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Bot dei poveri e bot dei ricchi

Publie le lunedì 27 marzo 2006 par Open-Publishing
3 commenti

Una modifica del modo in cui sono tassati i rendimenti di azioni e obbligazioni è senza dubbio opportuna. D’altronde lo stesso Berlusconi aveva chiesto al Parlamento una delega (legge n. 80 del 2003) per «armonizzare l’imposizione su tutti i redditi di natura finanziaria».

L’attuale regime fiscale infatti favorisce i ricchi a scapito dei poveri e chi possiede per lo più titoli di Stato, rispetto alle imprese. Il 10% più ricco delle famiglie possiede il 40% di tutte le attività finanziarie; il 10% più povero l’1,2%.

Quando lo Stato tassa i cittadini più poveri per pagare gli interessi sul debito pubblico preleva il 23% (l’aliquota minima sui redditi da lavoro) e lo trasferisce per lo più ai ricchi, i quali, sugli interessi che percepiscono, pagano solo il 12,5%. Quest’aliquota favorisce i titoli di Stato anche rispetto al reddito d’impresa che paga il 36% senza contare l’Irap. L’aliquota del 12,5% si applica anche alle stock options che in molte società costituiscono una quota sempre più rilevante del compenso dei dirigenti.

Una banca che ha troppi dipendenti, ad esempio, fa benissimo a retribuire il suo capo del personale con stock options milionarie: se costui riesce a ridurre il numero dei dipendenti, le azioni della banca saliranno, e nulla funziona meglio di questi incentivi. Ciò che è iniquo è che il dipendente prepensionato paghi, sulla sua pensione, il 23%, mentre il dirigente che lo ha mandato a casa solo il 12,5%. La modifica del regime fiscale dovrebbe riguardare tutti i titoli, non solo quelli di nuova emissione.

Titoli identici ma con diversa tassazione segmenterebbero il mercato e ne ridurrebbero la liquidità, che è un fattore cruciale per la trasparenza dei prezzi. L’aumento dell’imposta sui titoli di Stato già posseduti ne ridurrebbe i rendimenti, ma non il prezzo: cioè una famiglia che possiede un Btp (direttamente o attraverso un fondo comune di investimento) riceverebbe una cedola un po’ più bassa, ma il valore di mercato del titolo non cambierebbe.

Infatti la gran parte dei titoli pubblici è detenuta da investitori istituzionali che non pagano la ritenuta: sono costoro a determinare i prezzi. Certo, la famiglia vedrebbe decurtate le sue cedole, una perdita in parte compensata dalla riduzione del prelievo sui conti correnti bancari. Maria Cecilia Guerra (Il Sole 24 Ore, 24 marzo) ha calcolato l’effetto di un’aliquota unica al 20% per famiglie con diversi redditi netti. Una famiglia con un reddito netto di 20 mila euro l’anno subirebbe una perdita (minori interessi sui titoli, in parte compensati dal minor prelievo sui depositi) di 25 euro l’anno circa; l’effetto per una famiglia con un reddito netto di 79 mila euro è di 456 euro l’anno.

I risparmiatori non devono quindi temere una modifica del regime di tassazione: gli effetti sul reddito sono modesti e quelli sul valore dei titoli di Stato pressoché nulli. Se mai dovremmo temere gli effetti - questi sì equivalenti a una patrimoniale - di un governo che non fosse capace di fermare la crescita del debito pubblico. I mercati e le agenzie di rating hanno dichiarato una tregua sino a giugno, quando il nuovo governo presenterà il suo primo Documento di programmazione economica (Dpef). Se non fosse convincente, il premio al rischio sui titoli italiani salirebbe, cioè il loro prezzo di mercato scenderebbe.

Chi ci può far pagare una patrimoniale è un governo che non riuscisse a fermare la crescita del debito, non un governo che rendesse meno inique le aliquote.

