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Quel terremoto di Pietro Ingrao

Publie le lunedì 28 marzo 2005 par Open-Publishing

Dazibao Partiti Storia

Due mesi dopo il sisma che colpì l’Irpinia nell’80, il dirigente comunista si confrontava con gli scienziati sul territorio, lo sviluppo e il rapporto tra democrazia diretta e rappresentativa

di MICHELE FUMAGALLO

Dei 90 anni di Pietro Ingrao (il compleanno è il 30 marzo prossimo), della sua vita così ricca di avvenimenti, si parla e si parlerà in varie sedi non esclusa l’istituzione più solenne, la Camera dei deputati, di cui il dirigente comunista fu presidente in un periodo tormentato della storia italiana. Noi oggi invece andiamo a spulciare dentro un ricco materiale audiovisivo inedito dell’archivio del regista Michele Schiavino che sta preparando un film video su Ingrao, ulteriore tappa di un originale viaggio in quel vero e proprio spartiacque storico che fu il terremoto del 1980. Ne viene fuori, riconfermata, l’immagine di un dirigente con le orecchie sempre tese alla scoperta del nuovo. Ingrao interloquisce con gli scienziati e gli intellettuali riuniti a convegno ad Avellino giorni prima, si pone domande alte sulla scienza nuova di vichiana memoria, legge nella tragedia del terremoto il futuro che si prepara per il Mezzogiorno: ulteriore asservimento oppure liberazione di energie nuove?

Comunisti volontari

Il Partito comunista è impegnato sul versante terremoto in tutti i sensi, sia con la presenza di volontari e funzionari da tutta Italia, sia vivendolo come occasione di svolta e di cambiamento di linea politica. Organizza per questo, con il contributo dell’Istituto Gramsci, del Centro per la riforma dello stato (Crs) e del Centro di studi per la politica economica (Cespe), un grande convegno su scienza e catastrofe ad Avellino, il 15 gennaio del 1981, che sarà chiuso dall’intervento del segretario Enrico Berlinguer. Non va dimenticata la condizione in cui era allora l’Italia dal punto di vista della prevenzione antisismica: praticamente all’anno zero. L’iniziativa tende, quindi, a spostare anche su quel versante l’impegno del partito. Pochi giorni dopo, il 18 gennaio 1981, è Pietro Ingrao dunque a prendere la parola a Salerno: «Vorrei sottolineare qui all’opinione pubblica nazionale l’importanza che ha avuto il convegno che si è tenuto ad Avellino alcuni giorni fa. Non voglio esagerare ma io penso che lì c’è stato un discorso che sposta notevolmente le cose che si potevano dire sulla grande tragedia. Ad Avellino, un gruppo di scienziati di grande autorità ha affermato che oggi non ci troviamo soltanto di fronte al compito di riparare i danni di un terremoto ma di affrontare la grave questione della sismicità di tutta una parte del territorio nazionale e hanno posto la questione, senza indulgere in visioni catastrofiche, di come il paese si attrezza per altri eventi».

Pochi giorni prima, Gerardo Bianco, presidente del gruppo parlamentare democristiano alla Camera oltre che nativo dell’Irpinia del disastro, aveva polemizzato sull’arcaismo presente nella visione di molti, sostenendo che l’area del terremoto aveva conosciuto lo sviluppo, rivendicando alla classe dirigente democristiana il merito di questo sviluppo. Ingrao puntualizza ma passa anche all’affondo sulla classe dirigente: «Questi scienziati fanno esplicitamente un’accusa gravissima alla direzione politica del paese. L’accusano d’essere stata informata e di non avere nemmeno ascoltato ciò che essi avevano detto in proposito in modo documentato. E la loro accusa coinvolge non solo ciò che non è stato fatto nelle ore immediate del sisma ma tutto il tipo di sviluppo avvenuto in queste zone. Così che non capisco come Gerardo Bianco non venga al tema reale della discussione. Noi non abbiamo mai dato una rappresentazione arcaica. Non abbiamo detto: qui stavamo nel vecchio Mezzogiorno. Sappiamo che qui c’è stato uno sviluppo e una modificazione e sappiamo anche la parte che ha avuto la Democrazia cristiana in questo sviluppo; ma quello che non coglie Bianco è che proprio il tipo di sviluppo avvenuto in queste zone, la loro modernità si è rivelata gravemente sbagliata e carente. Proprio i problemi che ha fatto emergere il terremoto: un’espansione selvaggia, senza regole, senza criterio, anzi aggravando il malgoverno del territorio sino agli scempi edilizi che sono dinanzi agli occhi di tutti. Con quelle opere dei palazzinari che si sono sfaldate sotto l’urto del sisma. E non mi pare, del resto, che questi scienziati facciano le cose facili. Essi parlano di grandi investimenti anche in termini di risorse umane, di cultura, di tecnologie. A me sembra - prosegue Ingrao - che la proposta che è venuta fuori da Avellino sposti enormemente la discussione e apra un grande problema che è culturale, politico e anche morale. E’ venuto fuori lì, dalle forze avanzate della cultura che denunciano il silenzio e l’indifferenza dei poteri, il fatto che ci troviamo oggi di fronte a sviluppi della scienza, della conoscenza e della cultura che ci possono consentire di fronteggiare meglio eventi che fino a ieri sembravano non dominabili. E allora, che facciamo? Che risposta dà il mondo politico? E anzi: che cos’è la politica? E’ solo arte di arrangiarsi, conservazione di posizioni di potere, oppure può essere un’altra cosa? Per esempio, una grande innovazione?».

