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STORIE DI COLONI

Publie le venerdì 2 settembre 2005 par Open-Publishing

Guerre-Conflitti medio-oriente Luisa Morgantini

di Luisa Morgantini,

Senjel, è un piccolo villaggio nei pressi di Ramallah, quella città
palestinese che il corrispondente Rai da Gerusalemme, Pagliara, con totale
incuranza della legalità internazionale, chiama la capitale della
Palestina, così come dice di Gerusalemme, capitale di Israele.

Il sindaco con molto orgoglio ci racconta che il nome del villaggio
proviene da Raymond de Saint Gilles, principe di Tolosa e crociato che
aveva fondato un piccolo regno, ma dopo l’arrivo di Saladino gli abitanti
erano diventati musulmani. Però, con Lea Tsemel, un avvocatessa
israeliana dedicatasi, dall’occupazione militare di Israele del ’67, a
difendere migliaia e migliaia di palestinesi incarcerati e torturati, non
siamo venute per parlare dell’origine del villaggio, ma per visitare la
famiglia dei due fratelli , Usama e Bassam Tawasha, 28 e 26 anni, uccisi,
con altri due palestinesi da un colono israeliano, Asher Weissgan lo
scorso 17 Agosto. Proprio di fronte a Senjel si vede l’insediamento,
costruito sulle terre di proprietà del villaggio. Inizialmente l’area era
stata considerata militare, poi come è quasi sempre successo sono arrivati
i primi coloni difesi dall’esercito. I due fratelli insieme a palestinesi
di altri villaggi lavoravano in una piccola fabbrica di alluminio, paghe
da supersfruttamento, spesso malvisti anche dai propri paesani perché
lavoravano con i coloni, ma c’era la famiglia da mantenere.

Così, mentre il mondo assisteva all’evacuazione di Gaza dei circa 8
mila coloni e alle loro lacrime mescolate a quelle di soldati e soldatesse,
nella Cisgiordania, la violenza dei coloni contro i civili palestinesi
cresce cosi come crescono ogni giorno di numero, secondo Gilad Heiman,
uno dei portavoce del Ministero dell’Interno Israeliano, dal Giugno 2004
vi sono 12.800 coloni in più, raggiungendo, senza contare i più di 200
mila di Gerusalemme Est, il numero di 246.000. Cresce freneticamente anche
la costruzione del muro con relativa annessione di territorio palestinese
ad Israele e ai contadini e ai giovani che pacificamente nel villaggio di
Bele’in cercavano di raggiungere la loro terra, confiscata per il futuro
muro, i soldati non piangevano per il dolore dei contadini nel vedere
sradicare gli alberi di olivo, loro unica risorsa economica, sparavano
uccidendo un giovane di 16 anni.

Vedendo servizi televisivi e leggendo i giornali, i coloni di Gaza non
sembrano essere quelli che dal 1967 a partire dall’occupazione militare
israeliana hanno terrorizzato donne e bambini palestinesi, insediandosi
sulle loro terre ricche di palmeti, arance, olivi, banano, ma gente mite
che voleva solo vivere serena, e che in nome dell’unità del loro popolo
accettava di andarsene dalle case e dalle spiagge che tanto amavano. I
coloni di Gaza non sono poveri pionieri idealisti andati a dissodare le
terre del deserto, bensi per gran parte fanatici sostenitori del diritto
divino degli ebrei a quella terra e della deportazione dei palestinesi, quante volte mi hanno detto, "gli arabi con gli arabi, noi non abbiamo
altro paese, loro hanno tutti i paesi arabi" Certo è doloroso andarsene,
molti sono nati in quei luoghi, ma chi sceglie di occupare terre altrui ne
porta le responsabilità, in modo specifico i governi israeliani che hanno
voluto le colonie.

Nella casa della famiglia di Usama e Bassam, costruita, nella tradizione
palestinese, da tutti i membri della famiglia, nonni, zii, donne e banbini,
la mamma di Usama e Bassam ci accoglie piangendo sommessamente (non tutte
le donne palestinesi manifestano il loro dolore urlando al cielo), ci
mostra le foto scattate durante la costruzione della casa, prende una foto
che raffigura una tavolata di uomini sorridenti, "questo è lui, Asher,
quello che ha ucciso i mie figli". Guardiamo incredule, Asher è l’ultimo
della foto, capelli grigi e sorride, come gli altri. Lo conoscevano da
dieci anni, faceva l’autista, era scomparso nel 2000 e riapparso cinque
mesi fa, aveva cambiato insediamento pare che vivesse in uno di quello
considerati illegali anche dal governo Sharon. Quel giorno il 17, avevano
bevuto il mattino il caffè insieme e Ashar conversando con Rawhi Kassab,
sopravissuto e ferito ad una guancia, aveva detto di non aver più voglia
di vivere. Kassab ce lo racconta all’Ospedale Hadassah di Gerusalemme. E’
stato davvero fortunato Kassab, Asher gli ha sparato due volte, una prima
volta nel camioncino, poi nel viottolo mentre gli gridava "che fai
Asher, fermati".

