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Fausto Bertinotti : i veri problemi della politica

Publie le mercoledì 24 agosto 2005 par Open-Publishing

Dazibao Partiti Partito della Rifondazione Comunista Parigi Fausto Bertinotti

di Fausto Bertinotti

Un’estate anomala, turbolenta, rumorosa, quella che sta finendo, dove l’hanno fatta da protagonisti mediatici nuovi rentiers e vecchi contenziosi. In tanto rumore della politica, c’è un’Italia "maggioritaria" pochissimo raccontata e quasi ancor meno rappresentata: essa ci rinvia alla spaccatura verticale della nostra società, alla disuguaglianza che cresce, ad una vera e propria emergenza salariale. E’ l’Italia del "meno": meno lavoro, salario, pensioni. Meno diritti - e quest’anno anche meno ferie. Era stata, la conquista delle vacanze, di un tempo continuativo "liberato" dal lavoro, una grande conquista del movimento operaio, e anche un simbolo di civiltà: oggi, non per caso, è drasticamente ridotta, ridimensionata - oppure, all’opposto, allargata a dismisura per chi un lavoro non ce l’ha, o si deve accontentare di una condizione precaria. Ecco, alla vigilia della consueta ripresa d’autunno, è da questo Paese reale, da questa lotta di classe occultata e permanente, che bisogna ricominciare, se si vuole dare un senso alla politica.

Ancor più che nel passato, del resto, la nuova stagione appare densa di annunci preoccupanti: come la stangata sulle tariffe e su alcuni servizi essenziali, dal gas ai libri scolastici, dopo il petrolio e la benzina che sono già schizzati alle stelle. Spie della più generale, e drammatica, questione sociale che ci riguarda, indotta da quella gigantesca crescita della rendita, che costituisce tanta parte dell’"anomalia" italiana - l’Italia "minoritaria" del "più", dei profitti che aumentano senza produrre né sviluppo né lavoro, del valore aggiunto delle imprese che premia solo gli azionisti.

In questo Paese reale così declinante e così distorto, il padronato manifesta un’arroganza ormai illimitata. Come gli imprenditori metalmeccanici, che annunciano la loro indisponibilità a discutere davvero del rinnovo del contratto - e anzi pretendono, come condizione dirimente per una trattativa degna di questo nome, la flessibilità totale sugli orari dei lavoratori: pretendono, in sostanza, la resa preventiva, la dismissione da parte dei sindacati di ogni soggettività. O come l’Alitalia, che pur si regge sul contributo dello Stato, che interrompe ogni rapporto con il Sult - un atto senza precedenti di puro arbitrio padronale.

C’entra tutto questo con ciò che chiamiamo politica? C’entra al punto che ne determina una conseguenza di prima grandezza. Questa è l’agenda vera dell’autunno. Questa è la discussione programmatica che va avviata subito, anticipando le scadenze in programma, costruendo una piattaforma dell’opposizione, mettendo in campo una mobilitazione vera, non solo parlamentare, contro la finanziaria del centrodestra. Come è sempre accaduto, il contratto dei metalmeccanici assume un valore generale: è il vero banco di prova di una politica alternativa, che non si limita a contrastare le scelte del governo, ma comincia a far avanzare, nelle proposte e negli obiettivi, la rottura con gli schemi neoliberisti. Una pratica di redistribuzione della ricchezza a vantaggio del lavoro e dei lavoratori. Una capacità concreta di aggredire i meccanismi di rendita. Un passo significativo in avanti nella costruzione di un nuovo blocco sociale.

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Questa proposta politica non nasce solo dalle nostre persuasioni soggettive, o dal nostro pur organico legame con il movimento operaio. Ovvero, a noi pare la proposta più efficace - e "realistica", se mi si consente l’aggettivo - dal punto di vista dell’alternativa al governo delle destre. Battere Berlusconi, certo, è un passaggio ineludibile della politica attuale, una priorità cioè da cui non si può prescindere. Ma quasi altrettanto ineludibile è la battaglia contro ciò che nel capitalismo ha generato l’era berlusconiana: la quale non solo non è riducibile a una mera anomalia, o arretratezza italiane, ma è in buona misura l’espressione "estrema" di una crisi di sistema - la crisi organica del capitalismo nella sua era neoliberista. Non la vediamo emblematicamente rappresentata, pressoché ogni giorno, nel declino delle grandi famiglie, nell’ascesa incontrollata dei rentiers, insomma nel progressivo disseccarsi della borghesia e di ogni sua energia innovativa? Non ci parla di essa il ritorno planetario della guerra come unica e tragica chance di "crescita" economica?

Ma se è così, non possiamo pensare di farcela soltanto sulla base di un programma di breve periodo: essenziale è la riapertura contestuale di un orizzonte di trasformazione, quel che un tempo si declinava come "nuovo modello di sviluppo", quel che oggi possiamo definire come alternativa di società. Né si tratta di rieditare l’antica tattica detta dei "due tempi" - oggi il governo, domani, chissà, l’avvio di un processo più avanzato di trasformazione. Si tratta, per un verso, di non assumere l’accesso al governo nella chiave della governabilità, o come una prigione impediente di ogni battaglia di trasformazione; e per l’altro verso di immettere nella pratica concreta della politica, anche della politica quotidiana, un elemento di rottura, uno squilibrio, una connessione non ideologica con quell’orizzonte generale.

