Home > Accadde in Sicilia, Carlo Ruta e l’inchiesta in terra di mafia

Accadde in Sicilia, Carlo Ruta e l’inchiesta in terra di mafia

Publie le venerdì 27 aprile 2007 par Open-Publishing

Il 7 dicembre 2004, su richiesta dall’avv. Carmelo Di Paola, patrocinatore legale della Banca Agricola Popolare di Ragusa e con provvedimento del tribunale del capoluogo di provincia è stato oscurato “Accade in Sicilia”, network di controinformazione curato dal giornalista-scrittore Carlo Ruta. In 3 anni di attività il sito ha prodotto oltre duemila documenti divisi fra letteratura civile, documentazione storica, inchieste, testimonianze, cronache e reportage, diventando un patrimonio di inestimabile valore per la ricerca delle verità e della giustizia siciliana. Di grande interesse erano le inchieste volte a far luce sul ruolo di molte banche del ragusano, tra cui spicca la Banca Agricola Popolare, e le indagini giornalistiche sulla condotta di alcuni magistrati della Procura della Repubblica presso il tribunale di Ragusa. Dello stesso enorme valore era la nutrita documentazione sull’omicidio di Giovanni Spampinato, cronista del quotidiano "L’Ora" ucciso a Ragusa il 27 ottobre del 1972 in seguito alle ricerche sui rapporti tra mafia e gruppi eversivi neofascisti. Un atto grave, che ha avuto poca risonanza al di fuori dei confini siciliani e del quale parla il diretto interessato, lo storico Carlo Ruta.

GP: Professor Ruta, qual è la storia di “Accade in Sicilia”dalla nascita all’oscuramento?

CR: E’ la storia di un lavoro d’investigazione storica e d’inchiesta che comincia nei primi anni Novanta, quando ho congedato alle stampe libri come “Il processo come tarlo della Repubblica”, e “Dimenticare Andreotti?”. Nel 1995, due anni prima del cinquantennale dell’eccidio di Portella della Ginestra, usciva per Rubbettino “Il binomio Giuliano-Scelba. Un mistero della Repubblica?”. Dal ’96 partivano una serie d’inchieste specifiche sul territorio siciliano. E a un certo punto, intorno al 2000, ho meditato l’apertura del diario di documentazione on-line “Accade in Sicilia”. Ho percepito internet come una risorsa, uno strumento congeniale al mio lavoro. Ho creato la sezione “Giuliano e lo Stato” per raccogliere una sorta di archivio sulla prima strage della Repubblica, con testi, documenti e testimonianze. Il sito ha raccolto e “adottato” casi dall’oblio assoluto, come quello del giornalista Giovanni Spampinato, de L’Ora di Palermo, ucciso a Ragusa nei primi anni ’70, quello della BAPR, che costituisce oggi la maggiore banca a direzione siciliana, e quello della giustizia nell’est dell’isola. Un percorso investigativo ha riguardato poi l’Antonveneta, con acquisizioni sul campo, in Sicilia come nel Veneto e in Calabria, da cui è sortito fra l’altro il libro “Segreti di banca”. Prima che aprissi Accade in Sicilia avvertivo un isolamento estremamente pericoloso, ma la “fredda” oggettività che cercavo di conferire al mio lavoro, non mi consentiva di porre in gioco le mie problematiche personali. Fra il 1998 e il 2000, nel condurre in particolare alcune inchieste sulle realtà di mafia più dirompenti dell’est siciliano, mi ero dovuto esporre più che in passato. Erano gli anni delle guerre e delle stragi di mafia a Vittoria, come quella del 2 gennaio 2000 che ha fatto cinque giovani vittime. E mi occupavo di tali cose cercando di oltrepassare il confine della cronaca, con gli effetti che si possono immaginare. In quei periodi allora ho concepito e realizzato il sito, con esiti direi positivi. La presenza in rete mi ha consentito di operare infatti con una maggiore sicurezza.

GP: Il sito portava avanti diverse inchieste che, prendendo in prestito una sua dichiarazione, miravano a far chiarezza da Portella della Ginestra agli intrighi della finanza nazionale. Abbiamo visto come in tempi non sospetti, dalle sue pagine emergessero già forti denunce e molteplici dossier sulle irregolarità di Antonveneta, crede che ci siano state pressioni anche da esponenti estranei o comunque non troppo vicini alla realtà ragusana e siciliana?

