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Hanno ucciso Vik per colpire la speranza. Tre anni dopo l’omicidio di Arrigoni, parla Rosa Schiano

par Tiziana Barilla

Publie le mercoledì 16 aprile 2014 par Tiziana Barilla - Open-Publishing

Tre anni dopo l’omicidio di Arrigoni, per gli attivisti si mette male. «L’esercito israeliano continua a sparare su contadini e pescatori. Siamo pochi, facciamo fatica e abbiamo interrotto gli accompagnamenti in mare». Parla Rosa Schiano, la reporter giunta a Gaza dopo la morte del collega

Si scrive Palestina si legge ingiustizia. Gaza, dopo 65 anni di conflitto, è sinonimo di guerra, negoziati mancati e impotenza della politica internazionale. Ma la Palestina, vista da vicino, significa anche vivere da profughi in casa propria. Rischiare la vita per lavorare nei campi o in mare. Perciò molti attivisti internazionali raggiungono la Striscia di Gaza, per accompagnare i contadini e i pescatori palestinesi a lavorare lungo il confine con lo Stato israeliano. Si chiama interposizione: gli attivisti – con le loro pettorine gialle – si posizionano tra i civili e i militari dell’esercito israeliano che difende i confini. Anche a colpi d’arma da fuoco. È questo che faceva Vittorio Arrigoni a Gaza. Ed è questo che raccontava, giorno dopo giorno, su Guerrilla Radio, il blog più visitato in Italia durante l’operazione militare dell’esercito israeliano “Piombo fuso”: 22 giorni di inferno – dal 27 dicembre 2008 al 18 gennaio 2009 – in cui l’unico cronista sul campo era proprio lui, Vittorio Arrigoni. Ma il suo lungo racconto termina la notte tra il 14 e il 15 aprile del 2011 quando, appena 36enne, viene rapito e ucciso per mano di quattro componenti di una cellula jihadista salafita, secondo il tribunale palestinese.

«Conoscere è il primo passo verso una soluzione», amava scrivere Vik. E per conoscere cosa succede a Gaza, tre anni dopo la sua uccisione left ha incontrato Rosa Schiano, 30 anni, fotoreporter e attivista dell’International solidarity movement. Adesso è lei a documentare la violenza nei Territori Occupati, anche grazie al suo Il blog di Oliva. «Dopo la morte di Arrigoni, a Gaza, la situazione è peggiorata», ci spiega: il numero di internazionali è ridotto al lumicino e le interposizioni in mare sono state interrotte. Mentre la politica locale è in balìa di divisioni e contrasti e quella internazionale continua a collezionare fallimenti. Incontriamo Rosa Schiano a Napoli, la sua città natale, appena rientrata da Gaza. Arriva all’appuntamento con il capo coperto da un foulard colorato e un sorriso stanco e un po’ spaesato. Prendiamo posto al tavolino di un bar, davanti a un caffè, e Rosa fa per accendere una sigaretta. Le ricordiamo che in Italia non si fuma nei locali pubblici e il ghiaccio si rompe: «Ieri ho anche sbagliato metropolitana», scherza.

Vive e lavora a Gaza da maggio 2011, è arrivata subito dopo l’uccisione di Vittorio Arrigoni. Non ha fatto in tempo a incontrarlo, eppure è un po’ come se ne avesse preso il posto.

Non ho mai conosciuto Vittorio di persona, ma è grazie a lui che ho appreso della situazione a Gaza, dell’assedio, degli attacchi israeliani. Lo seguivo attraverso facebook e il suo blog, ero impegnata politicamente a sinistra e la causa palestinese è parte del bagaglio della sinistra. Perciò, finiti gli studi, ho deciso di partire, sono arrivata a Gaza con un convoglio nel maggio 2011. C’era tensione. Tutti erano preoccupati per quello che era successo a Vik, anche il governo locale era preoccupato, temeva altri attacchi a internazionali. Perciò, eravamo seguiti da tanti uomini della sicurezza.

Come Vik, è una reporter e attivista. Come si traduce questo sul campo?

Essenzialmente ci interponiamo tra l’esercito israeliano e i civili palestinesi. Lungo il confine della Striscia di Gaza c’è una zona-cuscinetto, imposta illegalmente da Israele, in cui non è permesso accedere ai contadini. Ma in questa zona c’è quasi il 35 per cento delle terre agricole palestinesi. L’esercito israeliano usa sparare ai contadini palestinesi che coltivano la loro terra, nonostante siamo tutti disarmati, sia i contadini che noi. Se ci sono le jeep dei soldati ci posizioniamo in fila e mentre i contadini lavorano alle nostre spalle stiamo di fronte ai soldati. Se le jeep continuano a muoversi vuol dire che non c’è tanto da preoccuparsi, ma quando una jeep si ferma: muskila (problema in lingua araba, ndr). Perché i soldati scendono e iniziano a sparare.

Nonostante la vostra presenza?

Sì, nonostante la nostra presenza. Sparano colpi in area o a terra a distanza ravvicinata per farci spaventare. A volte siamo stati costretti a lasciare il campo perché gli spari erano così incessanti e vicini che era diventato pericoloso. Ma quando non ci siamo, spesso, sparano sui contadini, ferendoli generalmente agli arti inferiori o superiori.

Ad ascoltarla – e leggerla quando è lì – sembra di ascoltare i racconti di Arrigoni. Non è cambiato nulla in questi tre anni?

