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Bertinotti propone all’Italia di uscire dalla crisi e dal capitalismo

Publie le venerdì 4 marzo 2005 par Open-Publishing

Dazibao Partiti Partito della Rifondazione Comunista Parigi

A Venezia Fausto Bertinotti apre il VI congresso del Prc annunciando l’adesione al partito di Pietro Ingrao. E poi dice: «E’ la mia ultima relazione da segretario»

di Rina Gagliardi

Sotto una tonnellata di neve soffice soffice, che contorna Venezia di un’atmosfera quasi irreale, ha preso il via un Congresso caldo - un Congresso vero. Non solo un evento politico nazionale di prima grandezza, al quale partecipano tutti i maggiori dirigenti della sinistra e dell’Unione, a cominciare da Romano Prodi. Ma anche e soprattutto un grande momento di incontro - di incontri umani.

L’inizio, non a caso, è straordinario: Fausto Bertinotti chiede la parola, prima ancora di cominciare la sua relazione introduttiva. Legge la lettera che Pietro Ingrao ha inviato e con la quale sceglie di diventare un iscritto di Rifondazione comunista: un dono, un regalo, dice il segretario del Prc, che legge il testo - breve e di struggente bellezza - di fronte ad un pubblico immobile, teso, dominato da un’emozione che la parola non riesce a descrivere.

La notizia è già stata anticipata da un giornale - molti, forse, la conoscevano. Ma ascoltarla dal vivo, con l’immagine del leader più amato e prestigioso della sinistra comunista italiana che dal grande schermo del Palazzo del Cinema sorride alla platea, è un’altra cosa.

Ecco che cos’è oggi Rifondazione comunista: un partito più ricco. Arricchito da questo giovanissimo iscritto che, tra pochi giorni, il 30 marzo, compirà novant’anni e che oggi sceglie, di nuovo, l’agire politico in un partito, un vincolo speciale, non identico, ma in realtà identico a quello che ha segnato "tanta parte della sua vita". Non è l’unico momento ad alta intensità emotiva di questa prima giornata. Non solo come omaggio a un grande comunista scomparso, Bertinotti legge un articolo di Luigi Pintor del 2001 - scritto poco dopo l’11 settembre, e appassionatamente apocalittico sulla guerra che si è già rimessa in moto.

Ci saranno gli omaggi, non formali, ad altri compagni che non sono più tra noi: Claudio Sabattini, Tom Benetollo, Livio Maitan, comunisti, rivoluzionari, pacifisti che hanno segnato un pezzo delkla nostra vita. Poi, proprio alla fine della sdua relazione, Bertinotti - quasi di sfuggita, quasi in tono minore - dice che questa è l’«ultima sua relazione a un congresso», l’ultima volta da segretario nazionale di Rifondazione comunista. Anche questa è una notizia forse già nota - ma sentirla dal vivo è un’altra cosa.

Fausto parla di “passaggio
del testimone”, di
staffetta necessaria, di
promozione di un’altra generazione
politica: come se
dicesse al partito che anche
questo - ormai ahimè molto
prossimo - avvicendamento
di vertice è parte integrante
della sfida aperta dalla nuova
fase. Solo sulle parole finali
(“Buona corsa, compagni”),
a Bertinotti si incrina
la voce. Poi, gli applausi, il
canto dell’Internazionale e
un grande grido - “Fausto,
Fausto” - rende esplicito il
sentimento diffuso. Ci sono
dentro tante emozioni, in
questo coro spontaneo e di
massa: la gratitudine, la
gioia, la condivisione umana
e politica. Ma anche la
preoccupazione per il futuro,
quando al timone di questo
partito non ci sarà il leader
che tanto ha fatto per traghettare
questo partito dalla
resistenza all’innovazione,
dalla minorità al protagonismo
sulla scena politica e sociale.

