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Le elezioni Anp, Barghouti, la morte di Arafat. Parla l’europarlamentare Luisa Morgantini
«Abu Mazen, lntifada popolare non violenta»
Luisa Morgantini, europarlamentare, donna in nero, da anni in prima fila nella denuncia dell’occupazione dei territori palestinesi, sempre dalla parte della non violenza e del dialogo tra israeliani e palestinesi. Partiamo dalla fine. Qualche giorno fa Abu Mazen, candidato ufficiale di al Fatah, ha detto di rivendicare il diritto del popolo palestinese a «resistere all’occupazione», ma ha chiesto alle fazioni palestinesi di deporre le armi e optare per «una resistenza sociale e civile».
Come giudichi l’appello di Abu Mazen, soprattutto dal momento che ormai parla a nome di tutta al Fatah?
Quella di Abu Mazen è una posizione conosciuta e che trova d’accordo anche molti palestinesi. Abu Mazen non ha mai condiviso la scelta della lotta armata, men che mai gli attentati. Tuttavia ha separato le cose. Un conto sono gli attentati e il terrorismo contro i civili, un altro la lotta armata contro una forza occupante, che è un diritto sancito dalla convenzione di Ginevra. Fin dall’inizio Abu Mazen ha sostenuto che la seconda Intifada doveva avere le stesse caratteristiche della prima, cioè una lotta di popolo non armata. In fondo oggi ripete quello che ha sempre detto e sostenuto.
Però oggi è il capo dell’Olp e il candidato ufficiale di al Fatah. E i sondaggi indicano che tra i palestinesi è il più popolare. Vuol dire che la sua idea è condivisa anche da tanti palestinesi?
Anche in questi anni, nonostante nei media l’Intifada è stata descritta solo come una lotta armata o una serie di attentati suicidi, all’interno delle città e dei territori palestinesi c’è stata in realtà una enorme resistenza pacifica e non violenta. Penso ad esempio al lavoro dei volontari, alle Ong come quelle coordinate da Mustafà Barghouti. Hanno resistito giorno dopo giorno con gli appelli alla comunità internazionale, ai volontari, alle istituzioni dell’Onu e ai movimenti perché intervenissero per proteggere i civili palestinesi dagli attacchi israeliani. C’è sempre stata questa componente non violenta di resistenza. Tuttavia non c’è dubbio che le grandi masse popolari della prima Intifada nella seconda sono scomparse. Penso alle donne. Nella prima Intifada erano state uno dei centri vitali della rivolta, da quattro anni sono state fagocitate dalla lotta militare. E’ sempre così, quando l’opzione militare prende il sopravvento la popolazione tende a scomparire. Credo che all’interno della leadership palestinese, nella sua maggioranza, ci sia la convinzione ormai della necessità di porre fine alla sofferenza dei palestinesi. Questo non vuol dire necessariamente la fine dell’Intifada, che significa rivolta contro l’occupazione militare. Vuol dire ottenere l’indipendenza e la libertà con i mezzi migliori. Onestamente io trovo miracoloso, dopo quattro anni come questi, che i palestinesi siano ancora lì a resistere e che dalla loro leadership arrivi un messaggio come quello di Abu Mazen.
Il quale però non piace a tutti, tra i palestinesi ma anche nella sinistra italiana.
Abu Mazen viene presentato come l’uomo amato da americani e israeliani, di conseguenza qualcuno a sinistra lo attacca. E’ un grande errore, perché non è vero. Tant’è che la destra israeliana sta cercando di distruggere tutto quanto Abu Mazen vuole costruire. Quando, per un breve periodo, divenne premier dell’Anp, decise di dimettersi non tanto per i conflitti, che ci furono, con Arafat. Si dimise soprattutto perché Sharon non aveva fatto nulla per rispettare gli impegni. Abu Mazen aveva ottenuto una tregua palestinese di oltre 50 giorni e Sharon lo ripagò andando avanti negli assassinii mirati e con le colonie. E poi Abu Mazen non è una figura nuova nel movimento palestinese, è nell’Olp e in al Fatah da una vita. Certo, non eccita le folle, non fa proclami ed è molto schivo. Ma crede nella costruzione democratica ed è molto rispettato in Palestina. Tanti amici cari che stimo moltissimo come Hanan Asrawi, Zahira Kamal, Kaddura Fares o Yasser Abed Rabbo lo sostengono. La sinistra democratica e secolarizzata lo appoggia, ma anche tantissimi palestinesi dei campi profughi e delle città, come dimostrano i sondaggi. E’ la prova che, ancora una volta, i palestinesi cercano la pace.