Sì, è messa male anche per gli internazionali. E questo l’ho capito subito, appena arrivata. Durante un accompagnamento in mare i militari mi hanno letteralmente distrutto la macchina fotografica, stavo fotografando quello che stavano facendo: sparavano addosso ai pescatori. Loro mi hanno attaccata con cannonate d’acqua distruggendo la mia macchina.

Siete volontari, non retribuiti e senza copertura, come affrontate questa situazione?

Purtroppo, nell’ultimo periodo abbiamo interrotto gli accompagnamenti con i pescatori, siamo troppo pochi e non riusciamo a coprire costantemente le barche. I pescatori sono 4mila e noi in quattro (ride amara). La Marina militare israeliana si “vendicava” sulle barche che portavano internazionali. Adesso gli stessi pescatori sono timorosi di portare internazionali a bordo. Ci sono state delle minacce chiare da parte delle forze israeliane che dicevano loro: se parlate con gli internazionali vi colpiremo. È una situazione di minaccia costante. Dopo diverse riunioni con i pescatori, abbiamo deciso che non è possibile in questo momento continuare gli accompagnamenti.

Perché siete così pochi?

Non è mai stato facile entrare a Gaza. Tanto più adesso, dopo il colpo di Stato in Egitto. Le autorità egiziane stanno ritardando i permessi per entrare nella Striscia di Gaza. Noi abbiamo due attiviste dalla Spagna e una dalla Svezia che da più di un mese e mezzo sono in attesa di avere un permesso dal ministro egiziano. Ma questo via libera non arriva.

Gli integralisti islamici di Hamas sono considerati da molti Stati dei terroristi. Ma nel 2006 i palestinesi li hanno scelti per governare. Dopo una dura guerra civile, dal 2011 ha inizio il governo congiunto con i socialisti di el-Fath, eredi di Arafat. In Palestina funzionano le larghe intese?

Non tanto. Ci sono molti contrasti interni, non solo tra Hamas ed el-Fath ma anche all’interno di el-Fath. È un gioco di potere tra personaggi politici, per cui poi vengono trascurati i bisogni della popolazione. Un esempio evidente è quello che è successo tra Abbas (presidente dell’Anp di el-Fath) e Mohammed Dahlan (leader di el-Fath che fino al 2007 ha tenuto in pugno la Striscia di Gaza e adesso, secondo i media locali, pare riavvicinarsi ad Hamas, ndr). Contrasti personali e di potere. Sicuramente ci sono grosse responsabilità anche da parte palestinese, soprattutto dall’autorità di Ramallah (quartier generale di el-Fath). La speranza è l’unità. Noi chiediamo sempre l’unità del popolo palestinese.

Anche il popolo è diviso?

Ultimamente no, le divisioni non si avvertono così tanto. E questo è anche merito del governo di Gaza (quartier generale di Hamas), che adesso consente più libertà di manifestare. La situazione è più rilassata.

Non sembra rilassata, invece, l’aria che tira con Israele.

Sui negoziati c’è un silenzio assordante. Il 4 aprile Israele ha negato il rilascio di 26 prigionieri politici palestinesi. Una ritorsione arrivata dopo la decisione dello Stato di Palestina di riavviare l’iter di adesione a 15 convenzioni delle Nazioni unite. E Israele si vendica cancellando il rilascio dell’ultimo gruppo di questi prigionieri, rilascio accordato durante i negoziati. Questo è un ricatto inaccettabile.

Nel mondo sono tante le zone in cui l’ingiustizia è disumana. Perché ha scelto la Palestina?

È l’esempio più eclatante. È evidente l’apartheid in Palestina, è evidente quello che succede negli insediamenti coloniali. Forse è l’esempio più grande, che continua da 65 anni senza che il resto del mondo prenda una posizione netta contro quello che succede. Certo, sono tanti i posti nel mondo in cui vengono violati i diritti umani, ma lì c’è anche una complicità da parte di altri Stati.

Parla di complicità con Israele, cosa lega questi Stati a Israele?

Credo sia un mix di interessi politici ed economici, la comunità ebraica è molto forte. Ma quando tu provi a denunciare le azioni del governo israeliano vieni sistematicamente accusato di antisemitismo. Giocano sulla questione dell’antisemitismo per confondere le persone. È un gioco sbagliatissimo, perché danneggia la stessa idea del popolo ebraico e della loro religione.

Infine, vuol raccontarci la sua giornata?

Mi sveglio, mi faccio un caffè espresso con la macchinetta italiana e guardo il mare. La mia casa è a Gaza City, vicino al porto vecchio. Mi piace tanto perché al risveglio posso vedere il porto e i pescatori che salpano in mare. È una bella sensazione anche se in realtà quello non è un mare libero, perché c’è un limite imposto dalla Marina israeliana. Per cui non puoi avvertire quel senso di libertà che normalmente senti quando guardi il mare.

A chi si affida nei momenti più duri?

A Gaza noi attivisti siamo circondati dall’affetto delle famiglie palestinesi. Lì ho lasciato tante famiglie che mi considerano come un loro membro, come una figlia o una sorella. Si preoccupano di qualunque cosa io possa avere bisogno. Lì non ti senti mai solo. Le relazioni sociali sono vere, intense…

Umane?

(sorride) Sì, sono rimasti umani.