Home > Arancia metalmeccanica. I nuovi schiavi della crisi

Arancia metalmeccanica. I nuovi schiavi della crisi

Publie le lunedì 18 gennaio 2010 par Open-Publishing

Gli operai della Lofra di Teolo, le tute blu delle fonderie Zen di Albignasego, i tecnici della Eutelia. Le loro battaglie contro lo scippo del lavoro nella «Galania» che sta per diventare «Zaiana». Uno spettacolo di Massimo Carlotto sulla cronaca quotidiana che non fa notizia

di Sebastiano Canetta, Ernesto Milanesi

PADOVA

Il sindaco e il prete in «trincea» con gli operai in cassa integrazione. Le fabbriche autogestite salvate dalla pirateria d’impresa spacciata per miracolo economico. Nel Padovano un’intera comunità resiste allo scippo del lavoro dei filibustieri di «Galania» e «Zaiana». E così scatta l’Arancia metalmeccanica dei lavoratori del Nord Est, alle prese con le pagine noir scritte dai «padroni del vapore» che hanno razziato aziende e territori trascinando nel baratro gente in carne ed ossa.

È la lotta di un centinaio di operai e impiegati della Lofra di Teolo, delle tute blu delle fonderie Zen di Albignasego e dei tecnici delle filiali venete del colosso Eutelia. Picchettano quel che resta degli stabilimenti per garantirsi il futuro dopo il default industriale dei tycoon locali. Da un anno vivono con 700 euro al mese, in attesa di vendere gli ultimi pezzi del made in Veneto agli stranieri.

All’orizzonte, si profila una valanga di licenziamenti nell’unico settore «sano» dell’economia locale soffocata dalla recessione. Il 23 gennaio «scade» la cassa integrazione per tutti i metalmeccanici veneti. Significa 6.600 lavoratori a rischio licenziamento. Vuol dire lucchetti ai cancelli per le ultime fabbriche vere: dalla Carraro Spa alla Komatsu di Monselice, dalla Toffac alla Emerson, fino agli ex colossi Acciaierie Venete e Fonderie Anselmi.

«Non siamo carne da macello. Per questi disastri qualcuno dovrà pagare anche penalmente» accusa Antonio Trevisan della Rsu Lofra che non ci sta a farsi bruciare nei forni della fabbrica. «E pensare che facevamo le migliori cucine d’Italia» ricorda. Il fiore all’occhiello dell’economia locale che viveva sulle commesse da tutto il mondo. La fabbrica dei Colli Euganei è sinonimo di forni, cappe e piani cottura di alta qualità dal 1956. «Eravamo maestri artigiani custodi di un know how invidiato anche dai concorrenti» precisano gli operai.

Non sono stati uccisi dalla crisi «americana» ma da quella veneta di imprenditori senza scrupoli, capacità e strategia. Lo dimostra il portafoglio ordini della Lofra: a febbraio 2009 vantava commesse per oltre 4,5 milioni di euro. Anche l’incontrovertibile statistica: «Dall’inizio della crisi il settore metalmeccanico veneto ha perso "solo" il 30% della produzione» confermano gli analisti.

Un anno fa, Lofra era un’azienda tutt’altro che morta, ricordano i sindacalisti della Fiom-Cgil. «I centralini dell’ufficio vendite intasati dalle telefonate di clienti storici, che non volevano sapere di sostituire il nostro prodotto» raccontano i 98 operai dello storico stabilimento di Teolo. Una valanga di ordini in barba alla recessione: un pacchetto di ordini rimasti inevasi per mancanza di liquidità. Dopo il "buco" milionario, nessuna banca della zona è disposta a finanziare la produzione.

Stessa storia alle fonderie Zen di Albignasego. Un gioiello mandato in cancrena da investimenti «pirata» del proprietà. Qui, gli operai hanno bloccato la cannibalizzazione dei macchinari pianificata dal paròn Florindo Gallo. «Abbiamo impedito che, oltre al lavoro, si portasse via anche gli attrezzi. Perché senza le macchine la fonderia è veramente finita» spiega Marco Di Stefano da quattro mesi impegnato nella Rsu. Alla Zen i lavoratori hanno archiviato anni di trattativa sindacale a senso unico. «Abbiano dimostrato fino a dove si può tirare la corda» puntualizza il rappresentante sindacale.