27 marzo 2006

Messaggi

  • Tutto (o quasi) quello che vorreste sapere sulla tassazione delle attività finanziarie

    Silvia Giannini
    Maria Cecilia Guerra

    In questi giorni vi sono state roventi polemiche sul futuro della tassazione delle attività finanziarie, ma spesso l’informazione è stata parziale o fuorviante. Proviamo a rispondere alle domande più frequenti e sfatare alcuni luoghi comuni.

    I redditi di capitale sono tassati oggi in Italia? Come?

    I redditi di capitale e diversi (interessi, dividendi e plusvalenze) percepiti da un normale risparmiatore (una persona fisica che non esercita attività di impresa) sono già oggi tassati nel nostro paese, ma con aliquote diverse. Sui depositi e conti correnti bancari e postali e sulle obbligazioni private con scadenza inferiore a diciotto mesi vi è una imposta sostitutiva dell’Irpef, prelevata alla fonte con l’aliquota del 27 per cento. Sugli interessi sui titoli del debito pubblico, sui buoni postali e sulle obbligazioni con scadenza superiore a diciotto mesi, l’aliquota è invece il 12,5 per cento. La stessa aliquota è applicata anche ai dividendi e a tutte le plusvalenze, purché, nel caso di dividendi e plusvalenze azionarie, l’azionista non detenga partecipazioni qualificate (in caso contrario una quota, pari al 40 per cento del loro valore è tassata in Irpef). L’aliquota del 12,5 per cento è applicata al risultato netto di gestione dei fondi comuni e delle gestioni patrimoniali.

    Vi sono buoni motivi per cambiare la tassazione delle attività finanziarie?

    La presenza di due aliquote non ha alcuna giustificazione razionale, né sotto il profilo dell’equità (perché chi ha interessi da depositi bancari o postali dovrebbe pagare di più di chi detiene obbligazioni?), né dal punto di vista dell’efficiente funzionamento del mercato (la tassazione non dovrebbe interferire sulle scelte finanziarie degli individui, che dovrebbero essere guidate solo dalla convenienza economica).

    I motivi per unificare il tutto in un’unica aliquota non sono tanto quelli di recuperare gettito, quanto quelli di rendere più coerente e razionale il sistema di imposizione diretta dei redditi.

    Quale sarebbe il livello ottimale per un’aliquota unica sui redditi finanziari?

    Non vi è un livello ottimale. La scelta va fatta tenendo conto del tipo di sistema impositivo che si vuole adottare. Se si volesse adottare, ad esempio, un’imposizione non sul reddito ma sul consumo (“imposta sul reddito spesa”), tema spesso dibattuto nella letteratura economica, i redditi di capitale dovrebbero essere esentati. Nessun paese si è mosso però finora in questa direzione.

    I redditi di capitale sono spesso tassati con regimi proporzionali, fuori dal regime progressivo che grava sui redditi di lavoro. Mediamente quindi sono meno tassati rispetto ai redditi di lavoro.

    La scelta di una aliquota intermedia, fra le due attualmente esistenti (12,5% e 27%) è motivata dalla volontà di ridurre la distanza fra il prelievo sui redditi finanziari, da un lato, e quello sui redditi di lavoro (tassati con le aliquote Irpef dal 23 al 43 per cento) e delle società di capitali (tassati con l’Ires al 33 per cento e l’Irap al 4,25 per cento), dall’altro.

    Come è la tassazione negli altri paesi europei?

    Per quanto riguarda gli interessi il modello di tassazione prevalente nella Unione Europea non è più l’imposizione ordinaria (imposta personale e progressiva sul reddito), ma un insieme variegato di regimi sostitutivi e separati. Nell’Europa a 25, gli interessi rimangono assoggettati al regime ordinario di tassazione solo nel Regno Unito e Slovenia e, per opzione del contribuente, in Belgio, Francia e, in parte, in Germania.

