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25 luglio 2006, 12:29

liberazione
L’assemblea del popolo arcobaleno chiude le giornate per ricordare il
luglio 2001: campagna d’autunno contro la guerra
Genova chiama Kabul, riparte
da qui il cammino dei pacifisti
Checchino Antonini
Genova nostro inviato
Nessuno qui a Genova, nega l’importanza del ritiro dall’Iraq. Ma quel
risultato non muta lo scenario: «L’unica riduzione del danno è la fine
della guerra», dice il rossoverde Antonio Bruno, leggendo un appello che
rilancia la piattaforma dei forum sociali di Bamako, Caracas e Atene, alla
fine dell’assemblea titolata Ripartire da Genova per il ritiro
dall’Afghanistan. Tradotta in italiano, quella piattaforma chiama a una
grande assemblea unitaria, a settembre, per scovare un percorso che porti a
staccare, entro la fine dell’anno, il biglietto di ritorno per i “nostri”
ragazzi a Kabul. Prossima fermata, quella dell’assemblea nazionale,
potrebbe essere Firenze, la città da cui partì l’appello alla mobilitazione
del 15 febbraio 2003 in cui si manifestò quella che il New York Times volle
definire la seconda potenza mondiale. Poi, non appena sia stato recuperato
lo slogan originario del movimento - contro la guerra militare, sociale ed
economica - ci sarà da tornare nei territori magari in forma di carovana
come suggerisce Alfio Nicotra, responsabile Pace di Rifondazione.

L’autunno potrebbe essere definitivamente iniziato ieri a Genova dopo due
settimane scandite da altre importanti mobilitazioni, quella contro la
precarietà dell’8 luglio, al Brancaccio di Roma, e l’altra contro la
guerra, di sette giorni fa, autoconvocata ancora a Roma intorno ai
parlamentari “ribelli”. Momenti distinti che comunque si sono parlati. Non
fosse perché il drappello di senatori e deputati che formano il fronte del
no ha almeno il merito di aver imposto all’ordine del giorno il tema della
madre di tutte le missioni. Ieri mattina, il dibattito su pace e guerra s’è
ulteriormente “smilitarizzato”, questione piuttosto a cuore ai promotori, e
ha messo a fuoco il tema dell’autonomia dei movimenti visto che, per usare
le parole introduttive di Marco Bersani, portavoce di Attac, s’è creduto,
in questi giorni, di parlare di guerra. «E invece abbiamo solo parlato di
governo. Mica esiste un governo amico ma non è indifferente se introduce o
meno elementi di discontinuità».

L’autonomia, tuttavia, è un tema che è stato declinato con diverse
tonalità. A chi, come Paolo Cacciari (il deputato Prc che ha trovato
«insopportabile votare il ddl sulle missioni»), spiegava che non vuol dire
separatezza e ipotizzava modalità di consultazione e interlocuzione
trasparenti e permanenti, si contrapponeva quasi il pattiano Nicolosi per
il quale autonomia non è indifferenza alle sorti del governo. Contando
quanti, in sala, fossero “istituzionali”, il milanese Muhlbauer,
consigliere lombardo del Prc, ha voluto richiamare il dato che la sua, e
l’elezione di altri esponenti di movimento, è frutto di una storia che ha
visto l’irrompere di nuovi soggetti sulla scena politica fino ad arrivare
nelle istituzioni. Il trucco sta nel capire che sono i meccanismi di delega
a mangiarsi lo spazio pubblico dei movimenti. Lo ha spiegato Anna Pizzo
giornalista di Carta e consigliera alla regione Lazio, durante una
discussione che ha alternato momenti di analisi a formulazione di proposte,
evocando più volte lo “spirito di Genova” mentre una “vecchia, nuova
guerra” si riaffaccia prepotente sulla scena.

