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Anche l’operaio vuole il figlio dottore
di Bruno Casati, Assessore al Lavoro della Provincia di Milano e Responsabile Dipartimento Nazionale Industria del Prc
Va bé ma cosa deve studiare oggi, questo figlio, per lavorare domani?
1) Oggi, particolarmente oggi, è azzardato prospettare scenari credibili per il lavoro e l’occupazione di domani. In quanto oggi, ancora oggi, è impossibile sapere quale struttura economica uscirà dal frullatore di na crisi, di cui il peggio deve ancora arrivare. E non c’é un governo dell’economia. Tutto è consegnato alla mano invisibile del mercato che è poi la mano rapace dei mercanti. Ci fosse invece un governo avveduto, questo cercherebbe di salvaguardare alcune certezze – la ricerca, la formazione, le reti di territorio, la residua industria laddove si crea ricchezza – per poi ripartire dal presente e creare futuro. Avviene l’opposto: si prepara la miseria. Eppure alcuni elementi del presente potrebbero farci capire dove intervenire. Ad esempio, e in tutta modestia, in Provincia dispongo di strumenti, e li metto volentieri a disposizione, che mi consentono appunto di capire, da una parte, da dove oggi “esce il lavoro” (presidio infatti tutte le crisi che si stanno consumando, con uno scatto intervenuto nel senso del peggioramento, in questo secondo semestre del 2008), da un’altra parte posso anche capire “come, e con che caratteri, si entra, o si potrebbe entrare, nel lavoro”. Oggi si esce perché le imprese italiane, che avevano gettato radici sul territorio, le tagliano. Per almeno cinque ragioni. Le tagliano perché cala il consumo interno, prima ragione; perché non reggono alla concorrenza di cambio con il dollaro che, tenuto surrettiziamente debole dagli Usa, penalizza l’export italiano, seconda ragione; perché (queste imprese) non reggono alla concorrenza di prezzo con i competitori asiatici sulle produzioni a basso valore aggiunto, è la terza ragione; perché il costo dell’energia, il KWh in particolare, è diventato insostenibile per l’alto costo del “barile” (anche qui c’é lo zampino degli Usa che, credo, nessun Obama ritirerà); infine perché il credito, così munifico con la cordata Alitalia e Telecom, non sostiene queste nostre Piccole e Medie Imprese, ed è la quinta ragione. Dal canto loro le multinazionali, quelle che avevano gettato l’ancora nei nostri territori, oggi la sollevano e – Abb, Nokia, Electrolux, Siemens, Fast & Fluid, Getronics – veleggiano off-shore verso altri lidi. Vi si aggiungano gli errori clamorosi che determinano le già citate crisi Telecom e Alitalia e si completa il quadro fosco di una economia italiana che fa capire il perché oggi si esce dal mondo del lavoro e si crea una disoccupazione che asciuga i fondi della Cassa Integrazione. Con il Governo Berlusconi, assistito dalla stampella orwelliana Tremonti, che fa il controcanto a quella Marcegaglia impassibile sulla barca che affonda malgrado la detassazione degli straordinari. Il riscontro è assolutamente deprimente per il basso tasso di futuro che si offre, particolarmente per chi, giovane, sta studiando oggi per avere una collocazione e una prospettiva domani. Studia per un lavoro, un diritto, una dignità ma si sta progettando la sua delusione. Come, pertanto, non essere d’accordo con le sacrosante proteste di chi da un Liceo, da una Università, reclama il proprio futuro?
2) Per esercitarmi nella difficile intrapresa – è un azzardo il mio e lo so – di guardare al “dove e come” si può comunque entrare nel mondo del lavoro, da cui abbiamo visto come e perché si sta uscendo, mi provo a partire dalla descrizione della Milano del lavoro oggi.
