Home > CREATE NUOVI MONDI, NUTRIRETE IL CERVELLO
di Wu Ming 2, apparso su L’Unità del 13 gennaio 2007
Tutto quello che fa male ti fa beneIn un recente articolo pubblicato su queste pagine, Wu Ming 1 ha fatto riferimento all’ultimo saggio di Steven Johnson, Tutto quello che fa male ti fa bene (Mondadori, Strade Blu, 2006). La tesi fondamentale di questo libro è che la cultura pop, negli ultimi trent’anni, abbia nutrito i cervelli con una dieta così portentosa da produrre un aumento costante delle nostre capacità cognitive e dei nostri Quozienti di Intelligenza. L’esatto opposto dell’opinione comune: televisione e videogiochi sono l’oppio dei popoli, la società di massa tende ad appiattire l’encefalogramma degli individui, se un prodotto culturale si rivolge al grande pubblico dev’essere per forza stupido, piatto, livellato al ribasso pur di accontentare il volgo.
A ben guardare, prima ancora dell’ipotesi, a essere inedita è la premessa metodologica dell’intero libro: mettiamo da parte il contenuto, dice Johnson. Il punto non è se Lost sia di destra o di sinistra, arte o spazzatura. Può anche darsi che i prodotti della cultura di massa siano ormai un inferno di immoralità e abiezione, in qualsiasi settore; di certo, sono sempre più complessi e diversi, ricchi di sfide per la mente, capaci di sviluppare il nostro desiderio innato di risolvere problemi (e non di narcotizzare i neuroni con un ambiente privo di stimoli). In una parola: intelligenti.
Tutto questo non dipende dallo spirito filantropico di chi produce e vende intrattenimento. Il fatto è che una serie televisiva, un film, un videogioco o un reality incassano di più se hanno trame intricate e spiazzanti, se stimolano discussioni, pongono interrogativi, lasciano spazio all’interpretazione e alla curiosità. Johnson suggerisce che due siano i principali motori di questa corsa al rialzo: i videoregistratori e la comunità dei fan.
Trent’anni fa il principio guida di un canale televisivo era minimizzare il dubbio, non suscitare obiezioni, imbastire una programmazione innocua. Nessuno spettatore aveva la possibilità di rivedere una puntata del suo telefilm preferito. Perdere un episodio di Spazio 1999 era come perdere la partita di calcio: entrambi erano eventi unici e irripetibili. Oggi, al contrario, è tutto un ripetere. I canali a pagamento ripropongono le serie a ciclo continuo. Se la trama di Lost sfida il mio cervello come un labirinto, è perché ovunque mi volti trovo gomitoli di filo d’Arianna: posso registrare le puntate e rivedere i passaggi più oscuri, comprare il cofanetto della serie, scaricarla dalla Rete, dare un’occhiata ai forum di discussione dedicati e trovare risposta ai miei interrogativi. In un’era di riproducibilità diffusa, minimizzare il dubbio non è più la strategia vincente. Servono storie che meritino di essere raccontate più di una volta e dunque largo alla complessità, alle sottotrame, ai buchi e ai rimandi incrociati. Largo ai dubbi che si possono colmare schiacciando rewind. Largo ai film che non si possono capire se ti perdi un fotogramma: Hollywood fa più soldi con i DVD che con i biglietti staccati al cinema.
Il secondo fattore che spinge l’intrattenimento verso strutture narrative sempre più articolate sarebbe, secondo Johnson, l’invadenza del pubblico, la richiesta pressante di poter interagire con i prodotti culturali, di essere consumatori partecipi e non solo passivi.
Quando Pac Man invase le sale giochi del pianeta, ci volle tempo perché i giocatori più inveterati scoprissero che ogni livello del gioco poteva essere completato in pochi secondi, seguendo percorsi fissi attraverso i labirinti di fantasmini e caramelle. Questa conoscenza rimase inaccessibile ai più, che continuarono ad affrontare lo schermo armati solo di occhi, riflessi e dita. Oggi, quelle stesse istruzioni sarebbero on-line pochi giorni dopo il lancio del gioco (se non prima) e chiunque potrebbe consultarle senza problemi e mandarle a memoria in un paio d’ore. Prendete invece un grande successo di questi anni come Grand Theft Auto. Anche di quello esiste una “guida”, gratuita e scaricabile.
