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DUE PESI E DUE MISURE... DI VOTO

Publie le mercoledì 3 agosto 2005 par Open-Publishing

Dazibao Elezioni-Eletti Lucio Garofalo

di Lucio Garofalo

Un po’ in ritardo ho provato ad accostare due momenti elettorali che, malgrado la vicinanza temporale, mi sono apparsi distanti se non in netta antitesi, in termini sia quantitativi che qualitativi.

Mi riferisco alle elezioni amministrative di Aprile e al referendum del 13 Giugno scorso.

Nell’arco di 2 mesi, in moltissime zone d’Italia i nostri concittadini sono stati chiamati a votare per ben 3 volte: al primo turno delle amministrative, al secondo turno - laddove si è dovuto ricorrere al ballottaggio - e per il referendum.

Era facilmente prevedibile che qualcuno si potesse stancare, o quantomeno non avesse più tanta voglia di recarsi alle urne, tenendo conto del caldo afoso, dell’opera di oscurantismo e disinformazione svolta dai mass-media e dalla classe dirigente nazionale, senza considerare altri motivi, più contingenti e secondari, che hanno pesato negativamente in quanto hanno contribuito a distogliere la gente dal sano proposito di andare a votare.

Infatti, nel caso delle elezioni amministrative l’affluenza alle urne è stata elevata, quasi da primato nazionale. Invece, in occasione del voto referendario il primato è stato diametralmente opposto, nella misura in cui il tasso relativo all’astensionismo è risultato il più alto nella sequenza storica dei referendum nazionali e non solo.

Mi sorge dunque spontaneo un interrogativo: perché la gente diserta in massa le urne elettorali quando può intervenire sui propri problemi e bisogni, mentre affolla i seggi quando in gioco ci sono più che altro squallidi scopi di potere che, almeno in teoria, le dovrebbero essere estranei?

Non è questo un comportamento collettivo alquanto contraddittorio, almeno in apparenza?

I cittadini italiani, non solo sono stati indotti a non votare per il referendum, sono stati esortati a recarsi al mare per sfuggire al caldo, addirittura sono stati “deportati” sotto gli ombrelloni - ovviamente il mio vuol essere un commento ironico.

Tuttavia, pensandoci seriamente mi ripugna constatare come il diritto-dovere di voto venga valutato secondo la logica, assolutamente becera, dei “due pesi e due misure”, cioè secondo le diverse convenienze politiche, in base a scopi puramente economici di stampo classista.

Giudico ignobile cercare in tutti i modi di incoraggiare i cittadini a votare in massa per promuovere un ceto politico che mira solo a perpetuare il proprio potere e si stringe intorno a meschini interessi che premiano solo un’esigua minoranza di affaristi della politica, mentre con ogni mezzo si tenta di dissuadere la gente dall’andare a votare quando la posta in palio è costituita dai diritti inalienabili di ogni cittadino, cioè quando si tratta di espandere l’area della legalità costituzionale su cui si fondano il benessere e la giustizia sociale e da cui scaturiscono i massimi vantaggi di natura politico-democratica dell’intera comunità nazionale.

E’ probabile che il referendum sia diventato un “arnese” ormai abusato, un “anticaglia” politicamente inservibile in quanto sembra non avere più alcuna validità ai giorni nostri.

Di sicuro, con le attuali regole, esso non rappresenta più una misura vincente ma costituisce una scelta assolutamente fallimentare.

Mi chiedo come si sia potuto compiere un simile sperpero, nella misura in cui è stato dissipato un prezioso strumento di democrazia diretta concesso ai cittadini dalla nostra Costituzione.

Insomma, dopo aver constatato quel dato di fatto di cui non si può negare l’evidenza, non sarebbe male compiere uno sforzo per cercare di svelare l’intreccio causale che è all’origine del problema, ossia le ragioni che hanno determinato lo svuotamento di forza e di senso dell’istituto referendario.

