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Rifondazione, l’unica in grado di tenere aperta l’ipotesi dell’alternativa

Publie le martedì 15 luglio 2008 par Open-Publishing

Rifondazione: VII congresso

Rifondazione, l’unica in grado di tenere aperta l’ipotesi dell’alternativa

di Enrico Melchionda

"Ma chi te lo ha fatto fare?" E’ questa la domanda che mi sento rivolgere da tanti amici a proposito della mia recente scelta, per i più incomprensibile, di aderire al Prc dopo la disfatta elettorale di aprile.

Certo, quel che sta avvenendo nei circoli, con i brogli sul tesseramento, le truppe cammellate e i veleni che scuotono la più elementare solidarietà tra compagni, non è per nulla entusiasmante. Ma non ha senso meravigliarsene, né serve a molto scandalizzarsi: bisogna capire.

Il fatto è che la sconfitta elettorale ha scoperchiato una pentola già da tempo in ebollizione. L’ha scoperchiata perché ha messo allo scoperto i difetti e gli errori da lungo tempo imposti al partito da un gruppo dirigente irresponsabile. E adesso questo gruppo dirigente non vuole in alcun modo prendere atto del suo fallimento, anzi è disposto a ricorrere a qualsiasi mezzo e a imporre qualsiasi prezzo pur di non farsi da parte e di non lasciarsi sfuggire il controllo di un partito che considera una sua proprietà privata e un suo strumento di convenienza.

La logica è nota, avendocela descritta nei dettagli già un secolo fa il sociologo tedesco Michels. E’ la logica delle oligarchie (oggi diremmo dei ceti politici), cioè di quelle leadership di professionisti della politica che, nate da una necessaria funzione di rappresentanza, a un certo punto finiscono per anteporre i propri interessi di casta a quelli della propria base sociale di riferimento, abbandonando l’ideologia alternativa originaria in favore di politiche sempre più moderate e istituzionalizzate.

Ma quel che è peggio e che costituisce una novità relativamente recente è che le diverse oligarchie di partito tendono ormai a entrare in rapporti di collusione tra loro, avendo sviluppato uno spirito di categoria ben più forte del mandato rappresentativo. Di qui le ondate antipolitiche che aggrediscono tutti i ceti politici, senza distinzione, anche e a maggior ragione quelli della sinistra alternativa.

E’ inutile girarci intorno: sta qui la causa determinante di quel crollo di consensi le cui dimensioni non a caso nessuno aveva previsto. Infatti, è vero, come emerge dal dibattito congressuale, che la sconfitta ha a che vedere con le scelte politiche e le strategie che il partito ha adottato in questi ultimi anni (dall’alleanza di centrosinistra alla coalizione dell’Arcobaleno), così come affonda indubbiamente le sue radici in trasformazioni sociali e politiche di più ampio respiro.

Ma queste ragioni non possono spiegare, né da sole né sommate tra loro, e nemmeno se associate con fattori sistemici come la legge elettorale e la bipolarizzazione della competizione, un tracollo senza precedenti nella storia dei comportamenti elettorali. Per spiegarlo, bisogna avere il coraggio di fare i conti con la degenerazione oligarchica da cui il partito è stato investito, contribuendo a indebolire la sua capacità rappresentativa e la sua vita democratica ed esponendolo così all’urto dell’antipolitica.
Forse non sarà un destino inevitabile, come riteneva Michels, ma la storia del movimento operaio è tutta drammaticamente segnata da questo fenomeno. E nessuno ha ancora trovato la ricetta per sottrarvisi.

Tutto quel quel che si può fare per contrastarla, cosa che di solito diventa appunto possibile solo nel momento in cui il partito viene trascinato sull’orlo della rovina, è realizzare dei chiari atti di discontinuità. Su tre versanti. Innanzitutto, andrebbe sostituito il gruppo dirigente, almeno nel suo nucleo di vertice maggiormente responsabile della gestione passata. Poi si dovrebbe compiere una svolta netta nella linea politica, non soltanto per quanto riguarda le tattiche, le alleanze e i posizionamenti all’interno del sistema politico ma anche sul terreno delle priorità strategiche e programmatiche, cioè in funzione degli attori e degli interessi (nonché dei valori) sociali da rappresentare. Infine, sono le stesse modalità correnti di funzionamento del partito, tanto nella sua vita interna quanto nella sua prassi verso l’esterno, che andrebbero rimesse in discussione e rinnovate profondamente.

Ecco, sono questi gli atti che avrei auspicato nel momento in cui ho scelto di aderire al partito. Anzi, se mi ero deciso a questo passo, su cui pure avevo indugiato per anni, era proprio perché ritenevo che per la prima volta la sconfitta elettorale, per quanto drammatica e densa di rischi, aprisse l’opportunità per liberarsi finalmente di quegli orientamenti che almeno dal 2004 in poi si erano imposti nel partito. Ma, come spesso avviene in politica, le scelte soggettive e collettive non necessariamente corrispondono ai migliori auspici, per quanto illuminati, e neppure alla logica che ci si aspetterebbe da un organismo vitale. Infatti, quello che sembra profilarsi, piuttosto che la discontinuità, è il trionfo del peggiore gattopardismo.

Non solo sul versante del gruppo dirigente, dove il ricorso al suo esponente più credibile in quanto meno compromesso nella gestione recente del partito serve evidentemente da ombrello per tutti gli altri, ma anche sugli altri due versanti. Perché da una vittoria della mozione bertinottiana non c’è da attendersi sostanziali ripensamenti rispetto alla prospettiva già avviata di superamento dell’identità e dell’autonomia del partito e di smantellamento del suo carattere organizzato e democratico. Ma allora è proprio vero che non valeva la pena di impegnarsi in Rifondazione in questo momento e che non ci può importare niente del suo congresso?

La risposta l’avremo solo alla conclusione del congresso, o meglio nei mesi successivi, quando i nodi torneranno inevitabilmente al pettine. Spero solo che a quel punto non sia troppo tardi, e che ci sia ancora un partito. Ma fare in modo che ci sia è un compito che spetta alle energie sane e responsabili che in Rifondazione non mancano, e sono quelle che ne fanno l’unica forza politica in grado di tenere aperta l’ipotesi di un’alternativa nella società italiana.