Questa è la città che, nel tempo, ha lasciato sul campo le antiche ragioni di scambio, date dalla grande industria - dall’auto alla chimica, dalla siderurgia all’elettromeccanica – ma non ha ancora consolidate le nuove. E’ più facile dire quel che Milano fu che non quel che Milano è e, men che meno, quel che Milano sarà. Potrebbe essere, Milano, il software d’Italia, la metropoli della scienza, attrattiva di talenti. Ma, malgrado le sei università, a Milano non si brevetta più e i talenti scappano. Restano le eccellenze di una stanca litania: la moda, il design... Ma, di fatto, Milano è la città dei servizi alle imprese e della terziarizzazione spinta, del credito e degli uffici delle 500 multinazionali, è la metropoli della microimpresa (300mila nell’area metropolitana) e degli immensi centri commerciali. Ora la domanda delle domande calata su questa metropoli: cosa mai devo chiedere, se studente, alla scuola di oggi per avere una possibilità di accesso al lavoro domani?
La risposta si schianta contro il limite: oggi si studia in ragione solo delle proprie soggettive propensioni, reali o presunte (con i genitori che esercitano spesso una forzatura, corretta o meno) e in ragione del censo, che di suo, provvede di fatto a una preselezione violenta, questo sempre.
Ma il limite più forte è riscontrabile ancora più a monte della scelta del percorso, perché scuola e impresa non si parlano, non offrono progetti, non aprono canali. Le imprese che, nella situazione descritta e a differenza di Francia, Germania, Spagna, non programmano se non in ragione d’anno e sono esclusivamente impegnate a liberarsi di lavoratori competenti, con dote professionale, ma gravati dal costo dell’anzianità. Le imprese così reggono, quando reggono, abbattendo la qualità e licenziando chi sa. E’ una scelta suicida, la loro, che paghiamo noi. Le scuole che, se subiscono i progettati tagli strutturali, sono destinate a sfornare precari pronti per il lavoro intermittente. Se scuola e impresa oggi non si parlano, domani si allontaneranno ancor di più. Ed è proprio questo che si vuole: questa struttura economica non chiede la qualità e la scuola non gliela offre. Questa struttura vuole lavoro povero e la scuola le consegna i precari a vita. Ci si ribelli, si può cambiare. Altrochè “figlio dottore”: oggi il figlio dell’operaio, anche se laureato, è destinato a fare il banconiere all’Ikea, a mettersi le cuffiette al call center, a scaricare le cassette di insalata all’Ortomercato! La battaglia nella scuola è battaglia per il futuro del paese.
3) Nell’intento di trovare una via d’uscita (quale studio per quale lavoro) guardo all’impresa: c’é quella che scappa a Est e delocalizza (oggi oltretutto si delocalizza meno perché il salario italiano si avvicina a quello rumeno) e quella che chiude in Italia perché è andata fuori mercato. Ma ci sono produzioni che, questo è il punto, non possono né chiudere né essere delocalizzate. Puoi spostare in Cina o Romania una fabbrica d’auto o di frigoriferi ma il servizio dell’elettricità, del gas, dell’acqua, il cablaggio, le reti di comunicazione telefonica, il servizio sanitario, i trasporti, le infrastrutture, l’edilizia, la formazione, questi restano. Li puoi privatizzare, ma restano. E’, questo di questi settori, il mercato che hai in casa. E’ l’assoluta centralità delle reti territoriali che deve diventare un valore. Qualifichiamoci, scuola e industria, sul valore. Usciamo, con un progetto in questa direzione, dalla morsa in cui siamo stati condotti, che vedeva l’Italia come realtà industrialmente forte ma nelle produzioni deboli in quanto esposte a concorrenza (come il tessile) e, di converso, industrialmente debole nelle produzioni forti, in quanto al riparo dalla concorrenza. Investiamo su reti con questo ultimo carattere. Reti in cui, appunto, il valore di mercato può essere sovrastato dal valore d’uso. Se lo si fa, si possono dischiudere scenari interessanti di una nuova politica industriale in cui ritorni di attualità il “Cosa, come, dove, per chi produrre”. Una politica al servizio di un progetto che diventa programma. E in ragione di questa scelta modellare anche una nuova politica scolastica che formi, non a caso come oggi, ma in ragione di quel “cosa, come, dove, per chi”. Offra futuro, non illuda. In questo esercizio di futuro, che però ho visto praticato alla “Città dei mestieri” di Parigi, si possono anche allineare ipotesi di intervento concreto. Si può individuare oggi, pur nel gorgo della crisi, pur con questo governo da brivido e una sinistra opaca, si può provare a indicare laddove ci può essere sviluppo e lavoro.