Si predicevano divisioni e scontri sanguinosi, ma a parte qualche episodio fino ad ora sembra che al Fatah si sia unita più che divisa. Un bilancio di al Fatah dopo la morte di Arafat?
L’immagine che si è data nel mondo era quella di un Arafat despota, che decideva tutto. Invece il fatto che alla sua morte le strutture palestinesi abbiano funzionato dimostra che Arafat non era soltanto un leader autoritario, visto che ha dato vita ad istituzioni destinate a sopravvivergli e pensate per il popolo palestinese. Al Fatah, di fronte all’incombenza e alla minaccia, di fronte alle pressioni interne ed esterne, si è comportata in modo molto responsabile. Ripeto, trovo miracoloso che in questi anni tra i palestinesi non abbiamo prevalso lotte intestine violente o una scia di ritorsioni e assassinii, che ci sono pure stati. Oggi al Fatah si è ricompattato, con fatica ma si è ricompattato. Persino Faruk Khaddumi, uno che da Oslo in poi aveva rotto, si è riavvicinato. In sostanza di fronte a questo momento così drammatico e difficile la politica palestinese ha dato prova di maturità. Anche con la candidatura di Mustafà Bagrhouti, che rappresenta un’area democratica e progressista, contro la corruzione e a favore di una Intifada popolare di lotta non violenta, il panorama palestinese si arricchisce. Gli altri partiti minori, in realtà, hanno una forza relativa, dal Fida al Peoples Party. Anche il tentativo di mettere insieme forze pacifiste e progressiste non sembra decollato.
Si è parlato molto di Marwan Barghouti. Tu lo conosci bene e sei vicina alla famiglia. Che è successo?
Intanto ci tengo a dire che il mio amico Marwan ha mostrato, ritirandosi, di essere un vero leader del popolo palestinese. Tuttavia ha posto anche delle condizioni precise ad Abu Mazen, come elezioni, democrazia e il rispetto degli altri gruppi palestinesi. Marwan si è ritirato perché è legato da sempre ad al Fatah e perché è una vera espressione del popolo. Ora però Marwan Barghouti è in carcere. E’ in carcere e deve essere liberato. La comunità internazionale deve farsi sentire perché sia finalmente scarcerato, ma i tempi sono stretti. Occorre che tutti facciano pressione su Israele per la sua liberazione, è inammissibile che un leader palestinese che ha sempre condannato il terrorismo rivendicando il diritto alla lotta per la liberazione sia stato rinchiuso e condannato all’ergastolo.
Si dice che le condizioni di Barghouti per ritirarsi fossero 18. Una di queste chiedeva ad Abu Mazen di rivendicare il «diritto alla lotta armata». Poi, dopo una trattativa, si parla ora di «diritto alla resistenza».
Marwan ha rappresentato una fetta della resistenza che ha appoggiato la lotta armata come diritto dei palestinesi a ribellarsi. Ma per esempio non ha mai sostenuto che questa fosse l’Intifada di al Aqsa, termine che dava una connotazione più mistica. Lui diceva Intifada dell’indipendenza, non a caso. Marwan condanna gli attentati contro i civili israeliani, ma non rinnega il diritto dei palestinesi a reagire all’occupazione contro i soldati all’interno dei territori. Abu Mazen non è d’accordo, pensa che la lotta armata abbia portato solo sconfitte per i palestinesi.
Chi non fa autocritica sono invece Hamas e la Jihad islamica, che del resto non hanno mai riconosciuto neanche l’Anp. Come saranno i rapporti tra Anp e fondamentalisti in questi mesi con il ritiro da Gaza e le elezioni?