Nessuno crede alla follia di Asher, sostengono che sia stata un azione
concertata, come quella compiuta qualche giorno prima da un giovane ebreo
che ha sparato all’impazzata contro palestinesi, cittadini israeliani.
Asher, dice Kassab, appena finito di sparare con un M16 è corso
all’uscita della colonia e si è infilato nella jeep della sicurezza, come
se lo stessero aspettando.

Usama aveva moglie e sei bambini, l’ultimo nato quattro mesi fa, Bassam
era sposato da quattro anni e non aveva figli, la madre ci dice che la
giovane moglie dovrà tornarsene al suo villaggio, pare sia le regola
quando non ci sono figli, "ma la casa, che ne faremo della casa di Bassam,
quanti sacrifici per farla e lui ne era così orgoglioso". Mohammed Mansour
e Abdel Rauf Walwil gli altri due palestinesi uccisi avevano figli, oltre
ai sei orfani di Usama, vi sono altri 10 orfani.

Asher Weissgan ha dichiarato di non pentirsi e che lo rifarebbe, Sharon
lo ha condannato chiamandolo terrorista, l’Unione Europea è stata più
blanda, ha recriminato l’ uccisione dei quattro lavoratori palestinesi e
chiesto alla due parti di contenersi.

Intanto in Israele si è formato un gruppo di avvocati e attivisti che
hanno deciso di documentare le violenze commesse dai coloni, si chiama
Yeshdin, ho incontrato alcuni di loro mentre stavano raccogliendo
all’ospedale la testimonianza di Kassab, hanno anche un sito web, dove si
possono leggere testimonianze di soprusi e violenza commessi dai coloni
negli ultimi mesi. Ne riprendo alcune nei loro tratti essenziali:

Samikh Mustafà Halil Shatiya, contadino, 70 anni, ha un uliveto con
150 alberi, li conosce e li ama ad uno ad uno, sono la sua vita e l’unica
entrata economica, malauguratamente la terra si trova vicino al check
pointi di Beit Furik a 400 metri dall’insediamento di Alon Moreh. Il12
Maggio alle 9.30 del mattino, mentre si recava nell’ uliveto, quattro
ragazzi della colonia lo hanno interpellato, poi uno di loro con un
sasso lo ha colpito alla schiena, subito dopo tutti hanno iniziato a
lanciargli sassi . Uno dei giovani, che si trovava a due metri di
distanza , ha preso un masso grande e lo ha lanciato con tutta la sua
forza, Samikh era a terra che urlava per il dolore e un altro dei
ragazzi gli ha calpestato la mano con le sue scarpe pesanti. Dice Samikh
che hanno pensato che fosse morto. Lui li poteva intravedere mentre lo
studiavano da ogni angolo, uno di loro gli ha strappato i pantaloni e li
ha lanciati lontano, poi sono scappati verso l’insediamento. Samikh ha
cercato aiuto . La mano sinistra era rotta in tre parti, porta ancora il
gesso e continua a soffrire di dolori alla schiena e vomita.

Munjed Hasan Tamini, contadino 28 anni, la sua terra è nei pressi della
sorgente di Ein el Kos, vicino a Ramallah, vi sono delle piscina d’acqua
costruite dai suoi antenati, le piscine sono vuote ma riempite di pietre e
aste. La fonte d’acqua è davanti all’entrata della base militare
israeliana, che è la stessa entrata dell’insediamento di Halamish. I
coloni, con la protezione dei soldati vogliono prendersi la fonte d’acqua
e il terreno di Munjed, sono entrati sulla sua terra ed hanno cominciato a
ripulire le piscine, Munjed ha rimesso pietre ed aste e i coloni hanno,
per punizione tagliato l’acqua a tutto il villaggio di Munjed, i contadini
palestinesi da allora continuano a ripristinare l’ acqua che costantemente
viene tagliata dai coloni. Alle sementi di pomodori piantati nel campo è
andata male, sradicati, allora Munjed pianta fagioli, fino a quando i
coloni decidono di invadere il suo campo, Munjed arriva con gli altri
contadini e anche dei bambini del villaggio, i coloni sparano e
picchiano, l’ ufficiale di sicurezza della colonia intima di andare e
dice che quello è territorio dello Stato Israeliano e minaccia di
distruggere tutti gli alberi di olivo, iniziando a rompere dei rami. Si
avvicinano i soldati del campo militare e rassicurano Munjed mentre gli
visionano la carte d’identià che terranno i militari lontani dal suo
campo. Il 18 Marzo verso le 13 però i coloni entrano di nuovo nel
campo, appena saputolo in una decina palestinesi vanno verso di loro e
arrivati a 6- 7 metri di distanza i coloni cominciano a sparare. Arrivano
i soldati che questa volta non rassicurano, ma stanno decisamente dalla
parte dei coloni, immobilizzano e picchiano i palestinesi, gli legano le
mani dopo avergli tolto le magliette e usate per bendargli gli occhi e li
mettono in piedi contro il muro. Gli puntano le armi addosso, poi li
portano via bendati su una jeep, li minacciano e li picchiano
ininterrottamente. Munjed dice ha ha sentito che il soldato non lo vedeva
come un essere umano. Sono stati rilasciati, buttati ancora bendati fuori
dalla jeep dopo le 21 di sera. La terra è in mano ai coloni.

