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Rifondazione Comunista : l’utopia si fa concreta

Publie le venerdì 4 marzo 2005 par Open-Publishing

Dazibao Partiti Partito della Rifondazione Comunista Parigi

di Pasquale Cascella

«Noi ci siamo», dice Fausto Bertinotti. Questa volta Rifondazione comunista non si chiama fuori. Anche se ancora stenta a identificarsi in toto nella sinistra di governo. Ma a quella sfida indiscutibilmente porta la «corsa a staffetta» partita ieri da una stupefacente Venezia sotto una bufera di neve. Anche il segretario sorprende. Con la sua commozione, fin quasi alle lacrime che stemperano nell’emotività anche il tradizionale pugno chiuso. Evoca immagini suggestive, Bertinotti, in questo congresso dell’autocoscienza e dell’addio, per scalfire la logica dura e cruda delle componenti e scaldare un po’ anche i cuori di quel 40% del partito che non è con lui. Come non sentire che parla persino a se stesso quando evoca l’impotenza della storia di Sara, ragazza precaria del web costretta a barcamenarsi tra un lavoretto di dieci e uno di quindici giorni che credeva nei valori e nelle idee della sinistra e ora confessa a «Liberazione» di «non credere più a niente»?

Piacerebbe a Fausto che Sara partecipi alla «gara sportiva» dentro «la realtà», per «influenzarla, cambiarla». Bertinotti descrive «fasce muscolari tendere due mani a passare e ricevere il testimone». Al prossimo congresso, annuncia, non sarà più lui a tenere la relazione. Ma intanto gli tocca cominciare la «buona corsa». A dire il vero, il «testimone» che si propone di passare «in buone mani» non sembra più essere quello del 1996, composto con i materiali della desistenza elettorale, verniciato di insofferenza verso le responsabilità di governo e lasciato disinvoltamente cadere nel 1998 insieme al primo governo di Romano Prodi. Paradossalmente, qui Bertinotti sembra stringere tra le mani un «testimone» più vetusto ma ben più solido, ricevuto «in dono» da Pietro Ingrao, con la sua «lezione straordinaria e incontaminata". Non è davvero a caso che il grande utopista del Pci abbia attraversato e vissuto tante svolte, revisioni e scissioni della sinistra storica per decidersi a questo approdo solo ora. Proprio ora che, anche da questa parte, il "sogno di futuro" raccoglie l’antica sfida "della partecipazione, dell’autonomia e della democrazia».

Nel ’68 si sarebbe detto: «L’utopia al governo». Bertinotti sembra proporre al suo partito «l’utopia del governo». È vero, non lo concepisce come lo «sbocco di una politica», bensì come «un passaggio che vive in funzione della crescita di un progetto riformatore nel paese». Mantiene una riserva quando dice che «la critica al potere e ai suoi meccanismi non si sospende neppure nei confronti del proprio governo». Che, però, non spaventa Romano Prodi. Anzi, il leader dell’Unione si dice «convintissimo ci siano le condizioni per una alternativa robusta che duri». Con buone ragioni. Il segretario di Rifondazione non professa strappi, non proclama svolte, non rinnega quella cultura che ancora quattro anni fa (nel 2001 tra Rifondazione e l’Ulivo non ci fu nemmeno un accordo elettorale) respingeva la prova del governo alla stregua di un cedimento. E però pone il congresso di fronte a un dilemma cruciale, implicitamente autocritico: «Si può pensare di essere presenti nella politica reale del paese a livello di massa senza raccogliere la domanda più diffusa nel popolo di cacciare il governo Berlusconi?».

La risposta è inequivocabile: «No, non si può. Chi non fosse in grado di contribuire a realizzare questo obbiettivo verrebbe cancellato dalla scena della politica e dal rapporto di massa. Aggiungo, giustamente». Di più, sul rapporto tra il movimento e la «durezza dei processi in cui siamo immersi» che definisce «problema politico di prima grandezza». Quale? Testualmente: «Si mobilitano le masse dei popoli della pace, ma la guerra e il terrorismo continuano la loro opera di morte. Lotti contro la politica del governo, ma il governo adotta nuove misure neoliberiste. Scioperi, manifesti ma loro ti negano il contratto. Occupi le case per dare alloggio a chi non ne ha e loro aumentano la spinta speculativa...». Allora? Bertinotti riscopre i contenuti del progetto con cui dare equilibrio al "pendolo" che in Europa vede la destra al governo creare tanto malcontento da suscitare grandi speranze verso la sinistra, ma quando è questa ad assumere l’onere del cambiamento finisce per deludere le aspettative. Nemmeno Rifondazione, che questa volta parteciperebbe al governo (e non solo alla maggioranza) se si dovesse tornare a vincere, può permettersi di deludere. Né Sara né Ingrao.

E nemmeno quella parte del popolo, prima ancora che dei gruppi dirigenti dell’Ulivo, che a torto o a ragione «inorridisce» quando invoca la «patrimoniale». Tant’è, quella parola Bertinotti non la userà più. Dice il segretario: «Rifacciamo un discorso di sostanza». Non più ideologico, quindi, anche se qualche ricaduta dogmatica non manca nell’analisi dei processi del capitale, della globalizzazione, della società europea. Ma, al dunque, Bertinotti si misura pragmaticamente con il cammino verso la «grande riforma», riconoscendo che questa richiede «venga accettata fino in fondo la gradualità del cambiamente ma, al tempo stesso, che siano acquisite la radicalità della critica all’ordine delle cose esistenti e la profondità dei cambiamenti richiesti per superarlo».

Una sfida, insomma. Concepita all’insegna dell’«unità e della competizione», insomma, sul terreno dell’egemonia politica e culturale, con il resto della sinistra. Sarà pure espressione di una concezione vecchia maniera dei rapporti a sinistra, fors’anche condizionata da uno spirito di rivalsa, ma respingendo con «fastidio» l’ipotesi organizzativistica (accarezzato soprattutto da Armando Cossutta) di aggregare la "sinistra di alternativa" a quella riformista, Bertinotti mette Rifondazione alla ricerca di una via d’uscita alla «crisi del movimento operaio» che già impegna la sinistra riformista, tradendo a sua volta il dubbio sulle risposte fin qui elaborate nella rifondazione dell’ideale marxista tradito. Si mette in gioco anche lui: «Provare e riprovare, diceva Gramsci, è il compito del rivoluzionario». E se provando e riprovando scoprisse che, nella realtà di oggi, il riformismo è capace di trasformare laddove le false rivoluzioni hanno fallito?

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