Se si pensa che in altre nazioni dell’occidente, in modo particolare negli Stati Uniti d’America, il tasso dell’astensionismo elettorale ha raggiunto un livello cronico, oltrepassando quote da primato mondiale ( basti ricordare, ad esempio, che il presidente Bush è stato rieletto in pratica con il 20 % dei consensi effettivi del popolo statunitense), si evince facilmente come sia urgente, oltre che opportuno, intervenire con provvedimenti legislativi volti a modificare alcuni meccanismi elettorali ormai antiquati, provando anzitutto ad abbassare il quorum necessario per convalidare una consultazione referendaria, ma non solo.

Ebbene, il recente risultato referendario, se è da ritenersi deludente, conferma soltanto una tendenza in atto già da molti anni che, con il voto del 13 Giugno scorso, ha raggiunto il suo limite storico, nella misura in cui è da tempo che l’istituto del referendum ha cessato di essere uno strumento utile per promuovere ed eventualmente vincere determinate battaglie politico-sociali, concernenti questioni vitali per una democrazia ed uno stato di diritto.

La spinta positiva, in senso democratico-partecipativo, dell’istituto referendario, ha funzionato soprattutto negli anni ’70, in occasione dei referendum sul divorzio e sull’aborto, esaurendosi in quella fase. Non c’è dubbio che tale forza propulsiva si è dispiegata soprattutto in un contesto storico più generale in cui era prevalente l’azione progressista esercitata dai partiti politici e dai movimenti sociali negli anni che intercorrono dal 1968 al 1977. In quel decennio la prassi e la funzione dei partiti e dei movimenti politici, dei sindacati e di altre istituzioni democratiche, erano assai diffuse e rilevanti nella nostra società come anche in altre nazioni dell’occidente.

In un certo senso l’attuale processo di crisi dell’efficacia politica dell’istituto referendario, come pure di altri organi della democrazia liberal-borghese, rappresenta uno dei principali indicatori di una situazione più articolata e complessa che investe l’intera società contemporanea.

Mi riferisco al declino della democrazia nel suo complesso, non solo nelle sue forme più dirette e partecipative - come nel caso del referendum o di altre pratiche assembleari -, ma altresì nella sua versione classica di origine liberale, una crisi che assale l’ordinamento parlamentare borghese, che è un cardine della tradizione politico-costituzionale dell’occidente.

Un simile argomento richiede un ampio spazio di riflessione e non può risolversi in poche righe perché risulterebbe svilito e banalizzato, nella misura occorre affrontare il tema della cosiddetta “globalizzazione neocapitalista”, o meglio della “globo-colonizzazione” del mondo secondo un modello economico-sociale e politico-istituzionale che è in fase di costruzione e di imposizione su scala planetaria ma che è di provenienza anglosassone.

Certo, sussistono altri elementi che hanno concorso alla progressiva decadenza dell’istituto referendario. Si tratta di fattori episodici e contingenti, comunque poco rilevanti, ma che si collocano nel quadro più vasto della crisi della democrazia e della sovranità degli stati nazionali, ormai soppiantati da apparati decisionali più forti e da nuovi assetti di comando e di gestione dell’economia e della società, che poco o nulla hanno di democratico, nella misura in cui si tratta di organismi non elettivi ma di carattere economico e verticistico (si pensi al Fondo Monetario Internazionale, alla Banca Mondiale, alle multinazionali, eccetera).

La prepotente ascesa di tali strutture di controllo economico-politico a livello planetario, sta di ridimensionando, se non addirittura svuotando il potere dei vecchi stati nazionali basati sulla democrazia parlamentare ed ispirati da ragioni e sentimenti di origine ottocentesca, essendo il liberalismo una corrente politico-culturale nata e sviluppatasi nel secolo XIX, sopravvissuta fino al XX secolo ma divenuta ormai anacronistica. Ciò è vero non perché lo afferma il sottoscritto, ma perché lo attesta la realtà della storia, con la sua cruda e spietata forza di persuasione.

In questa nuova dimensione, senz’altro riduttiva ed umiliante, della politica e degli stati nazionali moderni, è possibile cogliere e comprendere la funzione di un sistema democratico-rappresentativo che si delinea con tratti sempre più autoritari, al punto che oggi è lecito parlare di “democrazia autoritaria”, con tutti gli effetti devastanti e degenerativi che ciò comporta sul terreno delle istituzioni politico-democratiche più tradizionali, tra cui il referendum.