Home > 8 marzo, c’è poco da festeggiare
Il patriarcato resiste in occidente ed in oriente. Negli ultimi 10 anni si è camminato all’indietro
di Angela Azzaro
Festeggiamo l’otto marzo? No, c’è poco da brindare. Il patriarcato, al contrario di quello ha sostenuto una parte del femminismo italiano, non è morto. Non è morto in Oriente, non è morto in Occidente. Non è morto nei paesi islamici, né in quelli cattolici e cristiani. In Turchia, domenica, le donne che manifestavano sono state caricate dalla polizia. E’ questa la patente di ingresso in Europa per la Turchia, la sua patente di civiltà: donne picchiate perché chiedono più diritti e non si arrendono a essere subalterne.
Dieci anni fa a Pechino, per la Conferenza Onu dedicata alle donne, si respirava un’altra aria. Era il momento della denuncia, ma anche della costruzione di un nuovo mondo, un mondo possibile che poi divenne slogan di tutto il movimento dei movimenti. La sfida che si proponeva era grande: per fare un salto di qualità, tutti, uomini e donne, bisognava mettere al centro la contraddizione di genere. Bisognava mettere al centro i saperi, le esperienze delle donne. Non c’ era solo una questione di numeri, di pari opportunità, c’era la richiesta di un cambiamento radicale: della politica, della società, dei rapporti uomo-donna. Dopo dieci anni che cosa resta? Pochissimo. I movimenti femministi e femminili protestano. Dicono che non è stato fatto niente, che là dove si soffre, ci sono guerre, maggiore è la povertà, sono le donne quelle che soffrono di più, sono le più povere. Pagano il prezzo più alto in termini di libertà, di diritti, di possibilità di esprimersi in quanto individue fuori dai ruoli, dagli obblighi che una società familista impone.
In Occidente la situazione solo apparentemente è più semplice. L’arrivo di donne di altre culture e di altre religioni aumenta il livello delle contraddizioni, mette in discussione l’idea che abbiamo costruito di laicità e di libertà. Ci mette davanti a nuovi fondamentalismi: accanto a quello della religione islamica, che è per noi più semplice da definire, c’è quello occidentale, cattolico. Il velo, nelle sue varie forme e significati, si trasforma in altri obblighi e dictat. In altri dogmi. Come quello antico, a volte messo in un angolo grazie alle lotte del movimento femminista, che vorrebbe ridurre le donne a un’identità biologica. Il velo diventa allora la legge sulla fecondazione assistita, approvata in Italia lo scorso febbraio, che cala sulle donne per impedire loro di scegliere quando e come diventare madri. E’ una legge che impone la concezione di alcuni a tutte. I diritti dell’embrione valgono più di una donna, della sua vita, della sua felicità.
I dati sono preoccupanti: lavoro più precario e mal pagato, diritti calpestati, crescono anche - nel rapporto/conflitto con gli uomini - le violenze di tutti i tipi, psicologiche, fisiche, sessuali. Ma c’è un altro piano, solo apparentemente diverso, che racconta molto di questa festa dove c’è poco da festeggiare. Il piano del simbolico, del linguaggio. Qui la strada da fare è tantissima. Le donne, la loro crescita sociale e soggettiva, vengono negate da un mondo di significati e di immagini caratterizzato dalla misoginia o dal peggiore maschilismo. Di questo, ad esempio, parla la polemica tra Marco Travaglio e Ritanna Armeni. C’è un linguaggio che degrada le donne, non gli riconosce dignità, le discrimina a partire dalla loro differenza sessuale. E’ un segnale grave, da non trascurare.
Siamo davanti a una strada ancora molto lunga da percorrere. Una strada impervia, ricca di ostacoli. Ma sapendo che un lungo tratto è già stato fatto, in Italia e nel mondo: è la strada di quelle migliaia, milioni di donne che hanno scritto una storia diversa. La loro passione per un mondo diverso, il loro cambiamento personale, non può essere cancellato, né ignorato.