– Nell’energia, dove è in corso l’evoluzione verso le energie alternative, dal fotovoltaico all’eolico, da quelle prodotte dalla combustione fossile e anche alternative alla sola importazione, ora di gas, ora direttamente di elettricità di fonte nucleare, come si fa dalla Francia. E’ materia di studio, è opportunità di lavoro.
– Come grande sviluppo occupazionale sarà dato dal “risparmio” – si pensi alla climatizzazione degli edifici – così come dal “riuso” e dal recupero materiali (si pensi ai metalli preziosi estraibili dai Pc).
– Come nei trasporti, in cui non è più rinviabile la “svolta del ferro”, così come il rilancio del trasporto pubblico, sino alle “autostrade dei mari” e l’auto ibrida che traghetti verso quella ad idrogeno. Questo è il futuro che prospetta il rilancio, anche occupazionale, dell’elettromeccanica, della navalmeccanica e dell’auto con quelle nuove caratteristiche che vogliono, se perseguite, centinaia di migliaia di ingegneri e milioni di operai.
– Come nella sanità, che sia correlata allo sviluppo della ricerca, come si può fare già, a Milano, con il Bio-Polo di Bresso e la diagnostica preventiva scaturita dalla simbiosi Reti ospedaliere-Stm del Polo Tecnologico del Vimercatese. Ricercatori, medici, infermieri.
– Come infine nell’alimentazione, dove può essere usato a volano l’Expo, fuoriuscendo dal teatrino del “chi comanda qui dentro” che fu il grido di Alice caduta nel Paese delle Meraviglie. A meno che si sia già deciso che chi comanda è Cabassi, con Ligresti, Caltagirone e Paolo Berlusconi; questa generazione di vampiri metropolitani annidati sotto la sottana della Sindaca.
Progetti di sviluppo e occupazione che vogliono percorsi di studio. Non specialistici però. Avanzo qui critica al modello universitario. Oggi si è imboccata la strada delle specializzazioni spinte e, parallelamente, non c’é Comune che non voglia la sua facoltà decentrata. Sbagliata la scelta universitaria delle mille specializzazioni, patetica quella dei Sindaci che accostandosi ad una facoltà (le più strampalate) si sentono di riflesso molto intelligenti ed innovativi. Che la prima scelta sia sbagliata ce lo dicono gli stessi laureati entrati nel mondo del lavoro, spesso per fare altro che non quello per il quale si sono precocemente specializzati. La ragione è semplice: ti specializzi in quattro o cinque anni per un mercato che, essendo flessibile, poi non corrisponde al tuo studio. C’é una legge economica, cosidetta del Negroponte, che vale per i computer ma anche per il lavoro che cambia: il computer, secondo Negroponte, diventa ogni cinque anni dieci volte più potente e costa dieci volte meno. E’ la metafora dello studio: se ti specializzi su una funzione che, quando vai sul mercato, risulta superata. Bisognerebbe invece tendere a fornire competenze di alto livello ma metodologiche, scientifiche, di visione, di cultura raffinata, che sono poi quelle che sono decisive per capire ed anticipare i processi. La specializzazione segua, non preceda. Specializzazioni sono sì richieste ma nei quadri intermedi e negli operai. Mancano i quadri intermedi, questa la novità, quelli che si collocano tra i laureati e operai e tecnici. Mancano i periti o, in genere, i diplomati in tutti i settori: dall’industria all’edilizia, dal credito al turismo (che dovrebbe avere un balzo con l’Expo). Così come mancano gli operai specializzati – dai saldatori agli attrezzisti che vengono presi dall’Est Europeo – e, nell’abbigliamento, mancano i sarti finiti. Quando appaiono, le aziende, anche quelle artigiane, se li accaparrano e li stabilizzano subito e a tempo pieno.