Avverte Raffaele K. Salinari, presidente di Terres des Hommes, che dietro
l’angolo, in Medio Oriente, c’è la logica che si affermò ai tempi del
Kosovo. Anche allora l’escamotage dei corridoi umanitari da aprire portò
alla sospensione del diritto internazionale. Raffaella Bolini, dell’Arci,
denuncia un ritardo di analisi - sul rapporto con la politica e sulle
alternative alle missioni militari - che fa sì che l’unica cosa da dire
insieme sia “yankee go home”. Un po’ poco per la responsabile
internazionale dell’Arci più attenta di altri a considerare la complessità
del fronte pacifista e a scommettere sui risultati che potrebbero arrivare
dal governo. Ma anche lei è cosciente che il 61% della popolazione
italiana, tanti quanti si sono dichiarati per la fine delle missioni
militari in un recentissimo sondaggio di Mannheimer, non ha adeguata
rappresentanza politica nel nuovo parlamento. «Il governo resterà in piedi
solo se non continua la guerra», le ribatte Norma Bertulacelli, pacifista
storica genovese. Lo stesso Bersani, nell’introduzione, aveva detto che la
discontinuità reclamata serve a consolidare la vittoria del 9 aprile e che
assemblee come questa «fanno bene all’Unione». Norma, però, va oltre e
chiede, inascoltata, uno sciopero generale anziché una sfilata. Le somiglia
un po’ Luca Iori, giovane comunista del Buridda genovese, quando chiede che
tornino a essere messi in gioco i corpi, per assediare le basi e le
industrie belliche, come fu per il train-stopping, Anche tra i promotori,
insomma, le differenze non sono dettagli ma hanno il merito di aver
attirato a Genova anche chi non ha aderito all’appello dei promotori. Il
cobas Pino Giampietro, lontano dall’assemblea, ricorda che la battaglia
parlamentare non è ancora finita e che mentre il senato discuterà, loro
saranno lì sotto. Restano assenti pezzi non secondari di quello che fu
“Fermiamo la guerra”, il tavolo che costruì il 15 febbraio. Non si vedono,
a “destra”, cislini e scout, e, a sinistra, settori antimperialisti e
disobbedienti. Ma chi alla fine arriva al teatro della Foce si sentirà «a
casa». Come il milanese Piero Maestri, della rivista Pace & Guerre e
consigliere provinciale Prc. Quello che andrebbe indagato, segnala,
dovrebbe essere il “sistema guerra” e le trasformazioni che ha imposto alla
politica. Un esempio del degrado, indotto dalla logica di guerra, viene
riferito da Luiz Del Rojo, deputato Prc. Ha a che fare con Genova e con le
dimissioni di Malabarba per far posto ad Haidi Giuliani. Quando l’ex
operaio Fiat lo ha annunciato ai suoi colleghi, dai banchi delle destre si
inneggiava ai carabinieri, quelli che uccisero Carlo nel loro illegittimo
attacco a un corteo autorizzato.

Da Alfonso Navarra, “disarmista” e compagno di strada di Zanotelli, allo
scienziato Angelo Baracca, da Legambiente fino a Sabina Siniscalchi,
economista del giro di Banca Etica ed eletta deputata nel Prc (ha votato sì
ma non crede che sia finita qui), sono molti a tentare di ampliare l’ambito
della mobilitazione ai temi del riarmo nucleare, del commercio delle armi,
anche di quelle leggere, alle questioni della riconversione delle industrie
belliche, delle politiche energetiche e dello smantellamento delle basi
Nato che andrebbe rinegoziata e - perché no? - superata. Riprendendo un
input prezioso del leader Fiom, Rinaldini (intervistato in questa stessa
pagina), Claudio Grassi, senatore “ribelle” del Prc e coordinatore
dell’area Essere comunisti, avverte che non è certo il «momento degli
steccati». Si dovrà ripartire dal «silenzio del mondo sulla questione
palestinese» e rivendica le «luci rosse» accese nelle istituzioni per
scongiurare il voto bipartisan su un’intesa «insufficiente e che non andava
votata senza far pesare certe ragioni». Le ragioni del 61%. «Cinque anni
dopo il movimento è in crisi, ci sono le organizzazioni ma manca una casa
comune», segnala Nando Simeone, vicepresidente, per il Prc, del consiglio
provinciale di Roma. «Nelle fabbriche massacrate - ammette Franco
Turigliatto, altro senatore “dissenziente” - registro la preoccupazione dei
lavoratori per un’eventuale crisi di governo ma credo che contro la guerra
si possa ottenere la stessa unità che è stata registrata sulla precarietà.
La pace è un elemento costituente».

Suggerendo che sia Firenze ad ospitare la prossima tappa, Vittorio
Agnoletto lancia una suggestione forte per l’autunno: «E se fra sei mesi si
tornasse a discutere di Afghanistan con un centinaio di parlamentari che
presentano un documento sintonizzato sul movimento?». Sue le conclusioni
dell’evento che chiude le giornate genovesi dedicate al passato e al
futuro. Quando sente D’Alema parlare di eccesso di difesa a proposito degli
abusi israeliani su Palestina e Libano, l’ex portavoce del Gsf non può fare
a meno di ricordare che furono le stesse parole utilizzate per giustificare
le scorribande poliziesche del G8. La guerra ha anche un fronte interno
come i nomi di Scajola e Bianco (ministri di polizia di Genova e Napoli),
ancora in posti chiave, stanno lì a ricordare. Minacciosamente.


