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CLASSI DIRIGENTI IN ITALIA

Publie le domenica 20 maggio 2007 par Open-Publishing

Elite e classi dirigenti in Italia (Laterza, Bari, 2007) non è un’indagine curata da qualche centro sociale o l’analisi di certi “cattivi maestri” degli anni Settanta. L’ha realizza un’équipe coordinata dal professor Carboni, docente presso la facoltà di Economia “Giorgio Fuà” di Ancona. Sentitene le premesse: “… a governare oggi il Paese (l’Italia, si parla dell’Italia, ndr) non sarebbero i migliori ma i ricchi e i raccomandati. Carente nella guida, maschile, centro-nordista, poco meritevole, debole in competenza” ecco come appare l’élite dirigente nazionale.
Scoperta dell’acqua calda, diranno i più. Certo, ma una rivelazione circostanziata da dati d’indagine che apporta argomenti fuori dai luoghi comuni tacciabili d’un qualunquistico malpancismo.

Fatti, dunque, esposti e dimostrati. Partiamo dall’individualismo amorale, che secondo il professor Carboni porta la nostra élite a curare esclusivamente “i propri interessi personali come è dimostrato dalla lievitazione fantastica in questi ultimi quindici anni dei compensi dei manager apicali, dei politici, dei professionisti”. E i meccanismi di formazione e selezione delle élite puntano al reclutamento e alla cooptazione di amici fedeli. Non può che seguirne un grido di dolore che denuncia come i nuovi ingressi nelle stanze dei bottoni siano contrassegnati non da competenza, meriti e talento bensì da fedeltà. Si è fatta largo e ingigantita una schiera di yesman interessati, furbi per sé e obbedienti al Sistema che creano un circolo vizioso e viziato, capaci solo di riproporre un “meccanismo assistito” che blocca lo scenario e non lo evolve verso un’azione efficace di buongoverno e di concorrenzialità della nazione. A fronte delle molteplici, velleitarie chiacchiere di politici (dell’intero Parlamento) e soprattutto dei rappresentanti economico-finanziari lo scenario prossimo venturo vedrà il Belpaese scalzato dall’assise dei grandi – G7 o G8 che sia -. Cina, India e Brasile spingono e presto potranno sostituire potenze occidentali consolidate. E l’Italia, che stenta a rinnovarsi e non attua un sostegno a quanto ha acquisito nel tempo, rischia moltissimo.

Gerontocomio maschile

Uno dei motivi del ritardo delle menti è rappresentato da un nucleo che perpetua se stesso, dieci anni or sono erano cinquantenni, nel 2004 sono sessantenni e settantenni e si può sospettare che sia un nocciolo duro permanente orientato ad autopromuoversi e autopreteggersi. E’ un dato di fatto incontrovertibile che nel quindicennio che va dal 1990 al 2004 la leadership manageriale abbia registrato un calo vistoso di leader di provenienza economica (passati dal 47,3% al 17,8) a vantaggio di quelli che giungono da ambienti culturali, professionali e politici, saliti dal 27 al 42%. Viceversa il potere e l’ingerenza del massimo organismo imprenditoriale – la Confindustria – sono accresciuti facendo segnare un sensibile aumento degli imprenditori direttamente impegnati in politica (dal 2 all’8%).
E qui davvero Berlusconi ha fatto scuola, attuando la versione fai da te di quel che fino a un ventennio fa e per oltre un secolo si era ricevuto dalla politica e dal Parlamento. Quelle garanzie economiche basate su sostegni, protezioni, commesse statali con cui l’imprenditoria nazionale fu svezzata, come ben descrive il lavoro ormai pluritrentennale ma sempre valido dello storico statunitense Richard Webster (“L’imperialismo industriale italiano”, Einaudi, Torino, 1974).
Una nota tristemente scontata è quella che vede ai vertici delle istituzioni politiche la scarsissima presenza femminile, che colloca l’Italia in ultima posizione in molte graduatorie europee e al 48° posto nel mondo fra le democrazie rappresentative. Dopo Germania e Austria ma anche dopo Costa Rica, Monzabico, Uzbekistan.