Sulle barricate anche i "cocci" del vaso Eutelia: 23 operai che ricordano promesse e commesse di ministeri, enti pubblici e Rai a cui è stata fornita tecnologia «strategica».

Martedì 12 gennaio in 300 hanno affollato il cinema parrocchiale di Torreglia. Sul palco del teatro La Perla lo scrittore Massimo Carlotto. Va in scena l’Arancia metalmeccanica dei nuovi schiavi dell’economia. Uno spettacolo sulla cronaca quotidiana che non fa mai abbastanza notizia. Parla a braccio il sindaco Mario Bertoli (lista civica di centrosinistra): garantisce «il massimo appoggio del municipio alla lotta degli operai della zona». Poi prende la parola il parroco don Lucio Senigaglia che non promette miracoli ma chiede «piccoli grandi gesti di solidarietà spicciola». Proprio come i 1.100 euro raccolti a fine serata : offerta libera in tutti i sensi.

Accompagnato dalla pianista Nicoletta Filella, Carlotto recita la lettera aperta ai capitani d’industria del Nord Est: «autentici paraculi» (scaltri e opportunisti per definizione del dizionario) pronti a dirottare i vagoni della locomotiva nelle più economiche "stazioni" della Romania. «Cari imprenditori, una mattina vi siete svegliati rendendovi conto che costavamo troppo. Ma negli anni non avete speso un centesimo per migliorare le tecnologie delle vostre fabbriche» accusa Carlotto.
«Se fosse un romanzo sarebbe ambientato nella Galania che si appresta a diventare Zaiana» aggiunge. Prima di ricordare i monumenti del vecchio miracolo: veri e propri mausolei per coltivare il culto della personalità del governatore di turno. «Spicca il Passante voluto da Galan: 32 chilometri di autostrada che finiscono in un collo di bottiglia». Carlotto non risparmia nemmeno il ministro Zaia futuro presidente del Veneto. «Sembra Peter Sellers nel film La Pantera Rosa. Il ministro della Lega dà sempre l’impressione di non sapere dove si trova e cosa stia facendo». E proprio come l’indiano di Hollywood Party si alimenta di trovate surreali. L’ultima è quella del cavallo: «Zaia vuole impedirne l’allevamento perché lo ritiene un animale da compagnia»

Poi svela la verità raccontata dagli inviati da Report: «Hanno svelato il bluff dei calzaturifici del Brenta che assemblavano tomaie d’importazione».
Carlotto testimonia il fastidio dei «padroni» per il sindacato. Descrive l’ eloquente cartello affisso nel reparto produzione di una delle tante fabbrichette venete d’esportazione: «Chi si iscrive al sindacato va fuori dai coglioni». Firmato «Denis, el paròn». Ma lo scrittore spiega anche i veri motivi della delocalizzazione delle imprese del Nord Est a Timisoara, ottava provincia veneta: «Cari imprenditori, dite la verità, una volta tanto. Vi siete trasferiti in Romania perché lì si può ancora inquinare impunemente il territorio. Siete andati dove vi permettono di scaricare i resti delle vostre lavorazioni nel fiume più vicino».

Sul banco degli accusati finisce anche la famiglia Benetton, portata alla sbarra dai Mapuche argentini per gli ettari di pampa «conquistata» grazie ad un esercito di avvocati. «Quando gli indigeni hanno fatto causa a Benetton, lui ha fatto un salto dalla sedia: Ma perché, ghe xe ancora indiani vivi?» ironizza Carlotto.

In precedenza, aveva fatto altrettanto con i piccoli industriali vicentini che affidano alla consulenza di Paolo Crepet, perché non riescono a capire i figli votati all’inedia del profitto. Imprenditori? Carlotto ricorda che sono quelli che hanno scaricato in Campania i rifiuti tossici a beneficio della camorra. O spedito in Cina la plastica avvelenata destinata ai giocattoli a basso costo per i bambini di mezza Europa.

«Qui in Veneto, ovviamente, la mafia non esiste e gli imprenditori sono solo quelli del miracolo economico. Permettete che almeno ci girino le palle?» conclude Carlotto.

il manifesto