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Bertinotti: «Dobbiamo guidare noi la Grande Riforma del paese»

Publie le giovedì 3 marzo 2005 par Open-Publishing

Dazibao Partiti Partito della Rifondazione Comunista Parigi

Intervista al segretario di Rifondazione che oggi apre il sesto congresso nazionale del partito

di Piero Sansonetti

Il congresso di Rifondazione Comunista si apre oggi pomeriggio al Lido di Venezia. Durerà quattro giorni. Fausto Bertinotti ieri mattina era nel suo studio e lavorava alla relazione. Gli ho strappato mezz’ora per un’intervista. Domande veloci e risposte brevi. Pochi preamboli, anzi niente: andiamo subito al dunque.

Bertinotti, riesci a riassumere in tre minuti quel che dirai domani al congresso?

Non so, provo a dirti da dove parto e cosa propongo. Parto da questa considerazione: è tornata in Italia una fase nella quale è all’ordine del giorno la "Grande Riforma". E noi siamo chiamati a prendere la guida di questa grande riforma. Mi spiego con un paragone. Questi anni che viviamo assomigliano ai primi anni sessanta. Cosa successe allora? L’Italia arretrata venne sconvolta dal neocapitalismo e a quel punto si pose all’ordine del giorno la necessità di riformare il paese.

Ma fu una riforma mancata...

Il centrosinistra non fu all’altezza. E tuttavia quella riforma mancata portò ugualmente a grandi cambiamenti: penso ad esempio alla scuola dell’obbligo, o alla nazionalizzazione dell’energia elettrica. Oggi l’Italia si trova a un bivio simile: ci si accorge che la controriforma - che dura da 25 anni, cioè dai primi anni ottanta - è fallita. La controriforma aveva un obiettivo molto semplice: mettere in discussione e cancellare l’"anomalia italiana". E l’"anomalia italiana" era nata esattamente allora, negli anni sessanta. Con le lotte di fabbrica, il risveglio operaio, con l’allargamento della democrazia, e poi con grandi fenomeni di crescita sociale e culturale, con il femminismo, con la rivolta studentesca, con la lotta all’autoritarismo. Dagli anni ottanta in poi si cerca di demolire l’anomalia italiana per riportare l’Italia nella globalizzazione. Il risultato qual è stato? Il declino, la crisi. Di fronte a questa crisi noi diciamo che non servono aggiustamenti, correzioni, piccole modifiche: serve la grande riforma, e ci candidamo a guidarla.

Le minoranze di Rifondazione fanno due obiezioni alla tua linea. Le riassumo un po’ schematicamente. La prima è questa: la tua proposta di governo in realtà è un’ipotesi di alleanza con la grande borghesia. E questo non si può fare. La seconda obiezione è quella di chi ti contesta di avere scelto l’alleanza con il centrosinistra senza prima trattare sul programma.

La prima obiezione non tiene conto del fatto che noi ci troviamo di fronte alla crisi della borghesia italiana. E’ una obiezione che muove dall’idea che la borghesia oggi abbia un disegno di società. Non è così, non ce l’ha. Mi guardo bene dal dire che la borghesia italiana non conti niente. Contano i tanti pezzi dai quali è composta, ma non c’è più una Grande Borghesia con la G e la B maiscole. Lo dimostra il fatto che non esiste più una grande industria privata. E anche l’ipotesi della Confindustria di D’Amato, che era quella di sostituire, come classe egemone, alla vecchia grande borghesia, una nuova borghesia costituita dalla piccola e media impresa, è un’ipotesi che è stata sconfitta ed è franata. Capisci cosa dico? Il nostro progetto politico parte da questa analisi e da questa constatazione: che la borghesia non ce la fa più. Questo non vuol dire che non c’è più un avversario: vuol dire che il fronte è scompaginato. E c’è una parte della borghesia - quella che non pensa di poter risolvere tutto con la finanziarizzazione - che si pone la questione della ricostruzione di un profilo produttivo del paese, ed è pronta a accettare una forte politica economica pubblica.

Seconda obiezione, il programma

No, questa obiezione è del tutto infondata. Prende lucciole per lanterne. Non vede dove si costruisce il programma, pensa che sia un affare da condurre a tavolino, mettendo intorno al tavolino dei signori che negoziano, negoziano, finché esce un programma definito. E pensano che uno di questi signori debba essere un rappresentante di Rifondazione, e che debba occuparsi di tenere ferme delle bandiere. Non è così, è tutto un po’ più complicato. Noi stiamo lavorando per creare delle esperienze e delle lotte nella società che prefigurino pezzi di programma. Quali sono? Per esempio il modo nel quale siamo riusciti a portare l’Unione a votare contro la missione in Iraq. Per esempio le lotte contro la privatizzazione dell’acqua e i successi che ha ottenuto. Per esempio le battaglie ambientaliste, la lotta sindacale a Terni e molte altre iniziative di questo genere. Tutti questi sono pezzi di programma. Immaginare il programma come qualcosa di statico e di puramente negoziale è un vecchio vizio di politicismo.

Pensi che i Ds in questi anni si siano spostati a sinistra?

