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L’ULTIMO PARTIGIANO

30 luglio 2007, 11:34

*"ABBIAMO SCELTO DI VIVERE LIBERI"*

(Brano tratto da "Senza tregua. La guerra dei Gap" Feltrinelli, prima edizione 1967)

Da Viale Romagna si raggiunge Piazzale Loreto lungo il rettilineo fino in Via Porpora e si svolta a sinistra. Dappertutto cordoni di repubblichini: militi dietro militi, sempre più fitti, sempre più lugubri. In piazzale Loreto una folla sconvolta e sbigottita. Si respira ancora l’odore acre della polvere da sparo. I corpi massacrati sono quasi irriconoscibili. I briganti neri, pallidi, nervosi, torturano il fucile mitragliatore ancora caldo, parlano ad alta voce, eccitatissimi per ave sparato l’intero caricatore. Sbarbatelli feroci, vicino a delinquenti della vecchia guardia avvezzi al sangue ed ai massacri, ostentano un atteggiamento di sfida volgendo le spalle alle vittime, il ceffo alla folla.

Ad un tratto irrompe un plotone di repubblichini, facendosi largo a spinte e a corpi di calcio di fucile e andando a schierarsi vicino ai caduti. "Via via, circolate" urlano. Spontaneamente il popolo è accorso verso i suoi morti. Ora la folla, ricacciata, viene premuta tra i cordoni dei fascisti. Urla di donne, fischi, imprecazioni. "La pagheranno!".

I repubblichini, impauriti, puntano i mitra sulla folla. Dall’angolo della piazza scorgo lo schieramento fascista accanto ai nostri morti. Potrei sparare agevolmente se i fascisti aprissero il fuoco. In quel momento, fendendo la calca si fa largo una donna: Avanza tranquilla, tenendo alto un mazzo di fiori; raggiunge le prime file,
vicino al cordone dei repubblichini, come non vedesse le facce livide e sbigottite degli assassini; percorre adagio gli ultimi passi. Scorgo da lontano quella scena incredibile, un volto mite incorniciato da capelli bianchi, un mazzo di fiori che sfila davanti alle canne agitate dei fucili mitragliatori.

I fascisti rimangono annichiliti da quella sfida inerme, dall’improvviso silenzio della folla. La donna si china, depone i fiori, poi si lascia inghiottire dalla folla.

Comincia così un corteo muto nato come da un improvviso accordo senza parole. Altre donne giungono con altri fiori passando davanti ai militi per deporli vicino ai caduti. Chi ha le mani vuote si ferma un attimo vicino alle salme martoriate.

Per ogni mazzo di fiori ci sono cento persone che sostano riverenti. Si odono distintamente i rumori attutiti dei passi e si colgono i timbri alti delle voci. Accanto a me uno bisbiglia: " Vede quello a sinistra? Tentava di scappare. Appena era sceso dal camion si era diretto di corsa verso una via laterale. Credevamo che ce l’avrebbe fatta. Era già lontano. L’hanno riportato indietro che zoppicava, ferito ad una gamba. L’hanno spinto accanto agli altri, già schierati in attesa".

L’ultimo volto che vedo abbandonando la piazza è quello di un repubblichino, che ride istericamente. Quel riso indica l’infinita distanza che ci separa. Siamo gente di un pianeta diverso. Anche noi combattiamo una dura lotta in cui si da e si riceve la morte. Ma ne sentiamo tutto l’umano dolore, l’angosciosa necessità. In noi non è, non ci può essere nulla di simile a quello sguardo, a quella irrisione di fronte alla morte. Loro ridono.

Hanno appena ucciso 15 uomini e si sentono allegri. Contro quel riso osceno noi combattiamo.

Esso taglia nettamente il mondo: da una lato la barbarie, dall’altro la civiltà. I cordoni dei repubblichini sono sempre fitti. Ad ogni passaggio, ad ogni posto di blocco mi imbatto nella loro insolenza, nella loro spavalda vigliaccheria: mitra ostentati, bombe a mano al cinturone, facce feroci, lugubri camicie nere, ancora una volta, come in Spagna di fronte alla spietata ferocia degli ufficiai nazisti si rivelano i due mondi in antitesi, i due modi opposti di percepire la vita. Noi abbiamo scelto di vivere liberi, gli altri di uccidere, di opprimere, costringendoci a nostra volta ad accettare la guerra, a sparare e ad uccidere.

Siamo costretti a combattere senza uniforme, a nasconderci, a colpire di sorpresa. Preferiremmo combattere con le nostre bandiere spiegate, felici di conoscere il vero nome del nostro compagno che sta al nostro fianco. La scelta non dipende da noi, ma dal nemico che espone i corpi degli uccisi e definisce l’assassinio "un esempio".

La belva oramai incalzata da ogni parte si difende con il terrore. Mi rifugio in casa. Mi raggiunge nel pomeriggio una staffetta. I repubblichini hanno sparato in aria per allontanare la folla davanti ai caduti.

Il giorno successivo alla Vanzetti, alla Graziosi, alle Trafilerie, alla Moto Meccanica, alla O.M., ecc.., gli operai abbandonano il lavoro in segno di protesta; alla Pirelli le maestranze si riuniscono in silenzio.

Ora tocca a noi.

Nella medesima notte prepariamo 8 bombe ad alto potenziale. Il tecnico, abituato ad un lavoro di precisione, esprime le sue preoccupazioni, ma si piega alle necessità. Il giorno dopo, all’alba , io, Narva e Sandra ci troviamo nella chiesa di Via Copernico per la consegna dell’esplosivo. Il parroco si aggiunge a celebrare la prima messa, avanzando silenziosamente dalla sacrestia.
Nella chiesa, deserta, regna un silenzio profondo, una pace incredibile. Arriva il tecnico con le borse. Il prete assiste alle consegne, immobile fra i chierichetti. Comprende? Non so. Usciamo. Accompagno le ragazze all’appuntamento con Conti e Giuseppe, per l’ultimo scambio delle borse. "Vi proteggerò le spalle", dico, "calma e sangue freddo, non ci sarà nessuna sorpresa." I due gappisti con la calma e la sicurezza di professionisti, depositano le bombe, si eclissano in una viuzza scambiandosi un rapido cenno di saluto.

Una, due, tre esplosioni scuotono l’aria, infrangono i vetri.

Il ritrovo ufficiale del comando tedesco è devastato come un campo di battaglia. Abbiamo disposto le cariche in modo che gli esplosivi deflagrassero prima sulle finestre e successivamente all’uscita del Circolo. Il Feldmaresciallo Kesserling invita le forze dipendenti ad agire con maggiore energia nei confronti dei sabotatori da impiccarsi sulle pubbliche piazze; il comandante della piazza di Milano anticipa il coprifuoco alle 22.00. Il nemico si rende conto che l’arma del terrore gli si ritorce contro.

Dobbiamo insistere. Azzimi e Borsetti attaccano il comando repubblichino nella sede dove convergono i lavoratori italiani da inviare il 14 in Germania. Il mattino del 14 agosto un alto ufficiale tedesco e due subalterni mentre discutono in un ufficio del Palazzo di Giustizia vengono uccisi con una "Sipe", lanciata da una finestra. Nei corridoi, tedeschi e fascisti fuggono in preda al panico. Il coprifuoco non si ferma: il 16 agosto ancora Azzini e Borsetti giustiziano uno squadrista, ufficiale della milizia e delatore di partigiani e, due giorni dopo, un’altra squadra abbatte un ufficiale delle SS a Porta Volta.

"La pagheranno!!!", era la parola d’ordine del popolo e la nostra.

Giovanni Pesce