzazione insieme con paesi come l’Olanda, la Danimarca, la Svezia e il Canada. L’Italia e la Spagna sostengono i progetti di strade e irrigazione. L’ Argentina ci ha aiutato con medicinali e alimenti dopo i disastri naturali.

Perché mai Podemos (Poder Democrático Social, il partito neo-liberista e filo-Usa di Jorge Tutu Quiroga, sconfitto nelle elezioni di dicembre) ha tanta paura di Hugo Chávez? Sarà perché dal momento che Chávez è ai ferri corti con gli Stati uniti, anche i vassalli dell’impero e di Bush, come Quiroga, devono per forza incrociare i ferri con Chávez? In realtà non c’è alcuna interferenza, c’è cooperazione solidale grazie agli investimenti venezuelani nel processo di industrializzazione del nostro gas.

I sindacati dei medici boliviani protestano per la presenza di medici cubani in Bolivia. Qual è la risposta del suo governo?
Ci sono alcuni medici che gridano «fuori i cubani», ma quei medici non hanno alcuna considerazione per la maggioranza della popolazione boliviana, i poveri, i campesinos, gli indigeni che per la prima volta usufruisono dell’attendimento sanitario gratuito. I centri oculistici messi in piedi grazie alla cooperazione cubana offrono tecnologia di punta, contano con fior di specialisti. I medici boliviani molte volte trattano gli indigeni come fossero porci, mentre i cubani dimostrano amicizia e affetto.

Di recente ha accusato i Monasterios, una delle grandi famiglie boliviane, proprietaria di terre e catene radio-televisive, di avere acquisito illegalmente i suoi latifondi e ha annunciato che il suo governo promuoverà la creazione di radio comunitarie alternative. Qual è la relazione con i media?

Gli imprenditori non devono essere i soli a contare sui media. I poveri, i campesinos hanno anch’essi diritto ad avere i loro mezzi di comunicazione. Oggi l’unica vera opposizione in Bolivia è quella dei grandi media, che difendono gli interessi di un pugno di famiglie che hanno sempre avuto il monopolio della politica e del potere economico. Questo deve cambiare, e adesso che gli abbiamo tolto il poppatoio si arrabbiano e non perdono giorno senza attaccare il movimento popolare e il governo del Mas.

Fin dove arriverà la «rivoluzione agraria»?

Abbiamo cominciato a preparare la rivoluzione agraria, che non è solo una semplice distribuzione o redistribuzione delle terre ma mercati per i prodotti e meccanizzazione delle campagne. Abbiamo cominciato con le terre demaniali e continueremo con i latifondi che non rispettano la funzione economica e sociale della proprietà.

Le visite di Hugo Chávez in Bolivia e le sue dichiarazioni focose hanno peggiorato i rapporti con l’ambasciata degli Stati uniti a La Paz?

L’ambasciata e il governo degli Stati uniti hanno una loro linea ben precisa: aggredire, provocare e cospirare contro i nostri governi. Qualche esempio? Il caso di Leonilda Zurita, che quando era dirigente cocalera aveva il visto per gli Usa e ora che è senatrice gliel’hanno negato. Idem con il viceministro per le acque René Orellana. Quando il corpo diplomatico è venuto a salutarmi, l’unico assente era l’ambasciatore degli Stati uniti che quella stessa notte aveva organizzato un party nella sua residenza. Sono provocazioni.

Poi c’è la storia della presenza militare nord-americana in Bolivia, camuffata sotto le vesti di studenti che in apparenza vengono a studiare quechua ma, secondo informazioni attendibili, in realtà stanno svolgendo compiti di intelligence. Non sono le visite o le parole di Chávez che incidono più o meno, la posizione degli Stati uniti è già decisa: cospirare contro il nostro governo.

Colombia e Perú hanno già firmato un Trattato di libero commercio (Tlc) con gli Usa, e il Venezuela ha proclamato che questo è l’atto di morte della Comunità andina delle nazioni (Can), decidendo di uscirne. Perché lei insiste nel tentativo di resuscitarla?

Se la Can tornasse ai suoi principo originari, che sono il rafforzamento delle economie nazionali e regionali, le cose sarebbero diverse. La Can è stata minata dai Tlc, che distruggono i piccoli produttori e le comunità contadine. Tuttavia abbiamo l’obbligo di provare a tornare a quei principi e rafforzare quel blocco. Purché non vadano a vantaggio dell’economia trans-nazionale ma dell’economia popolare e comunitaria della regione andina.

Molti dicono: a che serve una costituente quando abbiamo già un presidente che rappresenta i movimenti sociali?

L’Assemblea costituente non è solo per avere un presidente indigeno ma per cambiare pacificamente la struttura dello Stato, per recuperare il territorio nazionale e le risorse naturali, per rifondare la nostra nazione incorporando la maggioranza della popolazione. Così potremo emendare il peccato originale della Bolivia: essere nata escludendo il 90% dei suoi abitanti.
In campagna elettorale si è proclamato socialista. Da presidente continua a essere socialista?

Chiaro, quello è l’obiettivo.

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