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Allegri, fratelli e compagni: è tornato il Benigni più grande, quello che fa ridere gli dei

Publie le venerdì 28 ottobre 2005 par Open-Publishing
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FELICITÀ Lieve come un angelo, forte come un giullare, l’attore si è fatto beffe del potere dicendo che non lo avrà mai. E ha recitato in nome di tutti i comici finiti nel mirino del premier

di Toni Jop

Benigni è tornato. Allegri fratelli e compagni, Benigni è tornato, grande come non era da anni, sereno come non era da tempo, travolgente come quando faceva il critico letterario, come quando camminava tutto solo nei campi della periferia d’Italia bestemmiando come solo lui sa bestemmiare facendo ridere gli dei, facendo sorridere i fili d’erba che si piegano sotto i suoi passi. Lieve come un angelo, forte come un giullare che ha spostato il potere dalle mani di chi se ne gloria per riporlo in quelle di un dio che solo lui è riuscito a creare. Benigni ha detto: nessun padrone mi avrà dalla sua parte. Ha recitato, a nome di tutti gli italiani di buona volontà ma soprattutto a nome di tutti i comici e gli autori di satira finiti nel mirino del presidente del Consiglio, il credo di un’arte antica che sta per sua natura in quella che Roberto ha rinominato con astuzia diabolica «la casa delle libertà». Vieni sul palco, ha detto a Silviuccio, qui sì potrai liberarti e dire tutto quello che avresti voluto dire a Prodi. Ma prima dimettiti. Irrefrenabile, incalzante, più che ispirato, in preda a un «daimon» benevolo, lucido, tremendo. Ci siamo chiesti cosa sia successo. Benigni è sempre Benigni, ma questo Benigni è una benedizione, va oltre, oscura le sue più recenti performance, cancella quel velo di ritualità che le aveva progressivamente ingrigite, riporta in vita quella frenesia argentina, inafferrabile, incontenibile e genuina che la sua carriera di regista non ha saputo - Roberto perdonaci ma diciamo la verità - trattenere in prima linea.

Tutto in una serata magica, in cui il sermone di Celentano sembrava più faticoso di quello pronunciato nel corso della prima puntata. Con una magnifica eccezione che non ci è sfuggita: Celentano ha detto: ho sbagliato, quando ho scritto quella canzone sui ragazzi con i capelli lunghi, i capelloni che non si lavano eccetera. Ho sbagliato, ha insistito, perché non avevo capito che quella gente cercava una vita diversa, non corrotta dalla corsa verso il possesso. Ho sbagliato, ha concluso, perché ero meno ignorante di adesso. Bravo Adriano e grazie: non capita spesso di assistere a un autodafé così clamoroso e così sincero, così non opportunistico. Lo sappiamo: ne ha dette di tutti colori, dal nostro punto di vista, sgangherando sulla storia edilizia di questa Italia e sulle responsabilitò politiche nel dissesto dell’ambiente urbano e ambientale, ma chi ascolta Celentano sa come stanno le cose. Sa quanto la sinistra, il Pci, quelli che lui chiama comunisti, abbiano lottato duramente per impedire il sacco dell’Italia.

Ma va bene lo stesso. Basta avere la pazienza di aspettare ancora: perché su un fatto si può contare, quando si ha a che fare con Celentano, e cioè che prima o poi, appena sarà diventato più ignorante di quanto sia ora, ci dirà dove e come ha sbagliato. Celentano vince perché è onesto: lo sa anche Benigni che accetta di giocare con Adriano uno dei duetti più irresistibili della storia della cultura televisiva italiana.

Dopo un ingresso che liquida mica tanto bonariamente il sandwich di dispense morali a fatica ingrassate dalla litania di ciò che è rock e ciò che è lento. «Non ho capito niente», scarica Benigni, di tutto quel rock e lento. Celentano stava fermo, trattenuto dalla mano di Benigni mentre quel pazzo di Roberto gli girava attorno come una trottola, vomitando parole e gesti nella tessitura di una ragnatela di genio che ancora non si sapeva dove avrebbe portato.

Ci ha portati in un luogo bellissimo di cui abbiamo sempre, e sempre più spesso nostalgia, un luogo in cui le cose tornano vere, le parole hanno un senso, i gesti sono sinceri. Bello, vero e affascinante come Dylan in «Like a Rolling Stone». E feroce, come un giullare che troppo a lungo ha sopportato, per gli altri, per quelli che non hanno parola, l’arroganza della stupidità.

da l’Unità - 28 ottobre 2005