Più istruiti ma provinciali

La maggiore istruzione (almeno sulla carta) dei ceti dirigenti è un trend sempre dell’ultimo quindicennio, con una percentuale di laureati che tocca l’87%. Il “partito dei giuristi” fa da padrone col 21% di dottori in legge, avvocati e magistrati nei posti di comando, seguiti dagli umanisti mentre sempre in ribasso è il ruolo dei poteri economici.
Altro volto del potere è l’ubiquità: un terzo delle élite italiane svolge una seconda attività e vista la provenienza di parecchi manager (cultura, professioni, politica) tutto ciò non rappresenta altro che una conferma. Centri di potere sono soprattutto il Nord-ovest e Roma, città in cui un terzo dell’élite si è stabilita. Mentre il Sud rappresenta un’area geografica da cui provengono più manager che dal Centro o dal Nord-est. Proprio il Nord-est non ha mostrato di saper tramutare in potere esplicito la spinta economica sviluppata negli ultimi trent’anni, le concentrazioni a Venezia, Trieste, Padova di alcuni soggetti non smentiscono la tendenza anzi confermano come il potere sia sempre più una faccenda metropolitana, visto che nella gestione degli affari Roma è seguita da Milano.

Circoli di Potere

Dal canto suo la dirigenza pubblica mostra d’aver perso il contatto diretto con la popolazione che interrogata su di essa appare apertamente scontenta dell’operato. La fiducia nei vertici della Pubblica Amministrazione non supera il 4%, quest’ultimi appaiono come un corpo autoreferente e odiosamente chiuso. Una vera e propria casta con privilegi per sé e i famili; una classe dirigente per giunta costosa che incide pesantemente sulla finanza pubblica. E se nella tradizione del malcostume nazionale c’è la nobile denuncia del Guicciardini attorno al “proprio particolare” perseguito da chi detiene il Potere, nei giorni nostri l’esasperazione del Sistema ha raggiunto il parossismo per un senso civico assolutamente smarrito e una moralità in caduta libera. Con gli scandali crescenti (fondi per il terremoto dell’Irpinia, P2, Tangentopoli) il ceto politico nazionale s’è giocato da tempo la propria credibilità mostrando la meschina propensione a intascare personalmente denaro pubblico anziché utilizzarlo per la comunità.
Fra le lobbies che spartiscono il potere quella culturale è assai nutrita e vede in testa gli accademici (ancora una volta principalmente chi proviene da studi di diritto) anche se, con l’irruzione nel costume quotidiano dei talk show televisivi, la categoria dei giornalisti ha assunto presenza e centralità crescenti introducendo con gli ancorman e gli opinion maker figure ingombranti più autoreferenziali che autorevoli. Un’altra categoria in crescita esponenziale sono gli scrittori che comunque svolgono a latere occupazioni nelle case editrici, nei giornali, nell’organizzazione di eventi.

Più passato che futuro

Ripercorrendo le teorie weberiane sul potere la definizione del medesimo come “possibilità di un singolo o d’un gruppo di realizzare un’azione sociale secondo la propria intenzionalità” avvicinano passato e presente. Mentre se si getta lo sguardo sulle fonti del potere date da: ricchezza (economia), prestigio (cultura), sapere (competenza) le prime due fanno letteralmente da padrone. Inoltre nell’attuale società della comunicazione la notorietà ha assunto una funzione di affermazione pari e a volte superiore a ogni altro aspetto mettendo in pericolo la stessa democrazia con possibili forzature populistiche rese semplici dall’uso e l’abuso dei media.
Mentre una vera classe dirigente accanto alla capacità di gestione e consenso dovrebbe mostrare prevedibilità del futuro e volontà di cambiamento, occupandosi di riformare più o accanto al sistema elettorale quello civico e morale dell’intera collettività.

Enrico Campofreda, 18 maggio 2007