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Bertinotti: il Prc al governo grande occasione per l’Italia
Publie le giovedì 6 luglio 2006 par Open-Publishingdi Claudio Jampaglia
Il presidente della Camera a Milano con Paolo Mieli: «Leviamoci dalla testa l’idea che ci salviamo chiamandoci fuori».
“Bertinotti ti voglio bene”. » come un film mancato il ritorno dell’ex-segretario di Rifondazione tra il suo “popolo”, sotto il tendone della festa di Liberazione. Prima di salire sul palco, serio, il Presidente della Camera ci parla di «una grande fiducia»: «Siamo a un passaggio per cui abbiamo lavorato per tanto tempo e possiamo cogliere i frutti di tutte le esperienze di movimento». Poi l’abbraccio della gente, in piedi, per un applauso lungo minuti, lo travolge fino al magone. Non è tifo per il leader o la causa, è affetto a prescindere, senza bentornato o addio, quella cosa speciale che lega un uomo alle speranze di altri e altre.
Carica di ambiguità o ingenua che sia, emoziona. La poltroncina rossa costringe Bertinotti più del suo “trono” in Parlamento, gli occhi sono velati, ma “boys don’t cry”. Figuriamoci un Presidente della Camera, comunista. Paolo Mieli, l’intervistatore eccellente, capisce il momento e va in soccorso raccontando della sua “giornata particolare” con due “comunisti particolari”, il Presidente della Repubblica e quello della Camera. «Un fatto storico anche per il tratto umano, lo stile dei personaggi», dice il direttore del Corriere della Sera, che riconosce in Bertinotti «l’uomo di parte garante di tutti».
Ma l’emozione è già andata oltre, ha rotto la cornice, il ragionamento non ingrana e il nodo in gola si percepisce nettamente. Appena ha il microfono in mano Bertinotti ammette il rischio di «farsi travolgere dalle emozioni» e restituisce l’abbraccio: «Vi voglio molto bene».
Ricacciata giù la commozione, inizia a intrecciare politica, comunismo, traiettorie ingraiane e l’alternativa italiana, in un continuo rimando tra sé e il partito, le riforme e il governo. «Siamo arrivati fin qui, insieme, dopo tanta strada, fuori da questo tentativo non c’è salvezza». Il governo dell’Unione è la chance dell’alternanza per l’alternativa, un laboratorio europeo rispetto al grande centro alla tedesca che allarga il brodo di governo per ricucinare la minestra liberista quando le urne la negano. «La verità profonda della nostra coalizione ampia e diversificata, sollecitata da anni di governo del centrodestra durissimi, è realizzare la grande riforma dell’Italia, la modernizzazione democratica».
Dove il primo non esiste senza il secondo. E il banco di prova rispetto al “fantasma del neocentrismo” - che Mieli definisce «un orrore» con «buona pace» di Liberazione - non si gioca sui temi costituzionali o sulle singole riforme ma sui fallimenti del liberismo, il cuore dello scontro tra moderati e radicali che Bertinotti vuole mutare in sfida, di politica e di popolo. Il Presidente della Camera non entra nel merito di singoli atti di governo, non può. Ma dice una cosa forte e chiara “ai suoi”, l’unico sconfinamento che si concede: «Non infilatevi mai nell’idea che ci possa essere la salvezza chiamando fuori il partito da qualcosa che non ci piace e che il governo farebbe comunque». Ogni riferimento è puramente casuale. «Abbiamo davanti cinque anni di pazienza e determinazione per cambiare il paese, con gradualità e radicalità». E l’alternativa senza alternative si becca l’applausone di pancia della platea.
Sarà un caso, ma si scatena un temporale estivo, umido e denso come l’attenzione di molti per capire «se l’Italia cambia davvero». La scommessa dell’Unione alla prova dei fatti è ancora tutta da raccontare. Non col metro di quanto si è a sinistra oggi o domani, ma con quello del paese, delle mille Italie: «La società italiana non è spaccata in due ma articolata in migliaia di differenze, la verità è che sappiamo troppo poco della quotidianità della gente, bisogna imparare ad ascoltare, tornare all’inchiesta». Per questo la «malattia» del paese, «non va certo ricercata nel corpo costituzionale, una delle poche identità riconosciute, ma in quello politico».
