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11 marzo 1977

Publie le venerdì 9 marzo 2007 par Open-Publishing

Trent’anni fa in queste ore, la mattina dell’11 marzo 1977, veniva ucciso a Bologna sotto i portici di Via Mascarella il mio coetaneo e compagno di studi Francesco Lorusso, 25 anni, studente di Medicina, militante di Lotta Continua. Imputato dell’omicidio fu il carabiniere Massimo Tramontani, che verrà prosciolto per aver fatto uso legittimo delle armi in base alla legge Reale. Nuovi elementi di riflessione su questo crimine emergono dalla lettura della tesi di laurea (marzo 2004) di Franca Menneas dal titolo: “Omicidio Francesco Lorusso: Storia di un processo mancato” (relatore Prof. Valerio Romitelli Corso di Laurea in Storia Contemporanea), consultabile al sito www.lestintorecheamleto.net , tesi in cui vengono riesaminati criticamente gli atti del processo. Secondo numerosissime testimonianze, un agente in divisa (non si sa in realtà se fosse il Tramontani), aprì il fuoco non sparando per difesa “nel mucchio” durante una concitata fase di scontri, ma rispondendo a un ordine impartitogli da un superiore. Sparò numerosi colpi in successione prendendo accuratamente e con calma la mira, e anzi facilitato in questo proprio dal fatto che in quel momento nella zona era subentrata una fase di relativa calma. A trent’anni di distanza, forse si avvicina il momento di iniziare ad approfondire le ragioni e il contesto di questo dramma.
L’omicidio di Francesco fu premeditato. Una settimana prima, come riferisce Gabriele Giunchi, il dott. Graziano Gori, corretto ed equilibrato dirigente della Squadra Politica della questura di Bologna, convoca in via ufficiosa lui ed altri responsabili dei servizi d’ordine del movimento degli studenti, informandoli che, per decisione del Ministero degli Interni e per motivi che neppure lui è in grado di spiegare, la gestione dell’ordine pubblico in città non è più competenza del suo Ufficio, ma viene trasferito direttamente al Comando dei Carabinieri. Il dott. Gori (deceduto l’anno dopo in un incidente stradale), invitava quindi alla prudenza e alla vigilanza. Francesco viene ucciso meno di ventiquattr’ore prima della grande manifestazione del movimento, la prima a livello nazionale, indetta ormai da quasi un mese per il 12 marzo a Roma.
Questa fu la vera ragione del suo assassinio. L’obbiettivo era spingere all’esasperazione, alzare il livello dello scontro. Cioè dare l’avvio a una nuova e risolutiva fase che vedesse le ali estreme del movimento, che proprio in quei giorni attraversavano gravi difficoltà e scontavano un isolamento crescente, assumerne invece la leadership e trasformare ogni mobilitazione in uno scontro armato, come poi puntualmente si verificò esattamente a partire dalla data del 12 marzo a Roma e a Milano. Non si può escludere l’ipotesi che l’omicidio di Francesco fosse non solo premeditato, ma anche mirato. Francesco, oltre che molto conosciuto, era facilmente riconoscibile per statura e aspetto fisico. Era necessario non solo fare una vittima, ma anche che la vittima fosse sicuramente “organica” al movimento, non un passante o un semplice curioso. Che l’indignazione, lo sgomento, la rabbia di fronte alla sua uccisione raggiungessero livelli altissimi, insopportabili, incontenibili. Disperdere la gran parte della rivolta giovanile e ghettizzarne i rimasugli nella lotta armata avrebbe giustificato leggi speciali, repressione, emergenza nazionale contro il terrorismo, nuovi equilibri politici. La strategia, che risultò vincente, avrebbe visto il secondo e decisivo atto esattamente due mesi dopo, con l’omicidio, altrettanto premeditato, di Giorgiana Masi il 12 maggio a Roma.
A trent’anni di distanza, anche se i tempi dovrebbero essere maturi, di una lettura non più contingente, ma storica di questo delitto, e degli eventi che ne seguirono, ancora non si colgono tracce significative. Forse, come dice qualcuno, è ancora presto, prima bisogna sapere come avvenne. O forse è vero l’inverso: non si potrà sapere come avvenne finché dureranno equilibri politici che furono inaugurati proprio nel corso e grazie a quella grande stagione di repressione, e che ancora ne richiedono la lettura ufficiale e condivisa che fin qui hanno imposto. Non solo sono ancora vivi, ma hanno rivestito e rivestono altissimi incarichi istituzionali personaggi che ebbero un ruolo di primo piano nel pianificare, attuare, avallare con pieno consenso la demolizione di un grande movimento di rivolta esistenziale, culturale e politica e la trasformazione dei suoi scarni residui in aree suicide di opposizione militare allo Stato.