Oggi il pericolo principale non è Hamas, ma il governo israeliano, con Sharon e anche con Peres. Ancora una volta Sharon non ha proclamato nessun cessate il fuoco, che poi è quanto i palestinesi chiedono dall’inverno del 2000. Sharon continua ad uccidere palestinesi, a bombardare i civili. A Jenin ha ucciso un giovane del Fronte popolare quando pochi giorni prima il Fronte aveva detto di appoggiare Abu Mazen. Il comportamento di Sharon sarà decisivo, ma anche quello della comunità internazionale. Se Unione Europea e Stati Uniti non ottengono da Sharon il ritiro dai territori occupati, perlomeno sulle linee del settembre 2000, se i palestinesi non potranno fare campagna elettorale, allora sì che la situazione, già complicata, potrebbe precipitare. Quanto a Hamas e alla Jihad hanno subito messo alla prova Abu Mazen, credo insieme ad un pezzo di Fatah, con l’operazione del tunnel a Gaza, che non era contro i civili, ma di tipo puramente militare. Credo fosse diretta in parte proprio ad Abu Mazen, il quale però continua a dire che la lotta armata non è la scelta giusta. Ma oggi nei sondaggi Hamas si riduce e al Fatah cresce. E’ sempre così: quando i palestinesi intravedono uno spiraglio di pace vogliono andare fino in fondo.
Non c’è il rischio che Hamas faccia come nel ’96, quando nonostante gli accordi con Israele sottoscritti dalla maggioranza dei palestinesi diede vita ad una violenta stagione di terrorismo?
Non dimentichiamo che gli israeliani prima ammazzarono Ayyash (Yahya Ayyash, ucciso nel dicembre 1995 ndr), e che Hamas durante le elezioni non si mosse. Ma certo, Hamas uccide civili e viola la convenzione di Ginevra, mentre talvolta si comporta in modo pragmatico. Hamas ha un atteggiamento ondulante e ambiguo, da una parte vuole riaffermare la propria forza e dall’altro trattare.
Oggi Peres ha annunciato l’accordo con Sharon. Sarà un governo con una maggioranza risicata, Labour, Likud e United Torah of Judaism. Sempre meglio di quel referendum o quelle elezioni che in Israele temono possano diventare un confronto "ebrei contro israeliani", come scriveva Ha’aretz?
Penso che questi elementi prima o poi in israele dovranno esplodere. A uccidere Rabin non fu un’azione isolata di un pazzo, ma il gesto di una persona ben inserita in un movimento, quello dei coloni. Yigal Amir era quello che andava a portare i pellegrini sulla tomba di Goldstein a Kiryat Arba. Oggi anche Sharon rischia di venire ucciso, lo ha ammesso dicendo "prima dovevo temere gli arabi e adesso devo guardarmi dagli ebrei", proprio lui che dei coloni era stato un padre.
Alla fine si arriverà a negoziare? La diplomazia italiana si è candidata per istruire l’intelligence palestinese e verificare il ritiro israeliano da Gaza. Come giudichi il lavoro del nostro governo e quello dell’Unione Europea?
C’è un clima diverso intorno al conflitto, questo è positivo. Lo stesso Solana mi sembra più attento non solo sulle dichiarazioni ma nel tentativo di agire sul campo. Non c’è dubbio che chi lavora di più è Blair, che deve offrire qualcosa per il suo coinvolgimento nella guerra in Iraq. La Francia è malvista da Israele, ma amata dai palestinesi. L’Italia per ora si è fatta solo accettare dal governo israeliano. Adesso c’è un tentativo della Farnesina, ma anche del ministro palestinese Nabil Shaat, di ristabilire e riprendere un rapporto con l’Italia. Non so se il nostro Paese debba avere un ruolo centrale. Si parla di una riorganizzazione dei sistemi di sicurezza palestinese, ma sembra difficile che Londra lasci mano libera all’Italia. Mi auguro che, più del ruolo specifico di un singolo Paese si faccia sentire la voce coordinata dell’Unione europea, cioè di Solana.
LIBERAZIONE, DOMENICA 19 DICEMBRE 2004




