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C’è un limite all’autonomia
di Alberto Burgio
In effetti è difficile dare torto a Piero Sansonetti e a molti redattori di Liberazione che hanno preso parte a questa discussione sul ruolo e le sorti del giornale. Reclamano autonomia: come non essere d’accordo? Chi se la sentirebbe di negare che l’autonomia sia un bene prezioso? Chi sarebbe tanto stravagante da non aspirare alla propria autonomia o tanto ingiusto da conculcare quella altrui? Le rivendicazioni del direttore e dei giornalisti di Liberazione sono di per sé inoppugnabili. C’è solo un piccolo problema, che ha a che fare, per dir così, con il principio di realtà.
Il problema è, banalmente, questo: chi risponde delle conseguenze dell’autonomia? Basta poco, infatti, per accorgersi che qualcuno, prima o poi, dovrà renderne conto. Ogni azione produce effetti e ogni effetto implica responsabilità. Crescendo, ciascuno lo impara (dovrebbe impararlo), spesso a proprie spese. Non si tratta di una scoperta piacevole, ma è un’esperienza indispensabile a diventare adulti.
Ne deriva un corollario: per quanto possa dispiacere, l’autonomia ha sempre un limite. Per un giornale, nei (rarissimi) casi - uno di questi è "il manifesto" - in cui si mantiene da sé, il limite è posto immediatamente dal mercato. Quand’è così, c’è poco da discutere. Devi farcela guadagnandoti giorno per giorno la fiducia di una quantità di lettori sufficiente a far quadrare i bilanci. Immagino non sia uno scherzo, soprattutto di questi tempi.
Altrimenti il limite è costituito dalla proprietà. Così è per "Liberazione", proprietà del Prc (al quale difatti si chiede di fronteggiare una situazione finanziaria disastrosa). In questi casi è necessario che tra giornale e proprietà vi sia accordo: un modo di convivere che concili le legittime istanze di autonomia dei giornalisti con le non meno legittime esigenze della proprietà (deve pur esserci una ragione per farsi carico di spese, rischi ed eventuali perdite).
I limiti dunque esistono, salvo forse che nel Paese delle meraviglie. Del resto, fino a qualche tempo fa tutti sembravano averne coscienza. Fino al 2006, la linea politica di "Liberazione" era sufficientemente armonica rispetto a quella del partito o, meglio, della sua maggioranza. Si può discutere se, nel riflettere la linea della maggioranza di Venezia, il giornale tenesse adeguatamente conto anche del dibattito interno al Prc.
Sta di fatto che, sino a un paio di anni fa, tra partito e giornale le cose sono andate abbastanza lisce (il che non toglie che si fossero verificate di tanto in tanto fisiologiche divergenze e frizioni). Poi qualcosa è successo.
Molto semplicemente, si è cominciato a discutere del ruolo di Rifondazione comunista e delle sue sorti. Se ne è teorizzato il «superamento». Si è sostenuto che è ormai tempo di piantarla col comunismo. Si è giunti a dire che essere o meno comunisti è una questione intima e che «comunismo» è parola «indicibile» (il che in italiano - linguaggi privati a parte - pare significhi «impronunciabile» perché impresentabile). Da quando è cominciata questa discussione, "Liberazione" ha cambiato partita.
Nel sacro nome dell’autonomia, si è subito schierata con coloro che sostenevano la necessità di «andare oltre Rifondazione», contro la parte (già maggioritaria) che difendeva il partito. Durante il Congresso di Chianciano è entrata nel dibattito come parte in causa, appoggiando la proposta della Costituente della sinistra e attaccando (o discriminando) le altre posizioni. Ancora dopo il Congresso ha proseguito questa sua battaglia, nonostante le tesi "oltriste" fossero state battute e il partito si fosse dato un’altra linea, nel segno del rilancio del Prc, quindi del rifiuto di confluire in un nuovo partito post-comunista.
Ora, sembra evidente che l’esercizio dell’autonomia, non più nel quadro di un rapporto armonico con il partito ma - al contrario - in una pratica di opposizione frontale, qualche problema lo crea. Per un motivo semplicissimo: finché c’è accordo, si tutelano entrambe le parti. Si salva l’autonomia (relativa) del giornale, e si rispetta al tempo stesso il diritto del partito di ottenere dal giornale sostegno alla (e un’adeguata rappresentazione della) propria linea politica. Ma quando l’accordo non c’è più, anzi è escluso a priori, allora una parte soltanto (il giornale) afferma le proprie posizioni, mentre l’altra (il partito, ridotto a nuda proprietà) può al più sperare che le sue scelte vadano a genio al giornale: dal quale non può pretendere nulla, pena l’infamante accusa di violarne l’autonomia.
È chiaro che così il giocattolo non funziona. Questa asimmetria non è sostenibile, poiché pone la redazione e soprattutto la direzione del giornale in una posizione che non ha eguali. Tutti - a cominciare dal segretario del partito, pure eletto da un Congresso - debbono tener conto del contesto che consente loro di esistere e di operare. Debbono costruire mediazioni, fare sintesi. E’ un principio generale e non derogabile, al quale nessuno dovrebbe tentare di sottrarsi.