Il cui obbiettivo, al momento dell’omicidio di Francesco, non era solo stroncare il movimento, ma anche far compiere al PCI una mossa politica di significato cruciale. E’ noto come la rivolta giovanile e intellettuale fosse ostile e refrattaria alla politica tradizionale dei partiti della sinistra, sia storica che extraparlamentare. Ma è essenziale ricordare come a Bologna essa rivestisse caratteristiche del tutto peculiari. Prima dell’omicidio di Francesco il suo carattere predominante è creativo e non violento, e il confronto con il PCI e la città amministrata dal PCI è acuto e anche aspro, ma presente, anzi incessante. Nelle settimane immediatamente precedenti vi sono importanti segni di disgelo e di apertura. In particolare, gli incontri con i sindacati sono numerosissimi. Nella vecchia sala della Borsa, a un’affollata assemblea con duemila operai e oltre mille studenti, prendono la parola Bifo, il segretario della camera del lavoro, poi studenti e operai dei consigli di fabbrica. Il dibattito è pacato e tranquillo, continuerà nelle ore successive nelle facoltà occupate. I consigli di fabbrica si dichiarano disponibili al dialogo dovunque e su qualsiasi tema. Dopo la cacciata di Lama dall’Università di Roma in febbraio, una significativa autocritica da parte di molti settori della sinistra e anche della base del PCI paradossalmente porta in primo piano molte delle ragioni della protesta, aprendole a tentativi di comprensione più approfonditi di quanto non fosse stato tentato fino ad allora. Dal 7 al 10 marzo si svolge a Firenze il convegno nazionale della FLM, a cui partecipa anche il movimento degli studenti. L’evento si chiude con una grande e pacifica manifestazione.
E’ in questo contesto, non in altro, che Francesco viene ucciso. Il movimento poteva prendere una pericolosa china di legittimazione politica, che era essenziale interrompere. I dirigenti locali e nazionali del PCI non erano nati ieri. Dovettero sospettare immediatamente che l’omicidio di Francesco Lorusso era stato un’esecuzione, e che quella esecuzione fosse anche un chiaro messaggio rivolto proprio a loro. Che ciò che veniva loro chiesto, proprio in quella Bologna dove amministravano e dove il movimento stava dando segni di sconcertante maturità, era di dare un segnale decisivo della loro disponibilità ad entrare con pieno diritto nella condivisione del potere. Un diritto acquisito “sul campo”, si potrebbe dire. In piena fase di progettazione del "compromesso storico", in mezzo a insidiosissimi e rischiosi duelli a distanza, nella lunga guerra di logoramento tra DC e PCI, veniva loro presentata un’occasione. Stava a loro decidere se coglierla al volo oppure giocarsela definitivamente. Si trattava di scegliere se fornire o meno il proprio avallo a quella partita giocata dall’apparato repressivo dello Stato, sostenere che quelle masse di giovani erano terroristi e che la repressione era necessaria. Per accedere al potere, Il PCI avrebbe prima dovuto dimostrare di saperne diventare collaboratore fattivo: partito d’ordine, paladino dell’istituzione e dello Stato, garante dell’ordine pubblico e dell’austerità economica.
Non se lo fecero ripetere due volte. Dopo le prime frenetiche ore di consultazioni e contraddittorie prese di posizione, arrivarono chiarissime le direttive del comitato centrale del PCI, a cominciare da quelle cronache, quegli editoriali e quei commenti sulle pagine dell’Unità che, come dice il fratello di Francesco, lo uccisero la seconda volta presentandolo come un violento, un eversore, un terrorista. Nessuno dei giornalisti autori di quegli articoli ha mai chiesto scusa. Una collaudata tecnica stalinista di delegittimazione dell’avversario e di trasformazione della dissidenza in nemici del popolo, ora diventati nemici delle istituzioni democratiche. D’altronde, l’irriducibile rivolta degli studenti che sconvolse Bologna nei tre giorni successivi dovette convincere definitivamente i dirigenti del PCI che mai il loro partito avrebbe potuto colonizzare, controllare, irreggimentare quei giovani. O per meglio dire, mai avrebbe potuto usarli. Non potendoli usare, nel giro si può dire di poche ore, presero la decisione di sacrificarli. il 16 marzo il PCI mobilitò centocinquantamila persone contro il nuovo fascismo, cioè contro di loro. Iniziò lì la prima delle due fasi fondamentali in cui si articolò l’iniziativa dello Stato nei mesi successivi. Prima fase, demolire l’opposizione sociale e politica allargando l’area della lotta armata. Secondo, designare l’emergenza antiterroristica come futuro collante istituzionale di un nuovo assetto politico.
Nella decisione della dirigenza PCI di seguire questa strategia, appare decisivo anche l’altro vantaggio che essa avrebbe consentito di ottenere: la liquidazione definitiva, una volta per tutte, della sinistra radicale e rivoluzionaria. La "resa dei conti", come l’ha ancora definita rivendicandola orgogliosamente, durante un incontro con il "movimento dei professori" avvenuto a Firenze nel 2002, un autorevolissimo esponente del PCI nel ’77 e dei DS oggi. Progetto che da allora non ha mai cessato di essere nell’agenda della sinistra erede del PCI.