Home > BUSH - Missione tacchino
Mi chiamo Bush e sono un duro. Dicono che faccio il duro perché sotto sotto
sono un codardo paranoico, ma stavolta li ho fregati.
Come tutti sapete, ho vinto e stravinto la guerra in Iraq; ma qualcuno
insisteva a dire che la guerra non era finita, che morivano ancora decine
di
soldati americani e alleati, e che non ci avevano affatto accolto come dei
liberatori.
Propaganda comunista, disfattismo pacifista e provocazione pellerossa, ho
pensato.
Allora il giorno del Ringraziamento ho preso l’Air Force One, il mio aereo
personale e sono andato a controllare la situazione. All’aeroporto di
Baghdad avevo già avvertito i miei generali: non fatemi vedere bare di
soldati che portano sfortuna. Sulla pista infatti c’erano cento bambini
iracheni che mi salutavano sventolando bandierine a stelle e strisce.
Ne ho avvicinato uno e gli ho chiesto:
– Come ti chiami, piccolo mussulmano filoamericano?
– Veramente mi chiamo Jerry e sono un nano di Chicago - ha balbettato
quello.
L’ho fatto sbattere a Guantanamo, insieme a tutta la troupe di comparse.
Poi mi sono fatto portare alla base Usa sull’auto blindata Ground Force
One.
Tutto era tranquillo come a un party, i soldati mi hanno accolto con un
applauso scrosciante e ammirato. Ero elegantissimo: avevo il giubbotto
mimetico da generale, la t-shirt dei marines e gli anfibi nuovi che mi ha
regalato Berlusconi, ancora freschi di saliva.
C’era ad attendermi il generale Sanchez.
Gli ho stritolato la mano e ho chiesto: allora tutto bene questo mese?
– Veramente ci sono stati più di duecento caduti - ha risposto Sanchez.
– Cazzo, date meno cera ai pavimenti - ho detto io.
Il generale Sanchez ha dato l’ordine di ridere. Vedete, un presidente deve
saper dire battute e sdrammatizzare. E poi a me le perdite non piacciono,
io
sono un vincente.
Sono entrato nella sala mensa col mio passo fiero e emorroidale, a gambe
larghe, tra John Wayne e un pitbull.
E in mezzo alla sala c’era Bin.
Un tacchino iracheno di trenta chili, enorme, spaventoso.
Nessuno aveva ancora trovato il coraggio di affrontarlo e fare le porzioni.
– Stia attento - dice Sanchez - lo abbiamo tenuto in forno per sei ore, ma
con questi iracheni non si sa mai.
Ma io sono il presidente e non ho paura di niente. Mi sono avvicinato a Bin
e ho estratto Blade Turkey One, il coltellaccio presidenziale.
Nei miei occhi sono passati i momenti storici della storia americana e
della
mia vita: Little Big Horn, Pearl Harbour, Jack Daniels, il Vietnam, le mie
evasioni fiscali, le truffe elettorali...
Ho lanciato un urlo di guerra terribile e Ho fatto a pezzi Bin. Cosce di
qua, ali di là, e il ripieno di castagne e napalm che riempiva tutto il
tavolo.
Tutti applaudivano e tiravano petardi in segno di giubilo.
Poi mi hanno detto che non sparavano petardi, ma stavano ammazzando gli
spagnoli.
– Che cazzo ci fanno gli spagnoli qui? - ho chiesto.
– Sono nostri alleati - mi ha detto il generale Sanchez.
– Ah già, ora ricordo - ho detto io - beh insegnate loro la frase con cui
la
nostra terza guerra mondiale passerà alla storia: al posto di
«Stanno ammazzandoi i nostri soldati e non sappiamo più cosa fare»
bisogna dire
«Non ci lasceremo intimidire».
Mentre parlavo con Sanchez, hanno portato dentro sei o sette feriti pieni
di
sangue.
– Proprio adesso che stiamo mangiando? - ho protestato io.
A quel punto bisognava tirar su il morale dei soldati. Beh, non ci
crederete
ma in meno di mezz’ora io e lo Stato maggiore abbiamo mangiato tutto il
tacchino Bin, comprese le patate bollenti. Due generali sono rimasti
ustionati alla lingua.
Non dite che non abbiamo coraggio da vendere.
Poi abbiamo ruttato e pisciato in gruppo, come si usa nel Texas, e mi hanno
detto che dovevo parlare alle truppe. Democraticamente sono sceso tra i
marines. C’era un soldato nero, un po’ grasso, con la faccia da Annan. Gli
ho chiesto:
– Cosa pensi soldato, di questa guerra?
– Penso che il mio paese sia guidato da uno degli uomini più stupidi,
arroganti e paranoici della storia dell’umanità - ha detto il nero.
Ho stabilito che da oggi durante le parate militari dovrà essere seguito il
metodo della Tivù italiana cattaneonunziatista: i soldati potranno parlare
ai superiori solo con una cassetta registrata e approvata dagli alti
comandi.
Era ora di tornare a casa.
Ho bevuto trentatrè Amarines, l’amaro del marines, e sono risalito
barcollando sull’Air Force One. Salve di fucilate festanti accoglievano la
mia partenza.
Beh la mattina dopo è stata dura, la fatica del viaggio, il tacchino sullo
stomaco, e poi altri attentati ovunque, e abbiamo richiamato tremila
riservisti e ho scippato altri tremila miliardi all’assistenza sociale per
destinarli a spese di guerra, e mentre i marines crepavano sapete dove ero
io? In un bunker tremante?
No, ero a giocare a golf col mio babbo.
Capito che sangue freddo?
Vedete, il terrorismo è l’unico problema del mondo che io e Blair e
Berlusconi fingiamo di sapere affrontare, per nascondere che non sappiamo
affrontare tutti gli altri problemi.
Perciò ho confidato a Bush senior che spero di poter mangiare altri
tacchini
in Iraq, in Siria, in Yemen e in tanti altri posti.
Mi hanno detto che gli scienziati, riuniti a congresso, hanno stabilito che
seil collasso ambientale continua, la terra ha cinquanta anni di vita.
Dilettanti: io potrei far fuori tutto il pianeta con venti testate nucleari
in meno di due ore. Lo dichiara la Cia in un divertente recente rapporto.
Putin non è più in grado di farlo e Osama avrebbe bisogno di anni.
Ero lì immerso in questi allegri pensieri alla buca quindici, quando mi ha
telefonato Berlusconi.
Mi ha detto che in Italia avevano scoperto delle cellule dormienti.
Non ho capito se si riferiva a nuclei terroristi o al cervello di Bondi.
In tutti i casi, approfitteranno dell’allarme attentati per far passare la
legge Gasparri.
Dio benedica l’America e Forza Italia, e ci conservi Saddam.
Ero lì all’ultima buca e brandivo Last Strike One, la mazza presidenziale,
quando ho avuto un attacco di lucidità. E’ stato terribile, l’ultimo
l’avevo
avuto nel 1984. Ho visto la pallina da golf e mi è sembrata la terra, un
piccolo pianetino coi mari e i continenti sperduto nel grande prato del
cosmo. E ho pensato che dopo secoli di civiltà, religione, democrazia,
tecnologia e intelligence la terra è sempre quella piccola cosa lì, un
pianetino affamato, intossicato, insanguinato, nelle mani di poche bande,
sempre più potenti e sempre meno responsabili.
E’ stato il pensiero di un attimo.
Ma non mi sono lasciato intimidire.
Con un colpo secco, l’ho infilata in buca.