Una grande soggettività antagonista

E’ anche per questo, certo,
che Bertinotti ha scelto di
aprire il congresso con un
rapporto incentrato fino in
fondo sui grandi temi di questa
epoca: il superamento
necessario del “turbocapitalismo”,
la pace e la guerra, la
lotta contro il declino, la ricostruzione
di una grande
soggettività antagonista.
Soltanto a pagina 27, Bertinotti
pronuncia la parola
«governo»: a ulteriore conferma
che il tema centrale
del VI Congresso non sta nella
pur importantissima scelta
di accordo con Prodi, non
è la tanto dibattuta questione
del Governo, ma è davvero
l’alternativa di società..
L’alternativa generale al capitalismo
regressivo e “predatore”
che rischia di trascinare
il mondo nell’abisso, la
radicalità di chi non rinuncia
mai a stare “dentro” ai
processi, ma non rinuncia
mai, neppure, all’alterità e
alla criticità. Una prospettiva
così forte che consente
oggi a noi sinistra alternativa
di competere, nell’unità,
con i riformisti - anzi, di non
dare nient’affatto per scontato,
che saranno loro alla
guida della coalizione contro
le destre. Dice Bertinotti
evocando il dilemma - cruciale
 tra socialismo o barbarie
er citando la grande lezione
di Rosa Luxemburg:
chi non riesce a vedere la catastrofe,
ad assumerla come
dato basico del suo ragionamento
e della sua analisi, “è
politicamente muto”. Non
perché in mezzo, tra rivoluzione
e rovina, tra trasformazione
e regressione, non
ci sia una miriade di soluzioni
“tecnicamente” fondate, e
quindi non ci sia una pulsione
riformista permanente, e
perfino di buon senso, destinata
ad affacciarsi e a riaffacciarsi
di continuo nella politica:
ma perché nella realtà
del ciclo lungo, del ciclo liberista
(di cui i governi di destra
costituiscono soltanto il
ciclo breve), la partita che si
gioca è proprio quella estrema.
Tra due possibili civiltà
al bivio: la guerra e la pace.
La precarietà e il lavoro. La
solitudine e la miseria crescente
della persona, e la ricostruzione
di una società
coesa. La giungla della competizione,
e i diritti universali.

La storia di Sara

Così, la relazione di Bertinotti
muove dalla storia di
Sara, giovane lavoratrice del
Web, raccontata da Aldo Nove
sulle colonne di Liberazione:
storia di precarietà
estrema, di insicurezza assoluta,
di infelicità personale,
storia, anche e soprattutto,
di smarrimento di ogni fiducia
nella politica e nella sinistra.
Sara, dunque, è una vita
vissuta concreta, ma anche
la metafora di una condizione
più generale di regressione.
Si è rotto ogni legame virtuoso
tra progresso economico,
e tecnico-scientifico, e
progresso sociale: la disuguaglianza
 una disuguaglianza
crescente sia di opportunità
che di esiti - è la
norma, la regola principe
dell’Occidente. Anche la così
detta “economia della conoscenza”
si rivela l’opposto
delle sue premesse e delle
sue promesse: essa va di pari
passo con la precarietà, con
la diminuzione inesorabile
dei salari. Non è un nesso
ideologico, ma la realtà di
una “rivoluzione restauratrice”
che aumenta a dismisura
le conoscenze disponibili,
che fa dell’informazione
e della comunicazione un
elemento diretto della produzione,,
ma che alla fine
impoverisce i più. C’è il paradosso
del tempo: ce lo
stanno rubando. Non abbiamo
più quel tempo essenziale
che serve a imparare
davvero e a crescere, nella riflessione,
nell’elaborazione,
nelle relazioni con gli altri.
Se tutto è mercificato, anche
la cultura e il sapere rischiano
oggi quella riduzione a
merce che prima li nega e poi
inesorabilmente li distrugge
E’ qui che si colloca la radicalità
dell’alternativa di cui
siamo portatori e protagonisti,
insieme a tanti altri, al
movimento e ai movimenti
di questi anni. Se è vero che
oggi, “c’è più capitalismo”
che mai, se è vero che le previsioni
del grande vecchio
con la barba, Carlo Marx, sono
oggi straordinariamente
confermate, è pur vero che il
capitale non ci regala più l’unificazione
del soggetto antagonista.
Dunque, il nostro
compito primario la costruzione
di un “nuovo movimento
operaio”, non la semplice
somma della classe
operaia e dei suoi alleati, ma
la costruzione di una nuova
soggettività della trasformazione.
Di che cosa stiamo
parlando, in realtà? Dell’incontro
tra il 1 maggio del lavoro
e il May Day del nuovo
proletariato precario. Dell’alternativa
di società di cui
sono protagonisti essenziali
la rivoluzione delle donne e
un nuovo rapporto uomonatura.
Della Pace come
stella polare della politica -
contro la spirale devastante
della guerra e del terrorismo
 e come fondamento di una
diversa civiltà. Della nonviolenza
come pratica del conflitto
maturo, e della rivoluzione
che ancora non abbiamo
fatto, ma anche e soprattutto
come critica del potere,
anche del potere rivoluzionario,
nei suoi diversi esiti di
sconfitta e drammatico fallimento.

