Home > Bush, Kerry e l’Europa
di Piero Sansonetti
Martedì gli americani sceglieranno il loro presidente. In realtà non è proprio così: un numero abbastanza ridotto di cittadini della Florida, dell’Ohio e della Pennsylvania sceglieranno il presidente degli Stati Uniti. Cioè l’uomo che avrà un ruolo decisivo nel governo del mondo nei prossimi quattro anni. Il sistema elettorale degli Stati Uniti è così macchinoso e cervellotico che alla fine produce questo risultato: non ha nessuna importanza, ai fini del risultato finale, come voterà la maggioranza degli americani; conta solo come voteranno gli elettori di quei tre Stati. In tutto circa 7 milioni di elettori. Chi riuscirà ad aggiudicarsi due di quei tre Stati sarà Presidente.
Se io fossi un elettore americano voterei per Kerry. Però a me non piace il programma di Kerry e mi fanno inorridire alcune sue trovate elettorali. Come quella di ieri: «Vi prometto che ucciderò Bin Laden». Sembra la dichiarazione di un "Bounty killer", cioè di uno di quegli avventurieri dell’ottocento che di mestiere si mettevano alla caccia dei ricercati e poi li facevano secchi a fucilate e intascavano la taglia (ci sono tanti film con Clint Estwood che raccontano storie così). A me piace il programma politico di Ralph Nader, che ha un forte impianto ambientalista e che è abbastanza avanzato sul piano dei diritti sociali. Però, se fossi americano, non voterei Nader. Perché? Perché sono uno di quelli che ritiene che il voto debba essere utile, cioè che sia uno strumento, anche se piccolissimo, per pesare sui governi. E so che un voto a Nader è buttato da quel punto di vista, cioè è solo un voto di testimonianza, perché Nader non ha nessuna possibilità di essere eletto, e quindi dopo le elezioni tornerà a fare il professore. E so che dando il voto a Nader si leva un voto a Kerry, e il voto levato a Kerry potrebbe essere quello decisivo per la vittoria di Bush. Siccome penso che bisogna fare qualunque cosa sia possibile per impedire la rielezione di Bush, voterei Kerry. Eppure io so benissimo che l’America governata da Kerry non sarebbe (speriamo: non sarà) una America buona, avanzata, capace di svolgere un ruolo positivo nella politica internazionale. Sarebbe un paese fortemente liberista, dominato dal mercato, asservito alle lobby, aggressivo e guerrista. E allora? So che sarebbe un po’ meno dominato dal mercato, un po’ meno aggressivo, un po’ meno guerrista dell’America di Bush. Per questo voterei Kerry. E’ tutta qui la scelta: tra un grande disastro e un disastro.
In America c’è parecchia gente che la pensa come me, e che voterà Kerry per gli stessi motivi. Una democrazia nella quale un buon numero di elettori sono costretti a non votare il candidato che preferiscono ma a votarne uno del quale condividono poco e niente, è una democrazia nella quale c’è qualcosa che non va. Cosa è che non va? La democrazia americana è un sistema che serve a eleggere i governanti e a prendere le decisioni, ma non ha più niente di rappresentativo. Proprio così: non è una democrazia rappresentativa.
E’ evidente che oggi in tutto l’occidente si pone la questione della crisi della democrazia rappresentativa. I sistemi elettorali maggioritari hanno portato a un fallimento. Anche in Italia: la fine del proporzionale non ha prodotto un miglioramento nella qualità dei governi, e invece ha avuto come conseguenza un crollo della rappresentanza e un gigantesco allargamento del divario tra la politica e il popolo.
Il modello politico americano, che evidentemente è in crisi, sta però, paradossalmente, ottenendo dei grandissimi successi proprio qui da noi in Europa. Si sta estendendo. L’Europa, che nella sua secolare tradizione e saggezza politica potrebbe essere una alternativa credibile al modello americano, un contrappeso, sta invece precipitosamente rinunciando a se stessa e sta accettando di trasfornarsi in "America Minore". Sia sul piano politico che qu quello sociale. La Costituzione europea, che molti giornali - anche i giornali del centrosinistra - hanno presentato come una grande conquista, è la prova di questa americanizzazione. E’ una costituzione lontanissima dai principi delle grandi costituzioni nazionali, come quella italiana del ’47, che pongono l’uomo e il lavoro al centro degli interessi generali e della civiltà. La Costizione europea mette il mercato e la competitività al centro di tutto. Assume il capitalismo come orizzonte assoluto. E celebra il suo trionfo accompagnata da nuove norme, direttive, piccole leggi, che aggravano ancora la situazione. Come per esempio quella direttiva "Bolkenstein" della quale noi abbiamo parlato nei giorni scorsi (solo noi ne abbiamo parlato tra i giornali italiani) che in sostanza consiste nella abolizione di tutte le regole che difendono i diritti dei lavoratori nei singoli Stati dell’Unione, e nella definizione di nuove regole che assegnano alle imprese la totale discrezione sul diritto del lavoro e sui suoi costi.
Come si affrontano questi problemi? Cosa si può fare per impedire che il modello europeo sia smantellato e che l’unipolarismo, e il pensiero unico, dilaghino senza più trovare ostacoli? E’ questa la domanda cruda che oggi le sinistre europee e italiane si trovano di fronte. Non possono rispondere solo con un’invettiva. Non serve a niente. Si devono porre il problema di una lotta politica che porti a dei risultati concreti. Che scompagini l’americanismo. Altrimenti i danni possono essere incalcolabili. Diciamolo con una formula semplice: devono porsi il problema del governo, cioè di come arginare e frenare le politiche neoliberiste che hanno portato alla firma del trattato di Roma.