La mediazione clientelare

Pietro Ingrao prosegue nel suo ragionamento sul rinnovamento culturale e la miseria delle classi dirigenti meridionali: «In questa partita la vostra tragedia è un grande banco di prova per la sorte del Mezzogiorno. Perché la subordinazione che vi è stata imposta, anche nello sviluppo che c’è stato qui, non è costata cara solo a voi ma a tutto il paese. Ma proprio questa politica di mediazione clientelare si rivela oramai paurosamente inadeguata ad affrontare le grandi questioni aperte nel mondo. Sentiamo che questa strada può solo produrre frutti avvelenati. Ed ecco allora che ci si presenta davanti agli occhi una domanda: se oggi questo paese è capace di guardare a quello che è avvenuto qui da voi con gli occhi dell’intelligenza moderna, della conoscenza razionale, di una scienza nuova al servizio del popolo, capace di fare una previsione, di costruire progetti che guardino all’avvenire e ai destini profondi di una terra. Io credo che mai come oggi dobbiamo essere consapevoli che sarà duro il prezzo per tutti, se ripeteremo le stesse cose del passato, gli stessi errori». «Non si tratta perciò - prosegue Ingrao - di pensare solo a un’altra edilizia ma a un’altra agricoltura e a un altro modo di collegamento dell’industria con l’agricoltura, per esaltare la creatività della gente meridionale, per far prevalere criteri che non siano solo quelli della clientela e del profitto capitalistico selvaggio. Questa è la strada per colpire la condizione dipendente del Mezzogiorno, quella condizione dipendente che ha lasciato qui nel Mezzogiorno solo una parte minima dei centri di ricerca moderni, che ha allontanato da qui apparati e strumenti con cui oggi si producono innovazioni e cambiamenti».

Poi Ingrao torna a un suo vecchio cavallo di battaglia, al rapporto con le istituzioni: «Dobbiamo combattere le degenerazioni introdotte dal malgoverno democristiano nelle istituzioni, spesso organizzate per determinare la passività della gente, per suscitare clientele e non per produrre innovazioni. Pensiamo che le assemblee rappresentative si devono collegare al mondo del lavoro, della produzione, della cultura, e non solo attraverso i partiti ma anche attraverso forme di organizzazione popolare come i comitati di lotta dei terremotati che sono nati qui. Tanti parlano contro quello che chiamano il Palazzo. A me non piace tanto questa parola perché sembra che siamo tutti uguali dentro certi palazzi di Roma. No, io non mi sento uguale a quei ministri che sostengono il loro diritto di spartirsi le cariche della stato, di lottizzare. Non mi piace quella parola, però sento che quei luoghi delle assemblee, anche quel palazzo dove io lavoravo con una responsabilità che non dimentico, vive se si collega alla gente, alla cultura, alla rete vostra dei comitati. Come facemmo in altri momenti, penso alla Resistenza, quando dovemmo inventare organismi nuovi del popolo, oppure ai consigli di fabbrica nei giorni delle grandi lotte del 68».

Un altro orizzonte

Ingrao si appassiona alle proposte e si rivolge ai giovani e alla loro ribellione: «Noi proponiamo un altro orizzonte e un’altra storia per il Mezzogiorno, qualcosa che va molto oltre i tentativi di uomini come Dorso, Fortunato, Salvemini. Un’apertura enorme verso quella cultura moderna che non ha trovato ascolto nel mondo del governo e che si è sentita mortificata in questi giorni. Dobbiamo poi chiamare i giovani a questa lotta per rompere la dipendenza del Mezzogiorno. Dobbiamo parlare alla loro rabbia e dirgli che la conosciamo, ne capiamo le ragioni ma vogliamo che diventi forza vera. E diventa forza vera se diventa scienza, scienza nuova, riorganizzazione della produzione, capacità di organizzare il paese. Perché se invece resta solo rabbia e protesta, allora prima o poi vi costringeranno a piegare la schiena e resterete deboli e servi».

Infine l’ultimo appello è per il proprio partito: «Dobbiamo essere forza che guarda alle cose profonde, che sta qui per cambiare, per dischiudere altri cieli, altri orizzonti alla gente. E non lasciatevi ingannare: anche se tanti sono turbati, anche se qualcuno trema o si piega, dentro di sé si porta questa sete di un altro mondo, di un’altra società. E, anzi, quanto più degenera la vita costruita sotto il regime democristiano, tanto più - secondo me - vive dentro il popolo questo bisogno prepotente che domanda un altro modo di far politica, un’altra società, un altro posto per il mondo del lavoro».

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