Un programma politico

C’entra tutto questo con
ciò che dobbiamo fare, a
breve, nella imminente e
densa stagione politico-sociale?
C’entra. Moltissimo.
Bertinotti lo riassume così:
«Il problema di fronte a noi è
il seguente: dopo venticinque
anni è possibile riprendere
un cammino di riforme
sociali e di struttura che
rompa il ciclo neoliberista,
riaprendo un percorso progressivo?
Oppure scontiamo
l’inevitabilità della regressione
sociale, democratica e
dei diritti di civiltà, che rischia
di diventare irreversibile?
». L’intera discussione
sul governo, in fondo, è in
questo dilemma, in questi
due corni. Si può rispondere
solo in due modi: provarci,
oppure non provarci. Provarci
senza esisti garantiti di
successo, e contando su
quelle “autonomie” - dei
movimenti, della soggettività,
delle opinioni, dei corpi
sociali aggregati - senza le
quali questa sfida non potrà
comunque essere vincente.
Non provarci - per paura delle
contaminazioni, per sfiducia,
per mille buone ragioni.
Ma se poi andiamo a
vedere il sostrato analitico
che sta dietro queste posizioni,
si scopre agevolmente
che, a monte, le differenze riguardano
proprio l’interpretazione
della crisi di civiltà,
la radicalità dei dilemmi,
così come degli esiti. In
questo, una volta di più, Bertinotti
conferma la sua originalità
di visione politica e la
sua radicalità strategica - la
sua negazione totale di ogni
opzione di “autonomia del
politico”, di ogni politicismo,
tatticismo, immediatismo.
Allo stesso tempo, certo, il
suo lungo e complesso ragionamento
è anche ricchissimo
di proposte concrete: è,
in buona sostanza, un programma
politico proposto
all’Unione, alla sinistra, all’Italia.
Battere le destre è essenziale,
anche perché il
berlusconismo non è un’anomalia,
ma un disegno organico
e devastante di società ora, si tratta di capire
come batterlo, e per fare che
cosa, e per invertire quella
maledetta “legge del pendolo”
che condanna qualsiasi
sinistra a fallire come forza
di governo davvero diversa.
Romano Prodi ascolta attentamente,
in sala, non un
semplice elenco di “paletti”,
ma l’ impianto di una politica
diversa: che comincia abbattendo
le leggi-simbolo
del centrodestra (la legge
trenta, la Bossi-Fini, la Moratti)
e si dà, come asse, i beni
comuni (il rilancio attivo e
non solo difensivo del Welfare),
la pace, i diritti di cittadinanza
universale. Che, in
politica economica, rilancia
la necessità dell’intervento
pubblico, della riforma fiscale,
dell’aumento generalizzato
dei salari, alla possibile
marginalizzazione della
rendita («Se la parola “patrimoniale”
vi fa orrore, non la
pronunceremo», dice Bertinotti.
«Ma la sostanza di come
far uscire un’enorme ricchezza
dai suoi privilegi e
dalla sua non trasparenza
resta intera»). E che lega l’Italia
a una nuova collocazione
geopolitica, a un’Europa
mediterranea, aperta ai Sud
del mondo.
Tutto questo ha un senso
solo se si riconnette, in ogni
momento, in ogni scelta, generale
e particolare, a quell’istanza
che, forse, sta a cuore
a Bertinotti più di ogni altra:
la riforma della politica.
La capacità di praticare, di
nuovo, dopo anni di traversata
nel deserto, una Politica
con la P maiuscola. Non è
questo, in fondo, il senso
profondo dell’adesione di
Pietro Ingrao a Rifondazione?
Non è questa la ragione
per cui Rifondazione comunista
può pensare di avere
un futuro?

http://www.liberazione.it/giornale/050304/LB12D6D4.asp