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Antonin Artaud - TRA ELETTROSHOCK E CINEMA

Publie le domenica 15 gennaio 2006 par Open-Publishing

Dazibao Cinema-video - foto

La fine del mondo nelle parole di Antonin Artaud
Un’intervista a Jean Jacques Lebel che, insieme a Dominique Paini, ha curato l’allestimento della mostra-evento al Pac di Milano. Ventidue anni di lavoro per ritrovare ventidue film, i cui frammenti vengono proiettati di continuo sugli schermi, avvolgendo gli spettatori. Su tutti spicca il provino per "La fin du monde" girato per Abel Gance

di MARCO DOTTI

"La chiamano mostra, ma io preferisco un’altra parola: montrage. Non voglio fare `mostre’ e tutte quelle altre cose che ben si adattano al mercato, con quotazioni, galleristi che lavorano come agenti di cambio, artisti, merci, visitatori, schiavi e via discorrendo. Io faccio una cosa più semplice, e tutto al fine di farla saltare, come con la dinamite, questa idea di mercato. Per fare questo, mi metto alla ricerca di frammenti - tracce di suoni, pezzi di immagini, urla di dolore - li restauro, li monto, come in un collage e infine li mostro al pubblico che sarà libero di trarne le conclusioni che preferisce".

Jean-Jacques Lebel è un signore garbato e polemico, rigoroso e appassionato al tempo stesso. Il montrage a cui si riferisce è quello che, a cura sua e di Dominique Paini, sotto il titolo Artaud. Volti e labirinti, è stato allestito al Pac di Milano (via Palestro, 14), dove rimarrà fino al 12 febbraio. In ogni «mostra» che ha curato, da quella dedicata a Picabia, a quella su Michaux o Victor Hugo, dichiara ancora Lebel, «ho sempre lavorato per trasformare lo sguardo sulla produzione intellettuale di un autore. Ad esempio Hugo, racconta, «ha disegnato e dipinto per cinquanta anni, ma si rifiutava al mercato».

Non voleva esporre. È il mercato, ci si chiede, il solo criterio per escludere un grande disegnatore dal canone della storia dell’arte? Dopo anni di accurata ricerca, Lebel è riuscito a mettere a frutto un lavoro che, più di tutti, sembrava stargli a cuore: un’esposizione dedicata ad Antonin Artaud, che conobbe, nel 1948, ad Ivry. Lebel dichiara di avere un’unica ambizione: mostrare Artaud. «Mostrarlo così come l’ho ritrovato, ricoperto d’oro e di sterco, di vita e di amore».

Un piccolo evento, questo, che sta premiando la scelta coraggiosa del Pac, e attira migliaia di visitatori, discreti e silenziosi (circa 12.000 nel primo mese di apertura), ma attenti, in una città che non si illumina più neppure per le feste, e non sembra affatto scossa dall’imminenza delle elezioni. «Arriva molta gente e questo è positivo - prosegue - significa che non si accontentano, che questo non è solo il paese di Berlusconi». Poeta e saggista, ma soprattutto «comunista libertario» e, a suo modo «visionario», Lebel non ama definizioni e schemi, almeno quanto non ama le verità dette a mezza voce. In questo, non sembra affatto cambiato dai tempi in cui, invitato da Gianni Sassi, animava le indimenticate rassegne Milano suono e Milano poesia. Era un’altra città, quasi un altro mondo. «Ci manca Gianni, manca a Milano. A questa città che sembra morta. Il mio montrage è dedicato a lui, che avrebbe capito. È dedicato anche a chi vuole cominciare adesso, a capire».

All’inizio del percorso, quasi senza cautele, il visitatore viene spinto nell’universo, sconvolgente per certi versi, di Antonin Artaud. La prima sala gli presenta una radiografia e un video provino, del 1930, credo mai visto prima.

Tutto il materiale che qui viene presentato è inedito. E tutto segue un ordine preciso, studiato in anni di lavoro. Ventidue anni per ritrovare i ventidue film - da Mathusalem di Jean Painlevé, all’Opera da tre soldi di Georg Wilhelm Pabst - i cui frammenti vengono proiettati di continuo, su grandi schermi che avvolgono lo sguardo del visitatore. Su tutti, spicca e colpisce il provino per La fin du monde, girato per Abel Gance, al quale lei accenna. Il visitatore deve entrare subito in questo mondo, circoscritto dalla lastra dorsale di Artaud - lastra che documenta che non era un delirio, il suo gridare che gli avessero spezzato la schiena con gli elettroshock - e questo video travolgente, con quel viso, qui gesti, quella voce che ti penetra dentro. Facciano pure le «mostre», al MoMa o al Beaubourg (per il 2007 è prevista una grande esposizione dedicata all’artista, ndr), mostrino i disegni, i quadri, accendano dibattiti. Non si fa spettacolo di questa sofferenza! Io questo non lo voglio, pertanto lavoro per rimettere in piedi il contesto che è stato teatro, e ha determinato, la sofferenza e la creatività di Artaud, ma viene costantemente censurato.

