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A proposito di riforme, di trincee economioche e di un articolo di Einaudi
Publie le martedì 30 gennaio 2007 par Open-PublishingA proposito di riforme, di trincee economiche e di un articolo di Einaudi
Ma le liberalizzazionisono sono di sinistra? Credo di no.
L’esperienza americano dimostra che il loro risultato più probabile sarà quello di aprire nuovi territori alle scorrerie del capitale finanziario.
di Luigi Cavallaro
Nel novembre 1933, Luigi Einaudi scrisse sulla“Riforma sociale” un articolo intitolato “Trincee economiche e corporativismo”.Il suo contenuto si può riassumere più o meno così.
C’era una volta in cui il mondo economico aveva un re indiscusso: il prezzo di mercato. Governava inflessibile una folla di sudditi a due colori vestita, produttori e consumatori. Molti gli uni e molti gli altri, non riuscivano ad accordarsi in modo da sopraffare l’opposta schiera e così il prezzo, puro numero che veniva da chissà dove, li comandava a bacchetta.
Nessuna delle due fazioni ne era lieta: ognuno era convinto che il prezzo “giusto” fosse diverso da quello di mercato. E in specie i produttori lamentavano la propria precarietà, perché sopravviveva solo colui che ad ogni ora, mutando continuamente la tecnologia, riusciva a stare appresso alle variazioni continue dei prezzi delle materie prime, dei salari e delle rendite.
Che insomma era pronto a disfare qualunque piano produttivo anche prima che fosse portato a termine, proprio come la tela di Penelope. La vita dei produttori, dunque, era precaria, grama e rischiosa. Proprio per ciò, erano relativamente di meno: i più preferivano vendere a prezzo fisso (gli operai per un salario, i risparmiatori per un interesse, i proprietari terrieri per una rendita), trincerandosi così dentro il fortilizio di un reddito costante nel tempo.
Certo, restava il rischio di non poter contrattare il valore futuro della moneta e quindi di dover eventualmente rinunciare ad una parte del paniere di beni che s’immaginava di poter comperare col reddito percepito, ma in tempi normali (cioè di bassa inflazione) non era un rischio rilevante. Il rischio delle variazioni di prezzo veniva così a gravare esclusivamente sui produttori, ossia sugli imprenditori. Non che essi non avrebbero desiderato sottrarvisi; semplicemente, non avevano con chi contrattare la propria rinuncia ad un incerto (ma potenzialmente grosso) profitto per un minore (ma “equo”) compenso, tutti gli altri - operai, impiegati, risparmiatori, proprietari - essendosi squagliati già da tempo dall’affrontare le bizze del re-prezzo.
Potevano solo accordarsi tra di loro e richiedere l’aiuto dello Stato, e lo fecero.
Fu così che anche gli imprenditori si diedero allo scavo di trincee. La prima fu quella doganale: al suo riparo, essi potevano vendere al prezzo desiderato senza tema che questo ribassasse per via della concorrenza dei prodotti esteri.
La seconda, poco più indietro e di rincalzo, fu l’accordo di cartello: non avrebbe giovato la trincea doganale se qualcuno di loro si fosse messo a vendere a meno degli altri. La terza fu la legge: non avrebbe giovato l’accordo se qualcuno avesse potuto derogarvi, vendendo le sue merci sottocosto. Il re-prezzo, in questo modo, non poté più funzionare da equilibratore imparziale di domanda e offerta e ne venne la crisi: disoccupazione, merci invendute, tassi d’interesse elevati. Ma la crisi, in fondo, aveva una facile soluzione: supponendo noti i prezzi di mercato di equilibrio e constatatane la divergenza rispetto a quelli che gli imprenditori riuscivano a spuntare a causa di dazi, cartelli, consorzi e altri trinceramenti naturali o artificiali, bisognava abbattere o gradualmente abbassare le trincee e ridare al re-prezzo la sovranità perduta.
Non sappiamo se, nel varare le recenti e meno recenti liberalizzazioni, il governo in carica si sia ispirato a Luigi Einaudi o a Francesco Giavazzi, che come Einaudi è professore di economia e di questi tempi scrive sul Corriere della sera ad intervalli liberi (ma piccoli a piacere) sulla necessità dell’abbattimento delle trincee economiche erette nel tempo da tassisti, notai, avvocati, benzinai, edicolanti et hoc genus omne. Ci preme solo sottolineare che sarebbe sommamente pericoloso prendere troppo sul serio l’idea che basta rimuovere le trincee economiche per uscire dai nostri problemi, un ennesimo inventario dei quali ci ha da poco dato l’Eurispes nel suo ultimo rapporto.
Che i bassi prezzi delle merci costituiscano un fatto positivo per i ceti meno abbienti è, in effetti, una banalità, dietro la quale si nasconde un grossissimo problema. Perché i prezzi possano scendere, infatti, debbono prima scendere i salari e non è dunque affatto detto - lo ha ricordato qualche tempo fa Paul Samuelson - che la possibilità di acquistare da Wal-Mart a prezzi più bassi del 20 per cento possa compensare i lavoratori per ciò che perdono sul piano retributivo.
E’ anzi ragionevole supporre che accada il contrario. Sebbene gli economisti ortodossi mantengano un’incrollabile fiducia nella credenza che, riducendosi salari e prezzi, dovrebbero prima o poi scendere anche i tassi d’interesse, rendendo così profittevoli nuovi investimenti e nuova occupazione che aumenterebbero il reddito reale della società pur in presenza di salari e prezzi nominali più bassi, ciò che essi trascurano (deliberatamente?) è che non si possono avere tassi d’interesse nominali negativi se non per via d’inflazione. Di conseguenza, in un contesto in cui l’inflazione è prossima allo zero, l’unico modo in cui la pressione concorrenziale può produrre la diminuzione dei prezzi è la riduzione secca dei salari e il cambiamento della distribuzione dei redditi a vantaggio dei profitti e delle rendite finanziarie.
Esattamente ciò che raccontano tutte le statistiche degli ultimi vent’anni.
Non è quindi un caso che l’emergere della tanto decantata “società low-cost” abbia coinciso, in Europa come negli Stati Uniti, con la progressiva scomparsa della classe media e l’aumento della percentuale dei working poors: non ci può essere alcuna società low-cost che non sia anche low-wage, cioè a basso salario. Lo sanno bene le molte migliaia di lavoratori precari dei call-center, sui cui salari si è abbattuta la scure della liberalizzazione dei prezzi della telefonia, e lo sanno altrettanto bene i lavoratori italiani della Ryanair, oggetto nei giorni scorsi di un’interrogazione parlamentare volta a conoscere se sia vero che la compagnia irlandese non verserebbe per loro alcun contributo all’Inps e li retribuirebbe con un netto mensile di mille euro (a fronte dei 1.800-2.000 dei loro colleghi occupati presso altre compagnie).
Solo un paralogismo può dunque spacciare le liberalizzazioni per riforme “di sinistra”: come dimostra al meglio l’esperienza americana, il loro risultato più probabile sarà quello di aprire nuovi territori alle scorrerie del capitale finanziario, che solo delle anime belle possono sperare di contrastare validamente con un banale antitrust. Intendiamoci: non si vuol qui sostenere che i lavoratori dovrebbero schierarsi a difendere le quasirendite di cui godono gli avvocati o i benzinai, tanto più che ci pensano i diretti interessati. Ma la sinistra dovrebbe essere un’altra cosa rispetto ai tanti nipotini di Milton Friedman che sgomitano dentro i teleschermi.
segue dalla prima
http://www.liberazione.it/giornale/070128/default.asp