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Bertinotti: "L’Italia è paese di pace, la Costituzione impone il ritiro delle truppe"
Publie le giovedì 27 aprile 2006 par Open-Publishingdi Stefano Bocconetti
Il segretario di Rifondazione celebra il 25 aprile a Marzabotto e riafferma il valore della Carta del ’48. A Milano contestata la candidata a sindaco Moratti. Prodi: «Fischi sbagliati». Il presidente Ciampi elogia i dettami costituzionali e invita il ritorno del dialogo.
Marzabotto (Bo) nostro inviato. Senza retorica, perché ne hanno fatto sempre volentieri a meno. Anche se parlano di «giovinezza» e di «Patria», ma gli danno un altro senso, che non infastidisce. Senza retorica, perché se anche qualcuno ne aveva voglia, gli è passata, dopo un’ora di cammino a piedi, in una giornata già estiva, per arrivare fin quassù, a Monte Sole. Nel bel mezzo dell’Appennino tosco-emiliano. Senza retorica perché qui, in mezzo a questa gente non c’è solo il rispetto, non c’è solo il ricordo. C’è il dolore, di chi ha un nonno, uno zio, un amico di famiglia trucidato dai nazisti. E ogni famiglia ne ha uno.
Perché siamo a Marzabotto, sulle montagne sopra Marzabotto, dove l’autunno di sessantadue anni fa, i nazisti in fuga trucidarano un intero paese. Li uccisero in Chiesa, dove avevano provato a trovare rifugio. E dove ogni anno celebrano la festa della Liberazione. Quest’anno con un ospite particolare: Fausto Bertinotti. Non ancora Presidente della Camera, già però qualcosa di diverso rispetto a qualche giorno fa. Perché non ci sono le bandiere di partito ad aspettarlo, ce n’è qualcuna della pace, una con Che Guevara. E basta. Magari altri loghi sì. Come quello della scuola di pace, uno dei due edifici di questa silenziosissima vallata. Ce l’hanno stampato decine di ragazzi e ragazze sulle loro magliette.
La manifestazione è stata organizzata proprio qui, di fianco alla scuola.
Manifestazione comunque è forse un po’ troppo. O troppo poco: perché non c’è il palco, c’è solo un microfono - abbastanza potente, perché la gente è sparsa fin laggiù, anche dietro la curva - e, dietro - la stele che ricorda l’assassinio di due sacerdoti, c’è anche una piccola banda. Che suona i canti che conoscono tutti, quelli della Resistenza, e altre ballate, che conoscono solo i più anziani di questa terra. La gente, poi, non è disposta come nei normali comizi, davanti agli oratori. Un po’ sono davanti, ma altri sono di lato, dietro, dappertutto. E così, chi parla ogni tanto si interrompe per salutare un amico, stringergli la mano.
Lo fa anche don Athos Righi. Fa parte di quella comunità che vive a cinquecento metri da qui, a cinquecento metri di strada sterrata, nell’altro edificio di questa valle, accanto al vecchio cimitero dove furono trucidati in trecento e dove ha chiesto e ottenuto di essere sepolto anche Dossetti. Anche lui è più informale che mai. Legge una preghiera, una strana preghiera moderna dove chiede la pace per chi ha regalato al libertà a «questo nostro paese». Poi, a braccio, ci aggiunge che il sacrificio di quelle vittime, di quegli uomini di Chiesa uccisi nell’ottobre del ’44, assieme alle loro comunità, ci impongono di trovare sempre e comunque un’altra strada che non sia quella della violenza. E’ informale il sacerdote. Esattamente come il sindaco di Marzabotto, Edoardo Masetti. Fascia tricolore, ogni tanto uno sguardo agli appunti, dice testuale: «E’ una vergogna che il vecchio governo, non abbia mai sentito il bisogno di celebrare la Liberazione, la Resistenza. Non l’hanno fatto, perché avevano in mente solo di stravolgere il senso profondo della Costituzione, partita da quelle lotte. Ecco, agli uomini delle istituzioni - dice, voltandosi verso Fausto Bertinotti, che è alle sue spalle - chiedo di cancellare questi cinque anni e di ripartire dai valori della Resistenza».
Lo applaudono tutte gli altri sindaci, uomini e donne, che lo circondano. Lo applaude Dante Cuicchi, che ha dedicato una vita ad organizzare i familiari delle vittime di Marzabotto. E’ anziano molto anziano - lo dice abbracciando Bertinotti: «Sai, ho 83 anni» -, ma lucido, assai lucido. E’ lui che parla di Patria, «concetto da emendare dalla retorica della destra», è lui che mette sotto accusa l’insorgente revisionismo storico. Di chi ha combattuto, di chi ha perso la vita, per liberare non solo se stesso ma tutti. Compresi gli «oppressori». Conclude il suo discorso facendosi il segno della croce.
