Home > Abba non odiava nessuno. Dignità e dolore ai funerali per il giovane ammazzato
Abba non odiava nessuno. Dignità e dolore ai funerali per il giovane ammazzato
Publie le mercoledì 24 settembre 2008 par Open-PublishingAbba non odiava nessuno. Dignità e dolore ai funerali per il giovane ammazzato
di Claudio Jampaglia
Una lunga fila di mani, di silenzio. Centinaia di persone che entrano, si siedono. Una parola alla famiglia. Scuotono le teste. Non doveva succedere. Un miscuglio di anziani del paese, gente venuta da Milano, facce nere e capelli imbiancati in fila per salutare Abba accanto a ragazzi col piercing, le grisaglie e i tailleur di assessori e esponenti delle istituzioni a fianco ai bubù colorati delle zie, delle cugine, della madre . Almeno per una mattina uniti. Accolti dal sorriso di papà Assane che continua a stringere mani e a ringraziare tutti per essere venuti. Attorno la sua famiglia. Gli amici. I colleghi di lavoro. Una processione di dignità. Per dire addio a un ragazzo di 19 anni che torna in Burkina Faso, in una bara. Eppure il suo paese era questo, i suoi amici, le sue speranze erano qua. Tutte.
Cernusco è un paese tranquillo. Verde, ordinato. Asili e scuole con giardini e giochi. Palazzi distanti gli uni agli altri. Periferia vivibile, invece della banlieue. Abba è cresciuto qua. Al bar, in farmacia, dal giornalaio c’è cordoglio, per la famiglia, per il ragazzo. Ma non è successo qui. Qui si vive tranquilli. Va tutto bene. Anche il Comune smorza. Sta vicino alla famiglia, paga i funerali, il gonfalone vicino alla bara. Il sindaco invoca «un patto educativo, ripartire dal senso civico». Parole di vicinanza. Ma nessun clamore. Il razzismo? Una malattia di pochi. La casa della famiglia Guibre è a pochi passi. Oltre il parco. I balconi con i vestiti ad asciugare. Sotto le finestre un muro bianco e tante mani colorate, la faccia di Abba. Le firme degli amici. Kikko, Lil, Samir, John.
Due candele e un mazzo di fiori. I ragazzi più piccoli verranno il pomeriggio a cazzeggiare. Abba e gli altri, invece, erano diventati grandi, maggiorenni. Andavano a Milano in compagnia. Uniti. Dalla periferia, dalla provincia, persino da Lecco, da Bergamo, per trovarsi tra fratelli, la stessa musica, la stessa voglia di vivere. C’è anche qualche italiano tra loro, ragazze e ragazzi, ma pochi.
Tra i primissimi ad arrivare alcuni ragazzi del paese, quelli dell’associazione Cachoeira de Pedras, progetti di solidarietà lontani e sul territorio. Hanno messo uno striscione: "Per Abdul, perché non succeda mai più. No al razzismo". Tutti si conoscevano. Stesse scuole. Ma poi le strade si dividono. E ci si trova qua, a salutarsi, come ai tempi della scuola, per cognome. Arrivano anche gli amici di Abba. Si piazzano nell’angolo fuori dall’auditorium. Occhiali scuri.
Raccoglimento. Sono quelli della manifestazione di sabato. Quelli che hanno urlato e si sono presi la città pazzi di rabbia, rompendo schemi politici e ordine costituito. Adesso parlano: «Ci aspettiamo molto dalla giustizia, crediamo in questo paese, ne rispettiamo le regole, ci scusiamo se l’altro giorno abbiamo esagerato, ma non si può stare zitti. Non si può accettare che Abba sia trattato come un pericoloso, come un delinquente». «Noi siamo la nuova generazione, non ci stiamo a essere trattati come diversi. Se ci sono dei razzisti questo è il problema della società non deve essere un problema solo nostro. Questa è la nostra terra». «Adesso lui è là e non può dire niente, non può farvi vedere che era maturo, che era responsabile, che aveva più desideri e vita. Abba non odiava nessuno».
Non vogliono vendetta, al limite polemizzano con la politica, con i media che gli mettono in bocca quello che non vogliono dire: vendetta, violenza. Ma parlano. Vogliono raccontare di tutte le volte che si sono detti che non abbasseranno mai lo sguardo, che loro sono di qua. Sono italiani. Che piaccia o meno. E se c’è bisogno di affermarlo, sono pronti a farlo. Con una motivazione in più. Abba. Vicino a loro Pap Khouma, scrittore milanese, uno dei primi negli anni ’80 ad avere raccontato la Milano che diventava multietnica senza saperlo. Pap è arrabbiato, «come non lo sono stato in questi 25 anni», «arrabbiato con una classe politica incapace di affrontare i problemi della gente, che sta scaricando da anni tutta l’attenzione e la rabbia contro le pecore nere, gli immigrati.
Sparano odio, coltivano il razzismo per nascondere l’incapacità a costruire benessere, pace sociale. Ma non dobbiamo farci dividere, non dobbiamo cadere nel tranello dell’odio». La giornalista tv che non lo conosce, gli chiede: «Chi è lei, un parente?». «Sono un milanese», risponde. Sarebbe bello se anche gli amici di Abba potessero rispondere così. Ma oggi non si può. C’è una bara che fila via, lontano. E poi le tv e le foto in posa davanti al murales, l’appuntamento per rivedersi tutti "al muretto" in centro. C’è pure spazio per uno scazzo tra due ragazzi sulla maledetta sera. La sera nera, come la pelle di Abba. Pesta come il suo corpo. Buia come la strada davanti.