Ne «La fin du monde» Artaud intona una filastrocca per bambini con un’intensità esasperata. Impossibile non ricordare le sue parole: «Che cosa aspettate? Che la morte venga da voi? Vi consiglio, miei cari, di andare da lei. Di guardarla in faccia!». Impossibile non ripartire da qui, per ragionare su quel «magnetismo» fisico che, spesso, si attribuisce solo all’ultimo Artaud...

È vero. Il mio scopo era riattivare proprio questo procedimento. Prenda anche il fotogramma, da Surcouf di Luitz Morat, un film del 1924. Artaud vi interpreta la figura di un uomo dal destino tragico, che sceglierà il suicidio. Nella scena finale, Morel-Artaud si getta da una scogliera, e il suo corpo esanime, tra le rocce e il mare, sembra coperto di detriti. Questa è la crudeltà! Consideri sempre che Artaud non era un dilettante. Aveva la tessera sindacale. Lavorava come attore e così si guadagnava il pane. Ma non lavorava soltanto, viveva le sue scene, le soffriva. C’è una tensione radicale in tutto questo. Egli trasformava, con uno sguardo, un gesto, una sola presenza l’intero senso di un film. È un procedimento che andrà studiato, prima o poi.

Si è detto che alla costruzione del «mito Artaud», che per alcuni anni ha impedito di andare oltre la semplice ripetizione di aneddoti sulla sua vita, abbiano contribuito soprattutto gli amici a lui più vicini. Per questa ragione dedica una sezione della rassegna ad Artaud ritratto, fotografato, descritto proprio da alcuni tra i suoi amici più illustri?

Dal ritratto di Man Ray, a quelli di Dubuffet, Balthus, e via discorrendo, ho pensato che fosse importante ribadire che Artaud aveva molti amici. Che questi amici avevano diverse impressioni su di lui, ma c’erano. Non era un isolato, non era solo, intendo. Picasso lo aiutò spesso, Paul Eluard anche. Questo fa sempre parte del contesto, e il contesto non si può negare. Va capito a fondo. è importante sapere che non era stato dimenticato. Artaud era seguito, e molti amici andavano a trovarlo a Rodez, che si trova a mille chilometri da Parigi, rischiando, perché la Francia era occupata dai nazisti. Artaud non era solo, non lo è quasi mai stato.

Si potrebbe obiettare, da un certo punto di vista, che anche lei accrediti una certa immagine di Artaud, insistendo molto sull’aspetto dell’alienazione sul tema dell’elettroshock, invece che concentrarsi solo sui flussi, alterni, della sua creatività. È possibile che questo, in qualche modo, vizi la ricostruzione d’insieme. È una critica che si sente di accettare? Che cosa ne pensa?