il manifesto

«A dicembre via dall’Afghanistan»
Alla vigilia del voto al senato, a Genova una vasta fetta del movimento no
war lancia una mobilitazione per settembre e tenta di riallacciare un
dialogo tra «governisti» e «pacifisti»
Angelo Mastrandrea
Inviato a Genova
Hai voglia a parlare di autonomia del movimento rispetto al governo, ma
quando in un’assemblea pacifista a intervenire per buona parte sono
esponenti istituzionali capisci che il problema è tutto lì ed è inutile
girarci attorno. La galassia pacifista si è in parte fatta governo,
Rifondazione comunista nel ruolo del leone, e il nodo da sciogliere è come
conciliare tutto questo con le posizioni intransigenti del movimento. E
come ottenere una svolta significativa nella politica estera senza
rischiare di far cadere il «governo amico». Dunque, no alla missione in
Afghanistan «senza se e senza ma» o «senza se con qualche ma»? Lunedì si
vota al Senato e ieri a Genova una vasta fetta del movimento ha tentato di
prendere il toro per le corna e riallacciare un dialogo tra «governisti» e
«movimentisti» che finora ha spaccato in due i pacifisti.
Risultato? Platea nettamente a favore del ritiro da Kabul nonostante le
aree più radicali si siano tenute ben lontane dall’appuntamento, grandi
applausi per Paolo Cacciari e per il senatore «dissidente» Franco
Turigliatto che si difende dall’accusa di anacronismo lanciatagli dal
presidente Napolitano. E un documento finale che ricalca quello
dell’assemblea degli «autoconvocati» una settimana fa a Roma, lanciando una
campagna nazionale per il ritiro dall’Afghanistan a partire da settembre,
con un grande appuntamento di discussione, forse a Firenze, per tentare di
ritrovare l’unità dei no war, fino ad arrivare a una grande manifestazione.
Non si è parlato di date, anche se un pezzo del movimento, che ieri non era
presente, pensa al 30 settembre, data partorita al Forum sociale europeo di
Atene.
L’impressione è che, se pure anche al Senato il decreto sulle missioni
militari alla fine passerà, la grana vera sarà invece tra sei mesi, quando
difficilmente, se la nostra politica estera non dovesse essere cambiata, si
potrà parlare di «riduzione del danno» rispetto al mantenimento del
contingente italiano in Afghanistan. «Il nostro obiettivo è arrivare al
ritiro delle truppe tra sei mesi», quando si dovrà votare il
rifinanziamento, spiega Vittorio Agnoletto, europarlamentare Prc. Per ora
il confronto è aperto e le distanze rimangono immutate: Cacciari si fa
applaudire quando dice che «dobbiamo incalzare l’Unione», parla di
«peacekeeping» e «corpi di pace» e propone una «camera di consultazione»
tra movimento e governo; Sabina Siniscalchi, che, al contrario del suo
compagno di partito, alla Camera ha votato sì al decreto perché convinta
che, con la politica dei «piccoli passi», qualcosa si possa cambiare;
Claudio Grassi, senatore «dissidente» del Prc, che ricorda come «se non ci
fossimo stati noi ci sarebbero state solo luci verdi di consenso su
un’intesa insufficiente che è stata un errore votare senza far pesare le
nostre ragioni»; Luciano Muhlbauer, consigliere regionale lombardo di
Rifondazione, che pensa a un’«agenda di mobilitazioni per l’autunno», pena
«il suicidio politico del movimento»; e Josè Luiz del Rojo (deputato Prc)
che invita invece a non fossilizzarsi sul «dettaglio» Afghanistan rispetto
alla battaglia globale contro il neoliberismo di cui Kabul è pure un
tassello. Tutti con un passato recente nei movimenti sociali e oggi di
fronte alla sfida di governo.
«Non ho mai pensato che un governo che va da Mastella a Bertinotti potesse
esprimere le istanze del movimento pacifista, che oggi non ha
rappresentanza politica» ed è in crisi «e non da ora», con «gran parte dei
settori cattolici sempre meno presenti», dice invece il segretario Fiom
Gianni Rinaldini. Dunque meglio tenere la barra sulle proprie posizioni e
dotarsi di un’autonoma agenda di iniziative. Ma un’assemblea no war non può
non discutere anche di Israele e Libano. Con preoccupazione e qualche
allarme per le proposte arrivate anche dal governo italiano. «Non dobbiamo
scambiare l’umanitarismo con il diritto internazionale, altrimenti
rischiamo un altro Kosovo», mette in guardia Raffaele Salinari di Terre des
Hommes. Un altro fronte per un movimento pacifista che tenta di sfuggire
alla sindrome da governo amico.