Molti hanno voglia di piangere, qualcuno lo fa. E comincia a parlare Fausto Bertinotti. Alla fine, il suo discorso durerà solo qualche minuto più degli altri. E’ emozionato anche lui, commosso. E così all’inizio parla in terza persona, racconta di chi magari si sente «inadeguato» davanti a queste storie, a questi racconti. Davanti ai protagonisti di quelle battaglie. Uno spunto, il primo, glielo danno però proprio le parole di chi l’ha preceduto. Le parole di don Athos. Ed è come se riflettesse ad alta voce. «Avete avuto anche voi la stessa sensazione che ho avuto io? Di quel senso di appartenenza? Avete avuto anche voi l’emozione di sentirsi affratellati, anche se diversi, perché stiamo provando a costruire una comunità, sulla base di valori condivisi?». Domande. Che lo portano a qualche riflessione. Politica. «E dire che nel nostro paese c’è chi vorrebbe una divisione fra credenti e non credenti, e dire che nel nostro paese c’è chi teorizza la diversità, i muri fra credenti e non credenti». La risposta non è allora nel voto o nelle polemiche. E’ nelle parole di don Athos, è in questa gente che si fa comunità.
Sì, dice ancora Bertinotti, la diversità è una ricchezza. Che vale tanto più per il nostro paese, paese di frontiera, dove c’è chi fa appello allo «scontro di civiltà», non accorgendosi che le altre civiltà sono già qui, vicini a noi. Qualcuno, fra la gente, dice: «Se ne vada Pera e tutti i filistei», e si applaude, si ride.
Bertinotti dice ancora due cose. La prima è un impegno che riguarda tutti. Anche chi non è qui. «Credo che nella Liberazione affondino le radici del nostro futuro». Quelle battaglie ci raccontano di tragedie, di lutti ma anche di «una rinascita». Di voglia, di bisogno di rinascita.
La resistenza, insomma, può, deve insegnare come si fanno le battaglie future. Perché i partigiani e le partigiane scelsero di impugnare le armi, ma solo perché «dovesse essere l’ultima volta». Perché i partigiani e le partigiane scelsero di bandire, per sempre, la ritorsione, scelsero di estirpare la logica dell’occhio per occhio, del dente per dente. Appunto, «liberarono se stessi, liberando tutti». Perché i partigiani diventarono i protagonisti della Costituzione. «Molti, anche qui, ci hanno chiesto di riaffermare pubblicamente il valore della Costituzione. Bene, io credo che se ci si crede davvero la prima cosa da fare è ritirare le truppe italiane dall’Iraq, è imporre il rispetto dell’articolo 11 della nostra carta costituzionale». Perché l’Italia torni ad essere un paese di pace, in prima fila nella lotta alle barbarie. Siano guerra o terrorismo.
Bertinotti parla, sembra dialogare con queste persone. «E che siano messe da parte le idee pazzesche di un Occidente contrapposto ad un Oriente». Lo stesso di prima, ridice che se ne deve andare Pera. Stavolta non si ride, si applaude solo.
Finisce così. Col solito scontato assalto dei giornalisti a Bertinotti. Stavolta un assalto infruttuoso. Gli chiedono della Presidenza della Camera, di Marini, di ministri, di D’Alema. E lui, impassibile: «Mi spiace, non vorrei essere scortese, ma oggi parlo solo di 25 aprile». Qualcuno prova ad aggirare l’ostacolo: e cosa replica alle destre secondo le quali l’Unione ha strumentalizzato la ricorrenza? «Userò le parole di don Athos. Perdonali perché non sanno cosa dicono...». Il resto è solo festa. Festa vera, pic-nic, famiglie che invadono i prati, altri che salgono a piedi al santuario a portare fiori. Ci va anche Bertinotti, lassù al cimitero. Lo aspetta, lontano dalla folla, un partigiano. Faceva la staffetta. Ricorda tutto di quel settembre del 44, lo deve ricordare: perché due volte all’anno, lo spiega ai ragazzi delle scuole che arrivano fin qui. Ricorda ogni particolare, ogni dettaglio. Da lassù indica prati, boschi e spiega dove erano le case, le cascine. Tutte bruciate. «Ho paura che si possa dimenticare», dice. Non sembra una frase fatta, perché qualsiasi sia la risposta, qualsiasi argomento si usi, quella paura gli resta. Abbraccia Bertinotti e lo saluta.