Penso che il punto da mettere in risalto e da presentare subito, senza riserve o indugi a chi visita l’esposizione, è che, attraverso il prisma della cosiddetta schizofrenia, con una luce molto, forse troppo intensa, ma sempre estremamente positiva, Artaud illumina il nesso filosofico, sociale e politico fondamentale che sorge fra l’alienazione e questo periodo del capitalismo. Un capitalismo, quello che viviamo ora, che appare completamente trionfante e, al tempo stesso, degenerato. Date queste condizioni, è veramente difficile cogliere i termini del momento storico. Solo quelli che, come diceva Deleuze, hanno una percezione allucinatoria del reale possono forse cogliere intensamente il momento che viviamo. Ma tutti, questa è la sfida, dobbiamo lasciarla crescere dentro di noi questa percezione, perché solo così possiamo ricominciare a pensare a un’altra società, a un altro tipo o a un’altra forma di vita. Molti visitatori preferiscono voltare le spalle, dicendo: «Questa mostra è un incubo». È la verità, ma questo è l’incubo del capitale, non l’incubo di Artaud. Come un antico alchimista, egli ci mostra che anche nel disastro assoluto, nella sofferenza più nera, anche dalla privazione più dura - nove anni di internamento psichiatrico, durante l’occupazione nazista della Francia, mentre in Europa c’era la guerra - anche da tutto questo, dicevo, si può trarre nuova vita. Per questo ragione il percorso si apre con la lastra che mostra le conseguenze degli elettroshock sulle vertebre di Artaud. Il dottor Ferdière, che lo aveva in cura, dichiarava che Artaud stava delirando, e una cosa del genere non era mai successa. Ecco le prove, vengono dall’archivio dello stesso Ferdière, che mentiva sapendo di farlo. Ma una cosa dovremmo precisare meglio: Artaud non delirava, è questo che la lastra sta a rappresentare. Non delirava affatto, i suoi erano frammenti di verità vissuta. Ce ne lascia una traccia nel finale della sua opera per la radio francese, Per farla finita col giudizio di dio, in cui mette in scena una sorta di dialogo grottesco tra lui e Ferdière. Tutto questo è ricostruito nella sala dell’elettroshock. Ho ricostruito la stanza con gli strumenti dell’epoca, le lastre, i documenti con l’intestazione voluta da Pétain: «Lavoro, patria, famiglia»! Il visitatore deve vedere, capire, sentire l’odore dell’epoca. Deve sentirlo, per capire le cose, per capire ciò che l’industria culturale vorrebbe censurare e escludere dall’universo-Artaud.

Vogliono solo l’artista asettico, la lotta, la sofferenza, il contesto, come detto, lo escludono! Per non far passare più nulla che non sia, ancora una volta, sottomesso al mercato. Io ho rimesso al cuore del mio proprio lavoro questa sala. L’ho fatto per affermare che, al centro, si trova la lotta di un cosiddetto schizofrenico che, senza grammatica, senza sintassi, si è reinventato un linguaggio che ha molto a che fare con le onomatopee futuriste e con la poesia concreta dei dadaisti - Artaud è più dada, che surrealista. Artaud è un artista plurale, firmava con molti nomi, usava linguaggi e pensieri diversi, aveva corpi diversi. Il concetto di contraddizione non ha senso per lui. E non si deve dimenticare che, negli ultimi mesi della sua vita, tra il 1947 e il 1948, scrive due tra i testi chiave del nostro tempo: Van Gogh il suicidato dalla società e Per farla finita. Li scrive con sarcasmo, oltre che con lungimiranza politica, e consapevolezza artistica. Scrive lettere a Breton, in cui parla di insurrezione. A che cosa si riferiva se non a un’idea di rivoluzione?

Il suo è un Artaud molto politico, se ne rende conto?

Certamente lo è. Vuole esserlo, deve esserlo. Quando Artaud dichiara di odiare la Francia, di odiare la sua lingua... è il kepi dei gendarmi che odia. Il kepi del gendarme francese che tante volte si vede ritratto, nei documenti del tempo, fianco a fianco con gli assassini nazisti, nei lager, ma anche fuori. È tutta una storia della collaborazione, dell’asservimento e dell’occupazione che Artaud chiama in causa. Non dimentichiamoci che a Rodez, dove fu internato, ma da dove poteva uscire, ascoltare, parlare, operavano i Ftp, i partigiani liberi. Non gli stalinisti, non i gollisti, ma quelli che ora chiameremmo l’estrema sinistra, quella libertaria. Artaud non è estraneo a tutto questo, non potrebbe esserlo: è il suo tempo, la sua condizione, il suo contesto. E anche il nostro, nella misura in cui ci rimette ancora in discussione. Ma vogliono cancellarla, questa storia. Ciò che si vede, in questo montrage, è che dietro al personaggio Artaud, c’è l’uomo. E quest’uomo ha tutta una sua maturità artistica e politica. Il provino della Fin du monde, il manifesto surrealista La rivoluzione ancora e sempre, in parte scritto da Artaud, spezzoni delle apparizioni cinematografiche e frammenti delle sue registrazioni, cartelle cliniche, strumenti di tortura psichiatica... Tutto deve avvolgere l’occhio e l’orecchio dello spettatore e dargli il senso di questo percorso, della piena maturità, intendo dire, di questo percorso. «La realtà, non il sogno», si legge nello scritto dedicato a Van Gogh. Ecco, anche per me, anche per noi, ora, qui: la realtà, non il sogno. Con Artaud, ma anche attraverso di lui: la realtà. Nient’altro.

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