Quando si sbagliano continuamente aspettative e previsioni di voto, c’è qualcosa che non funziona più nel comprendere i nodi di un paese. Domande inevase perché non univoche, come l’operaio del Nord e la giovane del Sud, né classicamente di destra né di sinistra. «La forza del governo Prodi starà nel trovare la convergenza per cambiare il paese». L’esempio? L’amministratore delegato della Fiat, Sergio Marchionne, che spiega ai suoi colleghi imprenditori di Torino come buona impresa non fa rima con licenziamenti: «Questo è un borghese che mi interessa, per dirla con una battuta, perché pone a un livello alto la sfida con il mondo del lavoro, non sulla sua riduzione a zero». Applausi.
Mieli si stupisce e incalza: «Quanti elementi liberali stanno entrando nella cultura di Rifondazione, perché dirsi ancora comunisti?». Dal pubblico interviene un signore in camicia rossa: «I comunisti spaventano ancora la gente, vengono usati come spauracchio». E Bertinotti reagisce con un moto di fastidio in nome delle donne e degli uomini che ha di fronte. «Siamo quelli che hanno interrogato il ‘900 e le sue tragedie con un coraggio e un rigore che non abbiamo sempre riscontrato in chi non si dice più comunista. E poi anche se mi dico post-comunista per quale domani mi batto? Io continuo a battermi perché il capitalismo non sia l’ultimo stadio conosciuto della storia dell’umanità» (e viene giù il tendone).
«Ma ciò vale anche per un liberale rivoluzionario», lo incalza Mieli. «E anche per una femminista, per un ambientalista, per un cristiano rivoluzionario - ribatte Bertinotti - e allora mettiamoci insieme! Non è il nome che farà la discriminazione e non chiederò mai a chi cammina con me di dirsi comunista, perché sono le pluralità, le differenze il motore di questa rivoluzione». «Iniziamo, invece, col mettere in comune le analisi, le inchieste, i problemi, prima delle soluzioni, con tutte le comunità scientifiche e cittadine perché i partiti hanno bisogno di queste forze».
E forse è sempre stato così se la nascita del movimento operaio ha visto Leghe, Case del popolo, Società di mutuo soccorso a organizzare il sentire diffuso. «Questa è la comunità di donne e uomini che scelgono le forme della politica. E nonostante il partito sia una straordinaria comunità di passioni, i partiti non sono più autosufficienti e accrocchi di ceti politici che si mettono d’accordo tra loro sono inutili». Come «in un ritorno al neoclassico», la politica è in mutazione: partito democratico, sinistra europea ... e a destra cosa nascerà?
Ma non c’è più tempo. Quelli seduti per terra cominciano ad anchilosarsi, Sarah Jane Morris sta suonando un improvvisato concerto unplugged in birreria e la notte scende. La sortita di Mieli sulla necessità di portare al tavolo delle decisioni Gino Strada - perché «i pacifisti sono un problema» - e costringere i movimenti a «un patto vincolante per non paralizzare riforme e opere» viene rimandato al mittente. La cooptazione non durerebbe cinque minuti, sarebbe come cadere nel paradosso di movimenti responsabili per le azioni di governo e politici responsabili dell’autonomia di movimento. C’è tempo solo per l’ultima domanda: «Ma è stato un sacrifico rinunciare a questa gente, a tutta la sua vita?». «Sì, ma non nascondo che nell’imparzialità del ruolo istituzionale mi piacerebbe che la gente di sinistra possa dire “quello è uno dei nostri”». » la sfida di un “riformista rivoluzionario”, sempre al limite dell’anti-partito e delle sterzate intellettuali, che vorrebbe tracciare la propria traiettoria nel solco di Lelio Basso e Pietro Ingrao. Giù dal palco sono quaranta minuti di autografi e abbracci.