Aziz Abdul Karim Salman Hneini, pastore 70 anni, abita nel villaggio di
Beit Dejan e porta il suo gregge a pascolare a cavallo di un asinello, lo
ha fatto anche il 24 maggio. La terra è ai piedi di una collina dove passa
una strada che va negli insediamenti, precisamente a Eilon Moreh, verso le
17 ha visto una jeep bianca che saliva verso la strada sterrata e si
fermava a qualche distanza, ha avuto timore che ci fossero dei coloni e
malgrado per lui fosse presto si è incamminato verso casa. Nel frattempo
dalla collina sono scesi un uomo e quattro ragazzi che con pietre in
mano gli intimavano di fermarsi, mentre gli chiedeva che cosa volevano da
lui che non gli aveva fatto niente, questi hanno cercato di strappargli il
bastone del pascolo, alla sua resistenza il bastone si è rotto a metà ed
uno dei ragazzi lo ha preso e cominciato a colpirlo sulla testa e sul
viso, mentre gli altri gli davano pedate, alla fine poi gli hanno
strappato il copricapo per umiliarlo mentre lo insultavano. Il tutto era
durata quindici minuti e la Jeep era ancora ferma, se ne è andata subito
dopo. L’uomo adulto che lo aveva aggredito era lo stesso che l’anno
prima, insieme ad altri coloni lo aveva picchiato e rubato due somari. Lo
ha detto alla polizia israeliana, ma naturalmente non ne hanno fatto
nulla, gli hanno preso la sua carta d’identità,è riuscito, accompagnato
da un nipote ad arrivare al check point di Beit Fouriq mentre ancora
sanguinava, dopo avere avere atteso quaranta minuti un ambulanza
palestinese lo ha medicato e portato all’Ospedale di Nablus.

Hani Muhammad Abdallah Amer, contadino nato nel 1957, ha sei bambini ed
abita nel villaggio di Masha, la sua casa si trova ad ovest del Muro è la
sola casa rimasta nella parte israeliana, naturalmente è territorio
occupato nel 67, a 20 metri dalla sua ci sono le case della colonia di
Elkana, sono separati da una strada.Da quando è stato costruito il muro
sono iniziati i problemi, ogni giorno angherie, lanciano pietre e sassi
alla casa e quando Hani torna dal lavoro incontra i coloni che lo stanno
aspettando sul ponte e gli tirano sassi, bottiglie, immondizia. Con i
sassi gettati verso la casa hanno rotto il raccoglitore di acqua piovana.
Hani ha denunciato alla polizia israeliana i fatti, ma le sue
denuncie non sono valse a nulla. Il 13 Giugno all’una e cinque di notte,
sette ragazzi dell’insediamento hanno cominciato a tirare sassi sulla sua
casa, la sassaiola è durata 45 minuti, ha chiamato la polizia ma quando è
arrivata i ragazzi non c’erano più. Rrimanevano i segni delle pietre sui
muri e i vetri rotti. Ha compilato denunce su denunce, senza mai trovare
risposte.

Di abusi e violenze dei coloni ne sanno qualcosa anche gli italiani dell’
operazione Colomba che nei villaggi nei pressi di Hebron assistono e a
volte subiscono le loro aggressioni. . Lo hanno visto e provato anche le
Donne in Nero italiane, quando il 21 Agosto sono state a Hebron, nel
centro della città in mano ai coloni, protetti dai soldati, nella Shoada
street, inviperite e fanatiche colone le hanno aggredite, tirando
schiaffi, patate, sassi, ed ogni possibile oggetto, con la benedizione
dei soldati israeliani fermi al check point della strada ormai vietata ai
palestinesi.