    I regimi di tassazione separata o sostitutiva prevedono generalmente una sola aliquota di tassazione (anche se in molti paesi, soprattutto fra i nuovi entranti, sono previste esenzioni per varie tipologie di interessi) il cui livello varia fra il 10 e il 35 per cento, ma è generalmente non inferiore al 15-20 per cento (ad esempio, 27 per cento in Francia, 31,65 per cento in Germania al di sopra di una soglia esente, dal 20 al 40 per cento nel Regno Unito, 28 per cento in Finlandia).

    Nei paesi nordici, che applicano sistemi cosiddetti di dual income tax, l’aliquota sui redditi di capitale coincide con l’aliquota base dell’imposta personale progressiva sul reddito.

    Fissare una aliquota superiore al 12,5 per cento può provocare una fuga di capitali?

    L’enfasi posta su questa eventualità va sicuramente ridimensionata.
    In primo luogo, perché l’aggravio medio per il contribuente sarebbe limitato, in quanto l’aliquota sui depositi bancari e postali si riduce corrispondentemente.
    In secondo luogo, perché anche se si investe all’estero, occorre pagare le imposte in Italia, con le stesse aliquote applicate ai redditi di capitale interni. Se non lo si fa, è perché si evade. Ma vi sono strumenti crescenti di controllo e contrasto di questo tipo di evasione. Vi è un sistema di monitoraggio interno sui movimenti di capitale da e per l’estero. Dal luglio 2005 è poi in vigore una direttiva europea che prevede lo scambio di informazioni automatico fra paesi sul pagamento di interessi a contribuenti europei. I paesi che non vi hanno aderito, applicano una ritenuta alla fonte del 15 per cento, che aumenterà progressivamente fino al 35 per cento, con retrocessione del 75 per cento del gettito al paese di residenza del percettore. Anche importanti paesi, non appartenenti alla Unione, hanno aderito all’accordo e operano una ritenuta alla fonte ai livelli indicati (per esempio, Svizzera e Liechtenstein), o concorrono allo scambio di informazioni (come Monaco e San Marino). Certo, sfuggendo al monitoraggio e cioè utilizzando canali illegali, si può sempre andare alle Cayman o altro paradiso fiscale in cui la direttiva non si applica ma ci si va già adesso e, semmai, non solo per risparmiare il 12,5 per cento di imposta.

    Se si aumentasse l’aliquota sugli interessi dei titoli pubblici non si correrebbe il rischio di un aumento dei rendimenti lordi che lo Stato deve garantire ai sottoscrittori, con il risultato che il Governo pagherebbe con la mano sinistra quello che ha raccolto con la mano destra?

    I titoli del debito pubblico sono per lo più detenuti da soggetti esteri (55 per cento) e per il 20 per cento da banche e imprese. Per questi soggetti l’aumento dell’aliquota del 12,5 per cento non avrebbe alcun effetto. I risparmiatori (persone fisiche residenti) per i quali l’aumento dell’aliquota del 12,5 per cento ha effetto detengono meno del 16 per cento dei titoli pubblici (il restante 9 per cento è nelle mani dei fondi comuni). Difficilmente la loro domanda sarà in grado di influenzare le condizioni di offerta, e ciò a maggior ragione a seguito del progressivo allineamento dei tassi di interesse lordi fra paesi, reso possibile dall’adesione del nostro paese all’Unione monetaria europea. Non si creerebbe una convenienza a modificare la composizione del portafoglio, perché la nuova aliquota sarebbe applicata ai redditi di tutti i tipi di attività finanziaria.

    È possibile che un’eventuale riforma delle aliquote si applichi in modo retroattivo?

    No. Eventuali nuove aliquote si applicherebbero solo ai nuovi redditi di capitale. Dunque, l’imposta non sarebbe retroattiva. Anche per quanto riguarda le plusvalenze, come si è fatto in passato, per evitare la tassazione retroattiva si calcolano le plusvalenze maturate fino al momento dell’introduzione della nuova aliquota in modo da assoggettare al nuovo regime solo quelle maturate dopo tale data.

