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IL MAGGIORITARIO ATTUALE CI PORTA AL PLEBISCITARISMO. UNA POLEMICA NELLA SINISTRA

Publie le martedì 1 marzo 2005 par Open-Publishing
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Violi le regole? Vinci le elezioni

di Marco Revelli

Nato da un plebiscito, l’imperfetto sistema politico emerso dalle contorsioni degli anni novanta è approdato a una forma di democrazia plebiscitaria, sempre meno democratica e sempre più plebiscitaria. I partiti non sono certo scomparsi (è scomparsa la «democrazia di partito», ma la centralità dei partiti non è stata neppure intaccata), si sono limitati a spostarsi più in alto, fuori della nostra portata, e più «a monte»: là dove si decide chi dovranno essere i decisori in lizza tra loro; là dove si formano le candidature per l’oligarchia decidente. Il «sistema» non si è «aperto», si è al contrario verticalizzato. Si spiega così quel risultato, ben messo in evidenza da Paolo Flores nel paragrafo dedicato a Le macerie del regime, che è appunto l’approdo a una «partitocrazia d’antan», più feroce ancora della pur soffocante partitocrazia anni-ottanta. E quella paralisi nell’osmosi tra movimenti della società civile e rappresentanza politica, che tante volte abbiamo evocato come possibile terapia per le malattie della nostra sinistra.

Ormai bisognerebbe forse ammetterlo con schiettezza: della vecchia (e improponibile) forma-partito abbiamo perso le virtù (che pure c’erano), ma ne abbiamo mantenuto (quasi) tutti i vizi. L’assunzione di «primarie vere» che «rimettano cencretamente in questione la forma-partito» potrebbe certo correggere questa distorsione mortale; potrebbe mettere «il piede tra la porta» per impedire che il sistema dell’oligarchia si richiuda su di noi come il mare si richiuse sulla nave di Ulisse (e dovremo imporle, ne sono convinto, in un corpo a corpo furibondo con i tanti guardiani dei fari ciechi che vigilano ai cancelli del professionismo politico). Ma sono altrettanto convinto che se non faremo saltare contemporaneamente il muro di cinta del maggioritario, ogni discorso sull’introduzione di forme sia pur parziali di «democrazia partecipativa» resterà un flatus vocis. Tanto più che quella mutazione genetica del nostro sistema politico che tanto ha fatto per recidere i residui legami tra la sinistra italiana e il suo (ormai terribilmente logorato, bisogna dirlo) radicamento sociale, è stata invece decisiva per favorire - e in qualche modo produrre - l’emergere del suo antagonista polare, del berlusconismo. Ne è stata la condizione essenziale per strutturarne l’habitat, legittimarne lo «stile», eliminare gli anticorpi che avrebbero potuto ritardare il contagio...

Nel plebiscitarismo egemone, nella personalizzazione spinta del protagonismo politico, nella verticalizzazione oligarchica delle principali funzioni politiche, la figura del demagogo e la forma di potere del patrimonialismo finiscono per prevalere. O comunque per essere favorite. In un universo politico nel quale la sfera pubblica dei soggetti collettivi viene travolta dalla logica tutta «privata» del protagonismo individuale, chi è dotato delle risorse strategiche che nella «sfera privata» fanno la differenza (il denaro, in primo luogo, e il potere della comunicazione non mediata pubblicamente), finisce per prevalere. Né, in questa sfera, vigono meccanismi di controllo e di stigma, regole di correttezza o semplicemente di buon gusto, principio di responsabilità. Qui paga l’istantaneità, la spettacolarità, anche del gesto volgare, della piroetta e del pernacchio, tanto più se sostenute e confermate dall’ostentazione di un potere irraggiungibile per i comuni mortali. Dalla dimostrazione del proprio essere, come l’antico principe, legibus solutus.

Qui, sul terreno dell’oligarchia plebiscitaria e patrimonialistica, la violazione delle regole, anziché delegittimare finisce per confermare il potere. Per funzionare da meccanismo di legittimazione. Fare senatore il proprio cavallo, trasformare in innocente un corruttore, lasciare a piede libero un colluso, oltre la soglie della responsabilità pubblica, su quel terreno infido in cui cadono i confini tra sfera pubblica e sfera privata, e dove la democrazia rappresentativa si confonde con l’impiego spettacolare del consenso ad uso dell’élite del potere, premia. Diviene simbolo ostentato di onnipotenza, tanto più se intorno si muove un universo di cortigiani anziché di cittadini. Di «servi contenti» anziché di elettori consapevoli. Linguaggio delle cose e dei simboli, contro cui poco può il bon ton dell’opposizione, sempre incerta se denunciarne gli eccessi o se emularne le performances.

Si spiega forse così l’apparente imbarazzo - e anche l’assenza di indignazione, di senso dello scandalo, di genuina e fondata intransigenza - con cui i Fassino e i D’Alema, i Rutelli e i Marini si misurano con l’«eccesso» Berlusconi, in qualche modo indifferenti all’anomalia italiana. Al suo grottesco e al suo tragico. E alla fine, dopo qualche garbata rimostranza, sembrano assimilare l’inassimilabile, declassare come errore politico o alternativa criticabile ma tollerabile veri e propri attentati costituzionali, dimostrazioni di inciviltà, oltraggi al comune senso del pudore, o anche solo al senso comune... Perché non esiste linguaggio politico capace di contenerli, certo. Ma forse anche perché consapevoli di esserne stati se non i padri, i padrini. Di aver tenuto essi stessi a battesimo il mostro, aprendogli la strada istituzionale. Professionisti della politica improvvidi e imprevidenti.

E anche perché convinti, alla fin fine, che quel sottofondo limaccioso cui la riforma del sistema politico italiano ha lasciato via di spurgo, corrisponda in qualche misura ai vizi profondi di una parte, non minoritaria, di identità italiana. Che quella incapacità a misurarsi con il «discorso pubblico» e quella disponibilità ad arrendersi al volgare, allo spregevole e al superficiale, di tollerare la menzogna sistematica purché utile e l’arroganza ostentata, purché sostenuta da denaro e potere, costituisca uno zoccolo duro (un pezzo della gobettiana «autobiografia della nazione»), con cui non è bene confliggere frontalmente. Che potrebbe, domani, depurata dei suoi tratti più rivoltanti, esser vezzeggiata e usata da una nuova oligarchia. Per questo condivido con Paolo Flores il suo timore che i guasti di Berlusconi restino a lungo, in sospensione, nel clima politico-culturale italiano (che le «meta-macerie» costituite da un senso comune democratico «sovvertito e massmediaticamente indotto» in un mondo alla rovescia continuino a ingombrare il campo anche dopo un’eventuale vittoria elettorale dell’Unione). Insomma, che nel nostro futuro possa incombere anche il rischio di un «berlusconismo senza Berlusconi».

da lastampa.it