CR: Di certo, a fronte delle inchieste realizzate, è emerso in questi anni un insistente lavorio, che ha determinato fra l’altro l’oscuramento di Accade in Sicilia. Per quanto riguarda la vicenda di Portella della Ginestra, cui ho dedicato fra l’altro un saggio e un testo di documenti, sappiamo che nell’ultimo decennio ha potuto godere di approfondimenti a vari livelli, con il contributo di una pluralità di situazioni, come testimoniano gli ultimi libri di Nicola Tranfaglia e il film di Paolo Benvenuti. E’ cresciuto altresì l’interesse dell’opinione pubblica verso l’argomento. La sezione “Giuliano e lo Stato” rimane quindi fra le più lette e apprezzate del sito. Ma mi riesce difficile fare degli accostamenti con le situazioni giudiziarie che mi hanno riguardato negli ultimi anni.

GP: Nonostante la gravità del fatto, si è comunque parlato poco di “Accade in Sicilia” e là dove c’è stato una eco, quest’ultima non ha comunque raggiunto a livello nazionale le proporzioni di altri noti fatti di censura giornalistica. Come giudica questa inadeguatezza di reazione collettiva?

CR: Ho preso atto di tali aree di disattenzione, ma non ne sono condizionato. Ho ricevuto testimonianze di condivisione da sedi autorevoli della società civile oltre che da tanti cittadini, e questo basta a farmi capire che il mio lavoro non è inutile.

GP: Dal 16 ottobre al 14 dicembre 2006 lei è stato vittima di un accanimento giudiziario devastante, con imputazioni che prevedono pene detentive e risarcimenti per migliaia di euro. Risulta infatti sotto processo (a seguito di denunce dell’avvocato Di Paola e del procuratore della Repubblica di Ragusa Agostino Fera) per aver pubblicato sul suo sito un’istanza al CSM a firma di Ignazio Andolina, ex dirigente del palazzo di giustizia di Ragusa. Altresì è alla sbarra per stampa clandestina e per aver diffuso - in un suo libro - un testo riguardante il caso Spampianto già esposto in “Accade in Sicilia”; infine l’accusa di diffamazione a seguito di un’intervista in cui Enrico Lentini, socio storico della BAPR e anch’esso querelato, critica la conduzione della banca.

CR: Da quando ho dato avvio alle inchieste che hanno interessato l’est siciliano una delle risposte più frequenti, da Ragusa a Catania, è stata la querela. Si tratta evidentemente di un risvolto che tutti i giornalisti d’investigazione, ma anche un po’ di sociologi e alcuni storici conoscono. E non ne sono stato colto di sorpresa. Avevo deciso di intraprendere un percorso razionale, in difesa di cause che ritenevo e ritengo giuste, con la necessaria determinazione, ma pure con dei distinguo operativi, con il rispetto cioè delle regole essenziali. E con tale convincimento, ho cercato di operare, sapendo che avrei corso dei rischi e traversato territori paludosi, confermatisi tali. Sotto il profilo giudiziario, da numerosi processi sono uscito vincente, direi da tutti fino al 2004. Ma poi è iniziata una storia che ancora oggi mi riesce difficile definire. Sono sopravvenute condotte che hanno creato stupore. Per quanto mi riguarda, non mi piace però indossare i panni della “vittima”. Continuo a lavorare a un po’ di progetti, divisi fra la storiografia e l’inchiesta sul terreno, ben deciso comunque a mantenere l’impegno informativo e di documentazione sul terreno dell’oggettività.

GP: Con l’apertura de: “Le inchieste - Diario di documentazione civile” - (www.leinchieste.com), ha dimostrato di non temere la logica di assedio che le riserva il ruolo di ennesimo martire da immolare in nome verità. Quanto ancora Carlo Ruta è disposto a rischiare da solo e in silenzio e quanto pensa di poter andare avanti fra l’indifferenza pubblica e potendo contare solo sulle sue forze e su quelle dei pochi amici e colleghi?

CR: Svolgo, come dicevo, un lavoro di studio a vari livelli, e in tutto questo non c’è nulla di straordinario. Ho assunto tale impegno per tanti motivi insieme: perché certe cose le ho maturate dentro; perché mi intriga e mi affascina la vita della polis ispirata alla razionalità; per rispetto di me e degli altri; perché sono attratto dalle vie “divergenti” e poco esplorate. Viviamo d’altra parte in un paese che si è dato una Costituzione, la quale garantisce dei diritti fondamentali. Mi limito a esercitare quindi una libertà che mi appartiene.