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Afghanistan, dalla Discussione del decreto legge sul rifinanziamento: il sì sofferto dei Verdi

Publie le mercoledì 19 luglio 2006 par Open-Publishing

Per conoscenza vi posto l’intervento dell’on. Grazia Francescato alla
discussione alla Camera dei Deputati (intervento tratto dal Resoconto
stenografico in corso di seduta)

GRAZIA FRANCESCATO. Signor Presidente, signor viceministro, colleghi, i
Verdi si preparano a dire «sì» al disegno di legge sulla partecipazione
italiana alle missioni internazionali; o, meglio, si preparano a dire una
gamma di «sì», di diversa intensità e gradazione: dal «sì» convinto, e
pieno di sollievo, che saluta la sospirata fine della presenza di Antica
Babilonia in Iraq, al «sì» tormentato ed inquieto, quasi al confine con il
«no», che accoglie il mantenimento della nostra missione in Afghanistan.
Su quest’ultimo punto, il più spinoso, mi soffermerò in seguito.

Ora,
desidero cominciare il mio intervento riaffermando la vitale importanza
del nostro ritiro dall’Iraq, scelta che, in questi giorni, appare un po’
sbiadita sotto l’urto della vampata di guerra riaccesa in Medio Oriente,
che sembra ricacciare in secondo piano le drammatiche vicende irachene e
ridurre il rientro ad un fatto scontato, ad una sorta di déjà vu: non è
così! E noi Verdi, che questo rientro abbiamo voluto e perseguito con
instancabile determinazione, insieme alla costellazione dei popoli della
pace ed alle forze politiche consonanti sul tema, salutiamo con profondo
sollievo il cambiamento di segno della nostra missione irachena.

Tale missione sancisce una svolta storica, una forte discontinuità,
volendo usare il codice politico oggi in voga, rispetto alla fase
precedente, per motivi di fondo, perché il ritiro sancisce il
riconoscimento, scritto a chiare lettere nel nostro programma comune - da
cui cito -, che la guerra in Iraq è stato un grave errore, che non ha
risolto, ma complicato, il problema della sicurezza, ridando anzi fiato
alle azioni terroristiche; riconoscimento ormai diffuso, tanto che, non un
verde iperpacifista, non un non global esagitato, ma il portavoce dei
giudici europei antiterrorismo riuniti a Firenze due mesi fa, ha segnalato
che, dal 2003, il reclutamento di volontari per la Jihad è cresciuto del
30 per cento; per questo motivo, la guerra in Iraq ad essere considerata
«il migliore aiuto alla propaganda dell’ideologia qaedista».

L’altro motivo per cui il ritiro dei nostri soldati segna un passaggio
chiave è che sigla il ritorno della nostra politica estera dentro l’alveo
del multilateralismo, riaffermandone il valore come metodo per la
soluzione concordata dei conflitti e per rafforzare il ruolo delle Nazioni
Unite, restituendo loro una autorevolezza di cui hanno disperatamente
bisogno.

Come Verdi, non possiamo però trascurare l’importanza di altre missioni,
purtroppo, più lontane dai riflettori dei media, che avrebbero necessità
di una maggiore attenzione da parte di tutti noi. Penso al genocidio
troppo a lungo dimenticato del Darfur, in Sudan, tragedia che noi, Verdi
europei, abbiamo segnalato con costante impegno anche grazie alla presenza
nelle file dei negoziatori ONU, che hanno tessuto il fragile inizio di
pace tra le opposte fazioni, del nostro portavoce europeo finlandese, Pe a
Haavisto, lo stesso, peraltro e non a caso, che ha avuto un ruolo
importante nella vicenda dell’uranio impoverito. È stato tra i primi a
denunciare all’opinione pubblica internazionale questo problema.
Quindi, con soddisfazione ritroviamo nel disegno di legge l’impegno a
proseguire lo studio epidemiologico, per accertare i livelli di uranio e
di altri elementi potenzialmente tossici che espongono a seri rischi per
la salute il personale militare impiegato nelle missioni, i civili dei
luoghi contaminati e l’ambiente, che paga anch’esso un duro prezzo quasi
mai preso in considerazione dalla follia distruttiva della guerra.

Colgo l’occasione per segnalare che, accanto all’uranio, gli esperti
puntano sempre di più il dito, con sempre maggiore preoccupazione,
sull’avanzata drammatica delle nanopatologie, malattie causate
dall’immensa quantità di particelle infinitesimali che le esplosioni
provocano. I militari si ammalano, spesso generano figli malformati,
proprio perché inalano polveri sottili e sottilissime che ogni esplosione
ad alta temperatura genera (ricordo che l’uranio è responsabile di
temperature superiori ai tremila gradi). Quindi, si volatizzano insieme
bersagli e proiettili, una sorta di orrenda nemesi che colpisce chi ha
colpito il bersaglio e, purtroppo, contamina suolo, erba, l’intera catena
alimentare, dunque, esseri umani ed ambiente. Un problema ancora
sottovalutato che occorre, invece, sempre più denunciare come tremendo
effetto collaterale nei teatri di guerra.

