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BILANCIO UE : Alla deriva il Titanic egoista, senza timone e possibilità di approdo
Publie le mercoledì 21 dicembre 2005 par Open-Publishingdi ANNA MARIA MERLO
L’annus horribilis dell’Unione europea non è ancora arrivato alla
fine. Dopo due «no» alla Costituzione la scorsa primavera, in
Francia e in Olanda, con il conseguente insabbiamento dei referendum
già previsti in altri paesi (Polonia, Danimarca e Gran Bretagna),
dopo il fallimento del consiglio europeo di giugno sul bilancio e la
ripetizione di un’identico scenario a cui abbiamo assitito giovedi’
e ieri al vertice conclusivo della disastrosa presidenza britannica,
l’Unione europea sta prendendo le sembianze di un Titanic
sballottato dai ghiacci sull’orlo del naufragio, che nasconde a
fatica sotto la musica della retorica l’umiliazione subita con i
voli illegali della Cia che ne hanno utilizzato il territorio come
una portaerei.
I 50 euro dei ricchi
Il tiramolla sull’entità del «quadro finanziario pluriennale», in
altri termini il bilancio della Ue per il periodo 2007-2013, ha un
valore simbolico, non solo contabile : il braccio di ferro investe
la relazione a doppio senso tra gli interessi nazionali contrapposti
e la volontà comunitaria. Quest’ultima sembra essere venuta meno,
dando luogo all’esplosione degli egoismi nazionali. Così, Tony Blair
difende il suo «sconto» e accetta al massimo di frenarne leggermente
la progressione, mentre la Francia concentra le sue forze per
ottenere (dalla Germania) un sìal ribasso dell’Iva sui ristoranti
(dal 19 al 5,5%). Mesi di discussioni, per un bilancio che resta
modesto, anche nell’ipotesi più alta: 116,5 miliardi di euro
quest’anno (cioè ma metà del bilancio del solo stato francese),
nessuna speranza di arrivare a mille miliardi per sette anni
(proposta della Commissione, respinta dagli stati membri). Per
l’Europa, oggi i paesi membri spendono l’1,01% del pil complessivo
e, mentre la Commissione puntava a far salire il contributo
all’1,24%, la proposta britannica si è fermata all’1,03%.
Nella «lettera dei tirchi» del dicembre 2003, i paesi contribuenti
netti avevano fissato un tetto massimo dell’1% del pil. Si tratta di
Belgio, Francia, Italia, Austria, Danimarca, dove, grosso modo, ogni
cittadino versa 50 euro l’anno all’Unione europea, e soprattutto di
Lussemburgo, Olanda, Svezia e Germania, i cui citadini versano
rispettivamente 186, 124, 117 e 86 euro a testa alla Ue ogni anno.
Sull’altro fronte, ci sono i beneficiari, con la parte del leone
fatta ancora da Irlanda (388 euro di guadagno a testa), Grecia
(378), Portogallo (300) e Spagna (200). Il primo bilancio
dell’Europa a 25 (e presto a 27) avrebbe dovuto riequilibrare la
situazione con l’obiettivo di finanziare lo sviluppo dei più poveri
appena entrati, che oggi hanno solo le bricole (37 euro per ogni
polacco, 19 per ungherese, solo Lituania e Estonia superano i 100
euro a testa). Senza i soldi dei ricchi, i poveri sono bloccati,
perché l’assorbimento dei fondi Ue è condizionato alla possibilità
di raddoppiarli in investimenti nazionali (pubblici o privati). Ma i
ricchi devono far fronte a un’opinione pubblica sempre più ostile a
pagare per gli altri: la Germania contribuisce per il 21% del
bilancio comunitario, la Francia per quasi il 17%, l’Italia sfiora
il 14%.
Le ambizioni limitate
Tony Blair, appena presa la presidenza semestrale, aveva fatto un
bell’effetto di fronte all’europarlamento: meno soldi a una politica
matura - quella agricola (Pac) - di più alla ricerca e sviluppo, per
tradurre in pratica le buone intenzioni della strategia di Lisbona
(«fare dell’Europa entro il 2010 l’economia più competitiva del
mondo»). Ma la Pac è per il momento la sola vera politica
comunitaria, che assorbe il 42,6% delle spese della Ue (49,6
miliardi di euro l’anno). Blair vorrebbe ridurne la portata, ma la
Francia - che è la principale benficiaria - è disposta a discutere
solo dopo il 2013 (c’è stato un accordo su questa data nel 2002) e
lo lega alla riduzione dello « sconto » britannico, ottenuto da
Margaret Thatcher proprio in connessione con la Pac (la Gran
Bretagna ne beneficia poco, ma nell’84, anno in cui fu istituito
lo « sconto », la Pac assorbiva ancora il 70% della spesa
comunitaria). Alla ricerca vanno solo le bricole del bilancio Ue, ma
questo dato va relativizzato, perché non si tratta di una politica
comunitaria e in questo settore sono gli stati e le società private
che investono. Il problema è che l’obiettivo di Lisbona - arrivare
al 3% del pil in investimenti per la ricerca - è lungi dall’essere
realizzato e le grandi società europee sono molto più tirchie di
quelle statunitensi e dei paesi emergenti (anche se una società
europea, la tedesca Daimler-Chrysler è in testa alla classifica
mondiale per la spesa in ricerca, la Siemes è al quinto posto, al
decimo la Volskwagen, all’undicesimo la britannica GlaxoSmithKline,
al dodicesimo la francese Sanofi, al tredicesimo la finlandese
Nokia). Ai primi posti, ci sono società statunitensi e giapponesi.
L’allargamento non digerito
La valenza simbolica della discussione sui soldi riguarda
l’allargamento non digerito dall’opinione pubblica dell’Europa
occidentale. Blair, per frenare l’aumento del suo « sconto » (che
aumenta in proporzione all’aumento della spesa), non ha trovato di
meglio che proporre una diminuzione globale del bilancio, che
toccherebbe in particolare i fondi strutturali, cioè il secondo
capitolo (36%) di spesa della Ue (dopo la Pac). Questi fondi sono
destinati a diventare il primo investimento comunitario. Sono lo
strumento della coesione economica, sociale e territoriale dei paesi
della Ue. Sono destinati (obiettivo 1) ai paesi il cui pil per
abitante è inferiore al 75% della media comunitaria, alle regioni
(obiettivo 2) in ristrutturazione industriale e per lottare contro
la disoccupazione (obiettivo 3), principale causa della crisi
generata dalla delusione europea. Volendoli ridimensionare, Blair,
per non passare da «traditore» in Gran Bretagna, si è trasformato
nel «traditore» dell’est, che aveva sedotto con il suo social-
liberismo e a cui ora nega il proprio contributo allo sviluppo con
lo «sconto». Londra, difatti, non finanzia l’est.