    Che differenza c’è fra tassare anche i redditi futuri di titoli già oggi in circolazione o limitare la tassazione solo ai redditi derivanti da titoli emessi dopo una eventuale riforma?

    Se si limitasse la nuova aliquota ai soli titoli emessi dopo l’entrata in vigore della riforma si creerebbero differenze di trattamento tra titoli di vecchia e di nuova emissione, facendo un bel regalo in conto capitale (e cioè nella valutazione dei titoli) a chi ha titoli più vecchi, come è puntualmente avvenuto nel 1986, al momento dell’introduzione della tassazione sui titoli pubblici. Alla differenza attuale per durata del titolo, se ne sostituirebbe un’altra per data di emissione. Inoltre questo periodo di transizione si protrarrebbe per circa un trentennio, creando segmentazioni sui mercati secondari. Diventerebbe più complessa anche la tassazione dei fondi comuni, tassati sul risultato di gestione. Per motivi di equità e di efficiente funzionamento dei mercati è dunque decisamente preferibile estendere la riforma anche ai titoli già in circolazione.

    Aumentare la tassazione sui titoli pubblici significherebbe colpire i piccoli risparmiatori?

    I titoli pubblici sono una componente minoritaria del risparmio delle famiglie; rappresentano secondo l’ultimo bollettino economico della Banca d’Italia solo il 5,6 per cento delle attività finanziarie detenute dalle famiglie. Per affrontare il problema dell’equità della riforma proposta occorre considerare l’insieme di queste attività.

    Quali sono allora gli effetti redistributivi della riforma?

    Per rispondere a questa domanda occorre tener presente che la ricchezza finanziaria è nel nostro paese molto concentrata. Sulla base dei dati ricavabili dall’ultima inchiesta della Banca d’Italia sui redditi e la ricchezza delle famiglie italiane, corretti per tener conto delle note sottostime che emergono in questo tipo di rilevazioni campionarie, si evince che il 10 per cento delle famiglie più ricche possiede, da solo, il 40 per cento dello stock di attività finanziarie (con l’esclusione di riserve assicurative e fondi pensione) dell’insieme delle famiglie, contro il solo 1,2 per cento posseduto dal 10 per cento delle famiglie più povere. Uniformare le aliquote a un livello intermedio (ad esempio, il 19-20 per cento) avrebbe quindi sicuramente effetti redistributivi positivi.

    Si può fissare una esenzione per i piccoli risparmi?

    Generalmente l’esenzione ai piccoli risparmiatori viene concessa nell’ambito di una tassazione personale, non di una tassazione sostitutiva, come la nostra, perché richiede di conoscere i redditi finanziari complessivamente ricevuti dal singolo risparmiatore. È comunque possibile studiare forme di esenzione, attraverso meccanismi di opzione per la tassazione ordinaria o di certificazione dell’imposta pagata da parte degli intermediari.

    Quanto sarebbe il gettito che si potrebbe ottenere da una riforma di questo tipo?

    Le stime del gettito atteso vanno prese con molta cautela, in quanto in larga parte dipendono dalle ipotesi che si fanno circa la rilevanza delle plusvalenze, che sono però una componente con un andamento molto erratico. Vi è poi difficoltà a stimare la tassazione dei fondi comuni, i quali stanno ancora sfruttando, in compensazione, ingenti crediti di imposta maturati in passato, a seguito delle minusvalenze conseguite sui mercati azionari.

    Si parla comunque di una cifra compresa fra i 2,5 e i 4,2 miliardi. Di questi, meno di 400 milioni arriverebbero dalla tassazione dei titoli pubblici.

    Ma se la nuova aliquota fosse applicata in modo uniforme a tutti i redditi di capitale e diversi, inclusi dividendi e plusvalenze azionarie, non si avrebbe un fenomeno di doppia imposizione, posto che dividendi e plusvalenze azionarie possono avere già subito un primo livello di tassazione in capo alla società?