Ma vengo ora alla questione per noi più spinosa, all’Afghanistan, quindi
al nostro «sì» più sofferto, più vacillante, per qualcuno di noi in bilico
sul «no». Non può d’altronde stupire questa sofferenza in un partito, come
quello dei Verdi, che, non a caso, ha l’arcobaleno di pace sulla sua
bandiera, che ha il pacifismo e la non violenza nel suo DNA, che ha fatto
della pace, insieme all’ambiente e ai diritti, una triade di tematiche che
sono alla base del suo agire politico, della sua stessa ragione d’essere.

Abbiamo - lo sapete - detto «no» all’intervento in Afghanistan fin
dall’inizio. Questo «no» lo abbiamo ripetuto otto volte. Se oggi diciamo
il più faticato dei nostri «sì» non è solo per senso di responsabilità
verso l’Unione, c’è anche questo ovviamente, ma perché non vogliamo e non
possiamo sottovalutare i passi avanti contenuti nella mozione che
accompagna il disegno di legge, su cui poi si soffermeranno i miei amici e
colleghi Verdi, e che per noi costituiscono un punto non d’arrivo, ma di
partenza verso la costruzione di un processo di pace e di democrazia in
quel disastrato paese; un punto di partenza verso una exit strategy, una
via d’uscita, per ora solo larvatamente evocata, ma che dovrà diventare un
orizzonte verso cui procedere, non tanto e non soltanto per nostra scelta,
ma perché la forza degli eventi lo imporrà in tempi probabilmente più
brevi del previsto.

Il fattore tempo sarà sempre più cruciale nella vicenda afgana. La
situazione di quel paese si sta deteriorando sempre più velocemente.
Scelgo un indicatore fra i tanti, uno dei più rilevanti, perché mette a
rischio la sicurezza non solo dei civili, ma anche dei bambini e
soprattutto delle bambine, che sono le vere martiri di questa cultura che
ha fatto della misoginia uno dei baluardi: il rapporto recentissimo di
Human Rights Watch, illustrato dalla presidente dell’AIDOS, Daniela
Colombo, alle Commissioni competenti, intitolato «Lessons in Terror.
Attacks on Education in Afghanistan», che mette in luce il tragico
fenomeno degli assalti alle scuole, agli insegnanti e agli studenti,
soprattutto di sesso femminile, vista l’imperante misoginia della cultura
afgana, che permane anche dopo la cacciata dei talebani.
Parliamo di 204 attacchi in 18 mesi, con 17 educatori assassinati,
specialmente nel sud e nel sud est, che sono i luoghi più piagati dagli
scontri. Questi attacchi hanno registrato un netto incremento nella prima
parte del 2006 rispetto al 2005.

Minacce, insulti, aggressioni per mano dei talebani, dei signori della
guerra e dei gruppi criminali legati al narcotraffico sono l’amarissimo
pane quotidiano per i bambini e, soprattutto, per le bambine afghane. Il
risultato è il seguente: mentre nel 2005 risultavano iscritti nelle scuole
di ogni ordine e grado 5,2 milioni di studenti (le ragazze sempre in
proporzione minore), Human rights watch indica oggi il raggiungimento di
un plateau. Non so solo: prevede un ritorno indietro e, quindi, una netta
diminuzione del numero degli iscritti entro il 2008. Ciò vuol dire che
intere giovani generazioni troveranno sbarrate le porte della scuola e,
quindi, del futuro.

L’insicurezza crescente che attanaglia non solo scolari e studenti, ma
tutta la popolazione afghana impone alla comunità internazionale una
rapida rilettura del concetto stesso di sicurezza in Afghanistan, oggi
inteso in senso strettamente militare (numero di soldati dispiegati,
dislocazione geografica e così via). Tale concetto dovrebbe essere
rimodulato, in risposta alle esigenze dei cittadini, in primis delle nuove
generazioni, e mirato a garantire il difficile percorso di ricostruzione,
institution e capacity building, stabilizzazione e pace.

Non è solo la strategia di sicurezza, bensì tutta la missione afghana ad
avere urgente bisogno di essere ridisegnata lungo queste linee e con
grande celerità prima che la situazione si deteriori ancora di più. Basti
pensare al boom del narcotraffico legato, come sappiamo, ai signori della
guerra. Quest’anno ci si attende il raccolto di oppio più consistente
della storia dell’Afghanistan, con un profitto vertiginoso di 3 miliardi
di dollari: tutto combustibile che andrà ad alimentare il motore dei
conflitti.

La nostra posizione faticata, tormentata e inquieta si pone, dunque, nel
solco di questa verifica considerata - lo ripeto - non un punto d’arrivo,
ma un punto di partenza (Applausi dei deputati del gruppo dei Verdi).