Home > OPPORTUNISTI DELLA STORIA

OPPORTUNISTI DELLA STORIA

Publie le martedì 9 gennaio 2007 par Open-Publishing

Dazibao Storia Enrico Campofreda

di Enrico Campofreda

Dello straparlare di Storia a uso e consumo dei propri giri di valzer che fanno certi politici di quella che fu la Sinistra sono pieni i giornali e le orecchie nostre. Così quando D’Alema sale in cattedra e dice che Mussolini non andava giustiziato afferma un’assurdità storica e politica che volutamente azzera il clima del 25 aprile e della cattura del capo del fascismo.

D’Alema è troppo acuto per non saperlo, è stato anche uno degli ultimi a frequentare la scuola di Partito alle Frattocchie, ma forza e strumentalizza a suo personalissimo vantaggio tanto per scrollarsi di dosso l’ultima polvere “comunista” vestendo i panni del buonismo finora tagliati e cuciti a misura da Veltroni. L’uscita da furbetto del parlamentino - credendoci o meno - gli procurerà chance per ricicli politici futuri. Magari all’ombra d’una spettrale socialdemocrazia senza non solo più un filo di socialismo ma anche di socialità.

Piero Sansonetti è invece difficile da comprendere. Recitando giorni addietro la stessa litania sulla fine del duce o fa il cantore e l’apripista per nuove trovate liberal-comuniste del Grande Capo del partito - che pur dallo scranno istituzionale di Montecitorio resta il subcomandante Fausto - improntate a future scorciatoie elettorali sulla nonviolenza. Oppure con sciocchezzari di genere cerca una credibilità editoriale che Liberazione non gli fornisce più. Prendere spunto dall’impiccagione di Saddam e paragonarla all’esecuzione sì sommaria di Mussolini è un non senso che solo superficiali o visionari o nostalgici possono sviscerare. Può farlo la nipote Alessandra, a corto di visibilità dopo l’emarginazione subìta da tutti i camerati ministerialisti o bastonatori irriducibili. Può farlo il giornalismo straccione di Feltri o quello stalinista di Ferrara. Forse non l’ha fatto neppure il revisionismo storico nostrano.

Decontestualizzare la Storia è sempre un’operazione cieca e insensata. Naturalmente si sarebbe potuto processare il responsabile di 23 anni di crimini italiani istituzionalizzati col rischio di vederlo sfuggire al processo com’era riuscito a dileguarsi da Milano assediata dalle forze resistenziali, aiutato dagli agenti segreti dell’estimatore Churchill e dagli ambienti frequentati dal cardinale Schuster. I garibaldini comaschi che fortunatamente l’intercettarono, tragicomicamente travestito da milite della Wehrmacht, decisero che per lui era giunta l’ora di pagare un conto politico lungo oltre un ventennio. Lo fecero per l’intera Resistenza e per il popolo italiano antifascista che non contestò loro nulla. Né subito né dopo. Presero ordini dal CLNAI? Da Longo o da Secchia? E’ ininfluente saperlo. Lo può essere da un punto di vista del puntiglio documentaristico, sul piano politico no. E su quello militare también. Perché Audisio o meno chi avesse premuto il grilletto poteva essere esposto a vendette postume. Non solo militari se pensiamo alle persecuzioni giuridiche per i partigiani che s’affacciarono nella Repubblica antifascista nata dalla Resistenza appena il governo Parri fu sacrificato alla real-politik postbellica. Magari negli anni seguenti si sarebbe potuto sapere, ma la guerra fredda trascinò fino a tutti i Sessanta tanti “misteri”. E il tempo ha portato via coi protagonisti e testimoni la verità dei fatti.

L’esposizione a Piazzale Loreto dei cadaveri dei gerarchi e il loro abbandono in un angolo “alla maniera fascista” come i corpi dei martiri del 10 agosto 1944 fu senz’altro un insano gesto, dettato più dalla furìa e dall’eccitazione del momento che dalla valutazione politica. L’esibizione della morte non apparteneva alla cultura resistenziale e neppure al comunismo nostrano. Se taluni garibaldini si macchiarono di “infamie” non si trattò di episodi frequenti. Le uccisioni di Porzus sono certamente più gravi degli “sgarri” compiuti dai rossi come il Fenoglio lontano dall’ortodossia santificatrice racconta nei suoi meravigliosi romanzi. Ma si trattò d’un caso sui generis, interno al particolare clima insurrezionale per la VII federativa titina che si viveva in terra friulana. Quante invece le stragi nazi-fasciste nei lugubri mesi della Repubblica Sociale che Pavolini, Graziani, Borghese, Buffarini Guidi – anche più del già cadaverico Mussolini – volevano bagnata di sangue italiano.

Sofri, scrivendo di tirannicidio il 2 gennaio u.s. su “La Repubblica” ricordava con gli occhi del morantiano Useppe i corpi penzolanti, forse a Torino dove operava il federale Solaro passato anche lui per le armi durante la Liberazione e rivendicato dalle tardive sguaiate prefiche di Pansa. O quelli di Padova o i galleggianti sul delta del Po col cartello “partigiani” delle indelebili sequenze di “Paisà”. O ancora i corpi narrati da Vittoriani in “Uomini e no” che fanno comprendere anche a chi non li visse e non ebbe i racconti di chi c’era cosa furono i venti mesi di scempio della vita che il Mussolini dell’ultimo atto volle nel suo finale e dannato rigurgito di violenza. Che non giustifica giammai lo scempio del suo cranione e dei cadaveri nemici, anche se odiati gerarchi, a Piazzale Loreto. Però ne fa comprendere la dissennata follìa del momento. E stabilisce come fatalmente giusta la fine del satrapo.

“I morti al Largo Augusto non erano cinque soltanto; altri ve n’erano sul marciapiede dirimpetto; e quattro erano sul corso di Porta Vittoria; sette erano nella piazza delle Cinque Giornate, ai piedi del monumento.
Cartelli dicevano dietro ogni fila di morti: Passati per le armi. Non dicevano altro, anche i giornali non dicevano altro, e tra i morti erano due ragazzi di quindici anni. C’era anche una bambina, c’erano due donne e un vecchio dalla barba bianca. La gente andava per il largo Augusto e il corso di Porta Vittoria fino a piazza delle Cinque Giornate, vedeva i morti al sole su un marciapiede, i morti all’ombra su un altro marciapiede, poi i morti sul corso, i morti sotto il monumento, e non aveva bisogno di saper altro. Guardava le facce morte, i piedi ignudi, i piedi nelle scarpe, guardava le parole dei cartelli, guardava i teschi con le tibie incrociate sui berretti degli uomini di guardia, e sembrava che comprendesse ogni cosa…”