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Bertinotti a Prodi: «Mai ministro»

Publie le sabato 18 febbraio 2006 par Open-Publishing

«Ci penso giorno e notte», rivela il professore, smentendo poi di aver riproposto un dicastero a Bertinotti. Che dirama un altolà preoccupato soprattutto del «disegno politico» centrista volto a normalizzare il Prc

di Cosimo Rossi

«Una cosa che non esiste: né ora né mai». Con tutte le cortesie del caso, ma Fausto Bertinotti conferma la sua proclamata indisponibilità ad assumere incarichi di governo, soluzione che invece Romano Podi ieri ha in qualche modo riaffacciato per il leader di Rifondazione comunista.
Anche se poi l’entourage del professore ha tenuto a precisare che la «sicura» partecipazione del Prc all’esecutivo non vuole assolutamente impegnare Bertinotti. Rispetto al cui impegno «sta pensando a tutto, comprese le cariche istituzionali, che comunque si decideranno come il governo dopo il risultato elettorale». Da via del Policlinico non partono precisazioni ufficiali, tuttavia da Bruxelles Bertinotti ci tiene ugualmente a far pervenire una replica al professore. Non tanto per respingere gli attestati di lealtà che Prodi sta tributando nei confronti di Rifondazione. E nemmeno per imbavagliare la ridda di indiscrezioni sugli incarichi futuri sulla base del penoso richiamo al preventivo impegno per la vittoria elettorale. Il fatto è che il leader del Prc sente aria di doppio gioco all’intero dell’Unione e soprattutto tra i suoi maggiorenti economici. Ad avviso di Bertinotti c’è insomma «una manovra politica» nei confronti del suo partito: per mettere alle corde il Prc, obbligandolo a digerire gli aspetti più moderati della coalizione anziché consentirle di far vivere gli elementi giudicati «riformatori».

Le prove? Dall’enfasi sul caso di Marco Ferrando (escluso dalla liste per «incompatibilità» rispetto all’architrave nonviolento della rifondazione bertinottiana), alla «pretestuosa» e insistita richiesta di «garanzie» da parte di Francesco Rutelli, alle continue rievocazioni a mezzo stampa del 98 volte a pretendere una «normalizzazione» di Rifondazione. Sempre lì, del resto, si finisce per cadere: allo strappo del98. Rievocato dallo stesso Prodi per assolvere l’esecutore materiale e alludere quindi tacitamente ai mandanti (di Quercia e Margherita) che ancora tramano nel cavo del tronco ulivista. «Quando Bertinotti fece cadere il mio governo, e credo che sia stato un grande errore perché il paese stava davvero cambiando, non era legato ad un patto di governo - manda in prescrizione il professore - Dava l’appoggio esterno, non essendo legato al mio esecutivo». Dopo quella rottura Prodi e Bertinotti hanno ricominciato a salutarsi proprio nei corridoi di Strasburgo e di Brusxelles: hanno perorato insieme al causa delle primarie e quella del programma comune. «Rispetto a questo programma - si dice certo il professore - Bertinotti, che è uomo durissimo ma leale, non si tirerà indietro».

Ciò non toglie che il professore voglia mettere in cassaforte la fedeltà dei voti di Rifondazione: una quarantina di deputati e una ventina di senatori che, con ogni probabilità, in caso di vittoria saranno determinanti per la tenuta della maggioranza. Anzi, ammette Prodi le proprie insonnie turbate proprio dall’incubo del `98, «ci penso giorno e notte: faccio tutte le ipotesi e i calcoli, cerco le persone adatte». E se «non c’è dubbio» che il Prc farà parte dell’esecutivo, il punto riguarda proprio quale ruolo per Fausto Bertinotti.

Magari poterlo inchiodare a una poltrona di ministro, insomma. «Ma Prodi lo sa benissimo che Fausto ha già detto di no», fanno sapere anche da piazza Santi Apostoli ciò che già anticipava il segretario del Prc da Strasburgo. «Io non sono interessato ad alcun incarico di governo - assicurava la scorsa estate il leader dle Prc - La mia determinazione su questo punto è una determinazione personale, che riguarda la mia concezione della vita e della politica». Ovvero il fatto che «al vertice del cursus onorum» non c’è il governo ma la guida del partito che già Bertinotti ha annunciato di essere in procinto di lasciare nel corso di pochi anni. «Ho sessantacinque anni - suona il ragionamento bertinottiano - E penso che sia bene che gli incarichi esecutivi volgano a fine. Perciò uno non intraprende la carriera da ministro a sessantacinque anni». Altra cosa per Bertinotti ha ammesso essere l’eventuale assunzione di una carica istituzionale.

Ma tanto più il leader del Prc può immaginare questo approdo, tanto meno può concepirlo come abdicazione al percorso intrapreso fino a lì. E nutre perciò sempre maggiori sospetti nei confronti del corteggiamento e delle pretese di moderazione che provengono non tanto da Prodi quanto da tutti i settori moderati del centrosinistra propensi a trasformare Rifondazione nella balia degli scalmanati affinché non disturbino i manovratori.

il manifesto, 16 febbraio 2006