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800 piccole notizie di guerra

Publie le sabato 11 febbraio 2006 par Open-Publishing

Una ricerca della Columbia University rompe il silenzio sulle vittime del conflitto. Intanto si torna a parlare delle torture

di Stefano Rizzo

L’Iraq non fa più notizia (a parte la recente dichiarazione di Romano Prodi sul “ritiro subito ma non immediato” delle truppe italiane). Non fa notizia perché le cose laggiù sono sempre le stesse, cioè pessime, e le notizie debbono riguardare cose nuove, altrimenti il pubblico sbadiglia. Noi invece vorremmo segnalare 800 piccole notizie, sicuramente importanti se non per il grande pubblico, almeno per i diretti interessati. Le ha raccolte una giovane ricercatrice della Columbia University, Adriana Lins de Albunquerque che, assieme ad altri colleghi, pubblica un rendiconto trimestrale sull’andamento della guerra e della ricostruzione, e che per l’occasione ha raccolto i dati analitici relativi agli 800 e passa morti provocati dal conflitto nel mese di gennaio, illustrandoli con un grafico.

L’immagine dice più di tante parole: i civili uccisi da ambo le parti sono indicati con il disegnino di una donna, mentre le figurine degli uomini indicano i militari americani (o alleati) e iracheni. Non vengono indicati i feriti, spesso gravissimi e che muoiono dopo pochi giorni, né i dati relativi agli insorti, feriti, morti o catturati. Le cause della morte sono indicate con alcuni logo che indicano, per ogni località nel corso del mese, gli scontri armati, le bombe, gli attacchi suicidi, gli attacchi americani, gli “incidenti”.

Altre fonti (Iraq Coalition Casualties) indicano i morti di parte americana: 64 (inclusi 2 inglesi); gli altri 750 circa sono iracheni. A tre anni quasi dall’inizio del conflitto questa è la situazione: 486 morti americani nel 2003, 848 nel 2004, 846 nel 2005 e 81fino a ieri; siamo quindi in linea. Quanto ai civili iracheni direttamente uccisi nel conflitto, le cifre oscillano tra 20.000 e 30.000. Il rapporto tra americani e iracheni morti (1:12) sembra essere costante e così pure i morti americani per giorno (tra 2 e 2,5). Per forza che l’Iraq non fa notizia, non cambia niente!

E invece una notizia “nuova” c’è. Pochi giorni fa, il 26 gennaio, a conclusione della lunga polemica sull’esistenza di carceri segrete, anche in Europa, e sull’uso della tortura per interrogare i prigionieri, il presidente Bush dichiarava solennemente: “A nessun americano è consentito torturare un altro essere umano in qualunque parte del mondo.” Si potrebbe presumere che in coerenza con questa direttiva presidenziale, che peraltro riassume precedenti impegni dei suoi comandanti sul campo e del suo ministro degli Esteri, si sarebbe provveduto a punire quei tanti o pochi che, torturando i prigionieri, hanno violato i trattati internazionali, la costituzione, le leggi e i regolamenti militari, e disatteso gli ordini del “comandante in capo”. Come è noto, questo non è avvenuto per i torturatori di Abu Ghraib, se non in minima parte e ai livelli più bassi, ma almeno allora (aprile 2004) i vertici militari e politici potevano sostenere di non sapere. Dopo invece sapevano. E che cosa è successo?

Ed ecco la notizia (riportata da Nat Hentoff sul “Village Voice” del 3 febbraio): a fine gennaio una giuria militare del Colorado ha emesso un verdetto di omicidio colposo nei confronti del diciannovenne Lewis E. Welshofer, militare di stanza in Iraq. Cosa aveva fatto il soldato Welshofer? Aveva investito per sbaglio qualcuno? Aveva fatto fuoco accidentalmente con la sua arma? No. Aveva usato (come recita la sentenza) “tecniche aggressive” nell’interrogare un prigioniero, provocandone la morte.
I dettagli non sono per stomaci leggeri: il prigioniero, Abed Hamed Mowhoush, era un generale di Saddam, che era stato licenziato, poi riassunto dal governo iracheno provvisorio e poi licenziato di nuovo per sospetta intelligenza con il nemico. Catturato da un commando iracheno che va sotto il nome di “Scorpions” è stato picchiato a sangue e poi consegnato agli americani. I quali hanno rapito il figlio del generale, un ragazzo di 16 anni, l’hanno portato davanti a lui, gli hanno messo una pistola alla tempia e hanno minacciato di ucciderlo o di farlo sparire a Guantanamo, se non avesse parlato.

A quanto ha raccontato dopo il ragazzo, il padre era tumefatto e sfinito dalle percorse, forse non l’aveva neppure riconosciuto, e non aveva aperto bocca. Allora è stato affidato al giovane Welshofer (non ci sono altri coimputati - un soldatino di 19 anni avrebbe fatto tutto da solo!), il quale per interrogarlo ha incominciato infilandolo in un sacco di plastica ermeticamente sigillato, di quelli che si usano per i cadaveri. Ha però praticato un piccolo buco sul fondo per evitare che l’uomo morisse soffocato e si è seduto per un imprecisato periodo di tempo sul suo petto. Dopo un po’, non ottenendo risultati, ha pensato di applicare un’altra “tecnica”, detta del “waterboarding”, che consiste nel tenere sott’acqua una persona fingendo di volerla affogare. Ma nonostante tutte queste raffinate tecniche di interrogatorio, il generale si è rifiutato di rispondere. Quando l’hanno tirato fuori dal sacco era morto per soffocamento.

Conseguentemente il soldato Welshofer è stato imputato e, a tempo debito, condannato per l’uccisione dell’uomo. La pena inflitta è consistita in un’ammonizione scritta, in una multa di 6000 dollari e nel divieto di lasciare la caserma per sei mesi, se non per andare a lavorare e per recarsi a pregare.
Alla lettura della sentenza i suoi commilitoni presenti in aula sono scoppiati in un fragoroso applauso. Del resto il portavoce della Casa bianca pochi giorni prima l’aveva detto: “Gli Stati Uniti più di ogni altro paese al mondo operano per promuovere la libertà e il rispetto dei diritti umani.”

http://www.aprileonline.info/articolo.asp?ID=8522&numero=%2798%27