    Già oggi vi è doppia imposizione, ma questa aumenterebbe se ci si limitasse ad aumentare l’aliquota del 12,5 per cento anche sui dividendi e sulle plusvalenze azionarie. Una volta il problema non si poneva, perché c’erano delle compensazioni, che riducevano la tassazione complessiva (societaria e personale) sugli utili di impresa: la dual income tax in capo alla società e il credito di imposta ai dividendi, in capo al socio. Oggi questi correttivi non ci sono più. Se si vuole evitare di penalizzare le società che si finanziano con capitale proprio sul mercato dei capitali, occorrerà una riforma più organica che coinvolga anche la tassazione del reddito delle società. E’ questo un aspetto spesso trascurato nel dibattito, che meriterebbe maggiore attenzione .

    www.lavoce.info

    • Ho letto con molto interesse il vostro articolo e vorrei intervenire anch’io nel dibattito per precisare alcune questioni:

      1)non sono d’accordo con chi sostiene che l’aumento della tassazione dal 12,5% al 20% scoraggi gli investitori istituzionali. Ricordo che le società (tra cui i cosiddetti "investitori istituzionali") non sono soggette alla cedolare secca del 12,5%. Quindi, come giustamente affermano le autrici, la riforma non c’entra nulla con questi soggetti e con i rating dello Stato Italia (abbastanza divertente questa definizione...)

      2)se fosse per me non introdurrei neanche la distinzione fra piccoli e grandi patrimoni: la tassazione è proporzionale e in quanto proporzionale chi ha di più paga di più, chi ha di meno paga di meno. Esempio: investo 10.000euro in bot e mi rendono il 2% lordo. Cedola staccata 200euro. tasse pagate con la vecchia tassazione 25 euro; tasse pagate con la nuova tassazione 40euro. Sono così scandalosi questi 15 euro in più, considerando che se invece di una cedola fosse una retribuzione da lavoro dipendente avremmo pagato il 23% nella migliore delle ipotesi?

      3)siamo sicuri di questo travaso di risorse dai titoli di investimento ai conti correnti a seguito della nuova tassazione?chi parla di avversione al rischio, per piacere, faccia i conti: preferisce (a parità di rischio, visto che i titoli di stato sono universalmente considerati risk-free) investire 10.000euro in bot/cct/... e guadagnare, invece di 175euro, 160euro (vedi esempio sopra) o lasciarli sul conto e guadagnare lo 0%?

      Perchè questi sono i termini reali della questione .....

      Keoma

  • DOVE REPERIRE LE RISORSE ?

    Per dar corso alle promesse fatte in campagna elettorale e alla necessità di colmare i buchi di finanza pubblica, il futuro governo dovrà porsi il problema del reperimento delle risorse necessarie. A questo punto la domanda che viene spontanea è: dove troverà il governo i mezzi per finanziare l’intera operazione? Le vie sono poche, strette e molto accidentate. Dove pescare dunque le risorse?

    1 - Nel mare magnum della spesa corrente, 2 - nel patrimonio pubblico 3 - in quello dei privati contribuenti.

    Quindi:

     Tagliare la spesa corrente nelle sue varie configurazioni: sprechi e privilegi, sanità, acquisti, consulenze, pubblica amministrazione.

     Vendere parte del patrimonio pubblico: strade, spiagge, edifici e cartolarizzare sia crediti inesatti (Inps) che proventi futuri.

     Attingere al patrimonio privato (reddito e/o capitale) con riferimento a nuove imposte sul reddito, imposta patrimoniale, aumento della tassazione delle rendite finanziarie, condoni, lotta all’evasione fiscale.

    Tagliare la spesa corrente. Parlare, come sempre, di tagliare gli sprechi rientra nel rituale politico di ogni governo, una dichiarazione assolutamente condivisibile che però rimane, salvo qualche sforbiciata qua e là, una pura dichiarazione di intenti. Se il governo parla, a ragion veduta, di sprechi ci si chiede come mai in cinque anni non sia riuscito ad eliminarli e come sia credibile che ci riesca in futuro. Anzi, a proposito della pubblica amministrazione, è doveroso prevedere, in applicazione della devolution, un aumento della burocrazia a meno che non si pensi che - assieme alle competenze - i dipendenti ministeriali romani verranno trasferiti nelle varie regioni del paese.