Utopia? Ma se guardiamo alle altre risposte in campo, scopriamo che, forse, sono loro a rasentare l’utopismo. Il neocentrismo, intanto, che quest’estate ha riproposto la sua "sfida" con rilevante immagine dinamica. Esso muove, in parte, dalla nostra stessa analisi: vede una crisi organica e offre una via d’uscita "compatibilista", ovvero l’alleanza con le forze "migliori" del capitalismo, di cui assume fino in fondo la piattaforma. Solo che non vede la fragilità di queste forze e finisce per cavalcare una prospettiva tutta ideologica - il mercato, la "competitività" senza progetto, ovvero senza un progetto che non si riduca alla compressione ulteriore dei diritti e del lavoro.

Poi ci sono i riformisti, il "riformismo". Ed è il caso di dire: se ci sono, battano un colpo. Come ci dice anche, fuori da ogni polemica manichea, la vicenda Unipol-Bnl: se è chiaro che essa non attiene alla questione morale, è chiaro altresì che, invece, a un’idea della politica attiene da vicino. Qual è il blocco sociale di riferimento dei riformisti? Qual è la loro Italia? Qual è la loro strategia di riforme per il Paese?

Di fronte a questi interrogativi, il campo riformista appare dubbioso e oscillante. Un’incertezza che non aiuta la politica. Ma che ci conferma la necessità vitale della sinistra, di un progetto di sinistra, di una politica alternativa.

Noi, come Rifondazione comunista, siamo ben consapevoli dei nostri limiti, così come della nostra non autosufficienza. Non ci pare, tuttavia, che possa essere inscritto tra questi limiti un insufficiente impegno pacifista: diversamente dagli altri partiti, anche dai partiti della sinistra che oggi partecipano all’Unione, siamo stati risolutamente contrari ad ogni guerra, a cominciare da quella del Kosovo, ci siamo battuti perché l’Italia non fosse in essa coinvolta, abbiamo fatto della difesa dell’articolo 11 della Costituzione uno degli assi portanti della nostra lotta.

Questo impegno, per noi, resta centrale, "assoluto". Ed è centralità della pace, non solo opposizione alla guerra: è l’assunzione di una prospettiva, nient’affatto tranquillizzante, contro la catastrofe che incombe sulla civiltà. Contro la barbarie - per un’idea di politica che ridiventi capace di svolgere un ruolo attivo nei processi storici.

Anche le drammatiche vicende del Medio oriente e della Palestina sono per noi parte integrante di questa sfida strategica per la Pace. Per questo, non certo per schieramento ideologico, siamo sempre stati a fianco del popolo palestinese e abbiamo militato - militiamo - per la parola d’ordine "due popoli, due Stati". Per questo, non certo perché contrari all’esistenza dello stato d’Israele, abbiamo sempre avversato la politica di Ariel Sharon: non solo l’uomo delle stragi di Sabra e Shatila, ma del Muro - del non riconoscimento e dell’oppressione violenta dell’altro, del diritto dei palestinesi all’esistenza.

Ma come valutare, in questo quadro, l’iniziativa di sgombero dei coloni israeliani dal territorio di Gaza che il premier israeliano ha portato a termine proprio in questi giorni? A noi - ne sono profondamente persuaso - è richiesta la capacità di vedere ciò che muta, ciò che si muove: perciò dobbiamo apprezzare ciò che ha fatto Sharon. Per un verso, non dobbiamo commettere l’errore di identificarlo, ora e sempre, ora e comunque, con le sue scelte del passato. Per l’altro verso, dobbiamo sapere che questo evento ha un grande valore di rottura simbolica. Non è certo una soluzione del problema palestinese, e non ne è neppure l’avvio politico - anche perché non comprende la dimensione essenziale di una trattativa vera, compiuta, con i rappresentanti del popolo palestinese.

Esso tuttavia implica, appunto sul terreno simbolico, la rottura di uno schema che fino ad oggi pareva impenetrabile - lo schema della Grande Israele, della quale i coloni erano l’avamposto. Lo schema, in fondo, che sta alla radice della parola d’ordine del sionismo "un popolo senza terra, una terra senza popolo" e che ha condizionato l’intera politica israeliana, fondandola sul non riconoscimento - sostanziale - dell’esistenza, e dei diritti, dei palestinesi. Ora, questo fattore storico, che si è rivelato impediente di ogni processo di pace, è incrinato, è messo in causa - e in Israele, nella società israeliana, questo equivale a un trauma che può rivelarsi salutare e denso di conseguenze.

Non siamo alla pace, tutt’altro, ma solo ad una sua premessa, all’implicita ammissione della sua necessità, alla conquista di una condizione che prima non c’era. Nulla che garantisca un processo che sarà durissimo, faticato, pericoloso - e che ha in Ginevra il suo modello fondamentale di riferimento. Ma quando l’avversario si muove, dobbiamo avere l’intelligenza politica di cogliere, anche nei suoi limitati movimenti, il segno della possibile nostra egemonia. Alla fin fine, un tranquillo governo imperiale del mondo non sarà mai davvero possibile.

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