No. Penso che i Ds si siano spostati. Che lo abbiano fatto a sinistra non so. Ci sono però delle grandi novità. Non esiste più il retroterra che negli anni ’90 dava una grande sicurezza ai Ds e dava loro anche immobilità. Quel retroterra era costituito da due fatti: la collocazione internazionale dentro uno schieramento di centrosinistra che era al potere in quasi tutto l’occidente; e l’idea che toccasse a loro governare la modernizzazione, così come dieci anni prima era toccato ai socialisti di Craxi. Queste certezze sono svanite. Qual è la conseguenza? E’ un cambiamento anche di cultura politica, che ha comportato il passaggio dall’ipotesi di una sinistra liberale a quella di una sinistra socialdemocratica. Questo è stato il congresso dei Ds. Che poi questo passaggio sposti o no a sinistra i Ds, non so dirlo.

Bertinotti, parliamo di un vecchio fatto. Nel ’98 Rifondazione conquistò la sua autonomia e iniziò il cammino che l’ha portata alla svolta di oggi, con una scelta politica: far cadere il governo Prodi. Non è curioso che oggi si riparta da una scelta che appare opposta: appoggiare la nascita di un governo Prodi?

Sarebbe curioso se ci trovassimo in una situazione politica simile a quella di allora. Cioè se fosse in corso un prolungamento del ciclo politico nel quale si produsse quella frattura. Ma non è così. Quel ciclo è finito. E’ cambiato lo scenario internazionale, è cambiata l’Europa, è cambiata l’Italia. Qualcuno ad esempio mi critica perché dice che non sono coerente: una volta sostenevo che bisognava far saltare l’Ulivo e ora non lo dico più. Possibile che non si sono accorti che l’Ulivo non c’è? E’ finito, sciolto, persino formalmente cancellato. Come faccio a rompere il fortino dell’Ulivo se quel fortino non esiste?

E’ il tuo ultimo congresso da segretario?

Non so se posso rispondere a questa domanda in modo così ufficiale, su "Liberazione... "

Ma si che puoi...

Sì, è l ’ultimo.

Tu mi parlavi, all’inizio di quest’intervista, degli anni ’60. Ti riferivi, credo, anche al famoso luglio ’60, quando ci fu la rivolta antifascista di Genova - che poi dilagò in tutt’Italia - contro il congresso del Msi e il governo Tambroni che aveva avuto i voti fascisti. Tu eri un ragazzo in quegli anni. I ragazzi che scesero in piazza a Genova furono chiamati la generazione delle magliette a strisce, perché portavano le T-shirt dell’epoca, che erano a righe un po’ da marinaio. Allora per la verità non si chiamavano T-shirt. Tu sei di quella generazione...

Si io ero proprio un ragazzo con la maglietta a strisce. La indossavo davvero. E fu in quel luglio sessanta che conobbi la politica, e mi entusiasmai, entrai in contatto con la classe operaia, con le camere del lavoro, con le federazioni del Psi e del Pci. Facevo la scuola superiore a Milano, e Milano fu tra le città che più di tutte si mobilitò. Grandi cortei, grandi manifestazioni. Poi arrivò la canzone famosissima di Fausto Amodei, quella sui morti di Reggio Emilia, ti ricordi? C’era un verso che diceva: "Per chi si è già scordato di Duccio Galimberti... " (Galimberti era un eroe partigiano). Cosa voleva dire quella canzone? Che l’Italia si stava dimenticando dell’esperienza della Resistenza, stava cercando di chiudere la sua anomalia di allora, di farla sparire. Per questo io faccio il paragone tra il ’60 e oggi. Si fronteggiano il tentativo di normalizzare e la necessità della Grande Riforma. Quella canzone di Amodei per me è stata sempre importantissima, e infatti per essere sicuro che non mi sarei mai scordato di Galimberti ho chiamato mio figlio Duccio...

Si è parlato nei giorni scorsi del tuo incontro con don Molari e delle tue riflessioni sui grandi problemi della religione e della trascendenza. Sono temi importanti per te?

Per la mia generazione i problemi posti dai cristiani sono sempre stati importanti. Uno dei punti forti della nostra formazione politica è il dialogo tra marxisti e cristiani. La fase post-conciliare, il dissenso cattolico, poi le grandi esperienze sociali come le Acli di Labor, e la straordinaria stagione sindacale, la Fim... In questa storia c’è l’interrogazione su alcuni temi di fondo che sono al confine tra il problema della liberazione dell’uomo in questo mondo, e la trascendenza.

Nella teoria della nonviolenza, che sta diventando un punto di forza teorico nella politica di Rifondazione, l’influenza del pensiero cristiano è molto forte?

Si, assolutamente. E’ decisiva. Penso ad esempio a don Milani e alla sua straordinaria teorizzazione della disobbedienza. E’ il riaffiorare di un’onda lunga, radicale, che è sempre stata presente nel cristianesimo. Ma in Italia questa radicalità nonviolenta è presente anche nel pensiero laico. Penso ed Aldo Capitini e a Danilo Dolci. Se leggi Capitini o Dolci ti accorgi che se hanno un avversario è il moderatismo, è l’idea che si possa venire meno alla critica radicale nei confronti del capitalismo e del potere

Ti piace "Liberazione" nella sua nuova veste?

Molto, molto. Lo dico non diplomaticamente: ci credo. Mi sembra di trovare una sintonia tra la ricerca nella quale siamo impegnati nel partito e la vostra ricerca. Non sto parlando solo della politica, sto parlando di una ricerca culturale e di senso...

http://www.liberazione.it/giornale/050303/R_PEZZO.asp