    Vendere parte del patrimonio pubblico. La vendita dovrebbe essere finalizzato alla diminuzione del debito piuttosto che alla realizzazione degli obiettivi di politica finanziaria corrente. C’è una certa contraddizioine nel comportamento del nostro governo: da un lato esibisce un inaccettabile ottimismo, dall’altro intende liquidare il patrimonio del paese confermando la gravità della situazione. Vendere palazzi, strade e spiagge, incassare in anticipo (cartolarizzazioni) futuri proventi significa togliere ossigeno ai bilanci dei prossimi anni. Per capirci vendere strade e palazzi adibiti a uffici pubblici significa incassare oggi e pagare affitti onerosi per gli anni a venire. Quello che stupisce è che si raschia il fondo del barile facendo credere che in realtà il contenitore sia ancora pieno.

    Attingere al patrimonio (reddito e/o capitale) dei privati contribuenti. Se si esclude l’aumento delle imposte dirette e il ricorso agli odiosi condoni, rimane in piedi l’aumento delle imposte indirette, la tassazione della rendita finanziaria (di cui si è già parlato diffusamente) a, la possibilità (sempre denegata) di una tassa patrimoniale. In momenti così critici non è una proposta fuori dal mondo quella di una patrimoniale dove ognuno sia chiamato a pagare in proporzione alla propria ricchezza con l’esclusione delle famiglie a basso reddito. Una specie di contributo di solidarietà. Un sacrificio una tantum che si chiede ai cittadini più abbienti in considerazione delle difficoltà economiche oggettive in cui versano i conti pubblici.

    Anche l’IVA (imposta sul valore aggiunto), dicevamo, entra nella rosa dei provvedimenti che il nuovo governo dovrà affrontare. In materia ci sono due correnti di pensiero. Chi la vorrebbe aumentare, chi ne richiede un taglio. In ottiche diverse hanno ragioni entrambi. Chi sostiene la formula dell’aumento (pur non dichiarandolo in modo esplicito in periodo elettorale) lo giustifica con la necessità di recuperare "entrate" per la copertura di spese "sociali" annunciate con grande enfasi. Chi suggerisce di diminuirle conferisce un interesse prioritario all’aumento della crescita della domanda, cioè dei consumi. E’ l’eterno problema: viene prima l’uovo o la gallina? Sono cioè i maggiori consumi derivanti dalla diminuzione dei prezzi conseguenti al taglio dell’IVA che mettono in moto l’economia e quindi, a valle, le entrate fiscali con le quali far fronte alle spese sociali? Oppure è il maggior prelievo fiscale destinato alla copertura di spese sociali che - aumentando il potere di acquisto delle classi beneficiarie - generano nuovi consumi? Entrambi i percorsi sono validi. La scelta dipende dai vincoli di bilancio pubblico in cui ci si trova a operare. Nel nostro caso le vie sono entrambi impervie. Meglio dunque lasciare l’aliquota IVA al livello attuale e puntare sulla crescita dell’offerta. Lo stimolo fiscale cioè deve essere indirizzato alle imprese per favorire la ricerca, l’innovazione e, in ultima analisi, la competitività.

    Certo che la via maestra rimane la lotta all’evasione come dice persino l’on Bruno Tabacci dell’ Udc : "L’unico modo (per reperire le risorse necessarie ndr) è la lotta all’evasione e all’elusione. Un paese la cui economia è per un quarto in nero non è in grado di reggere e neanche di governare". Ma l’evasione è come l’idra, intesa (secondo il Devoto Oli) come "una degenerazione morale e civile la cui forza e diffusione rendono disperati i tentativi di annullamento o circoscrizione".

    Maurizio Carra