Sono 53000 parole una di fila all’altra, più di 160 pagine di testo, e anche così non riesce ad essere inopinabile, definitiva. Le discussioni tra fanatici continuano, le sorprese non mancano, e intanto escono capitoli del gioco nuovi e aggiornati. Ragionamenti molto simili sono validi in tutti i settori dell’intrattenimento: ragazzini di nazionalità diverse che ogni giorno pubblicano in Rete la cronaca di Hogwarts, tutta interna al mondo di Harry Potter; registi in erba che girano il loro episodio di Guerre Stellari e lo diffondono su YouTube o Google Video; squadre di esegeti che cercano di ricostruire l’albero genealogico di The Sopranos; Convergence Culturesmanettoni che modificano il codice di un videogame con Lara Croft per far girare alla protagonista una clip sexy...
E tutto è lì, a un clic dal tuo mouse, e sotto la lente d’ingrandimento di Henry Jenkins, il professore del MIT che lo scorso anno ha pubblicato Convergence Culture (New York University Press, 2006), il libro più affascinante che mi sia capitato di leggere sui processi culturali del nostro tempo.
Jenkins esplora con metodo una nuova frontiera dove il potere dei media e quello dei consumatori interagiscono in maniera sorprendente e la creatività popolare influenza e modifica quella delle grandi corporation. In questo territorio ibrido i due elementi indicati da Johnson - massimizzare il piacere della reiterazione, stimolare la partecipazione attiva - si fondono in un unico programma: la creazione di mondi, un espediente narrativo noto fin dai tempi di Omero e dell’epica greca. Storie che non ci si stancava mai di riascoltare e che invogliavano a immaginare altre storie, deviazioni, avventure eroiche di personaggi secondari. Storie che plasmavano un’intera comunità, e non soltanto per i valori che trasmettevano e garantivano.
Entrare in un mondo nuovo, capirne le regole, reagire, andare più in profondità, confrontarsi con altri esploratori: è questa l’essenza di molti videogiochi (e il motivo per cui non sono attività di ottenebramento cerebrale, ma anzi palestre di problem solving, fantasia e intelligenza emotiva). E’ anche l’essenza di grandi successi di cassetta come Il Signore degli Anelli, Harry Potter, Guerre Stellari e di molte serie televisive, da Star Trek ai Simpsons.
La differenza con i poemi omerici, fa notare Jenkins, sta nelle capacità transmediali degli odierni narratori e architetti di universi. L’epopea di Matrix, per fare un esempio, è spalmata su diversi supporti: ci sono tre film, diversi videogiochi, una serie a fumetti e cartoni animati, senza contare le innumerevoli produzioni dei fan, impossibili da catalogare, ma che senza dubbio riempiono gli ambiti lasciati vuoti dai fratelli Wachowski: teatro, letteratura, abbigliamento e quant’altro.
Caratteristica fondamentale di questo nuovo modo di raccontare (che Jenkins chiama transmedia storytelling) è che le diverse storie risultino intrecciate, non sovrapponibili e indipendenti tra loro. L’adattamento di un romanzo ad uso del cinema non rientra nella casistica. Non si tratta di riproporre lo stesso intreccio con linguaggi diversi ma di usare linguaggi diversi per comporre frammenti autonomi di un unico intreccio. Per farla breve, chi acquista il fumetto non deve aver bisogno del film per portare a termine la lettura; tuttavia, nel caso veda il film, gli saranno più chiari tutta una serie di rimandi altrimenti incomprensibili e questo arricchirà la sua conoscenza di quel determinato mondo.
Ora ecco il punto: un narratore, un regista, uno scrittore può reagire in due modi diversi al quadro tracciato fin qui. Può considerarlo marketing, cassetta degli attrezzi per fidelizzare il cliente e costruire macchine da incasso, e scegliere o meno di tenerne conto, a seconda di quanto ritenga importante il successo e il denaro rispetto alla sua produzione.
Dall’altra parte, può pensare che la complessità dell’intreccio, l’abbondanza di personaggi e relazioni sociali, il coinvolgimento del pubblico, la costruzione di un mondo e il trasmedia storytelling siano una parte importante di quel che intendiamo per "raccontare storie" nel Ventunesimo secolo. Su questa base, ancora una volta, potrà decidere di intraprendere quel percorso o di restare un narratore, un regista, uno scrittore classico, stile Novecento.
Fatto salvo il rispetto per tutte le opzioni, sono convinto che oggi, in Italia, ci sia bisogno di una generazione di narratori pronta a sperimentare questi strumenti come utensili per plasmare storie, e non solo per venderle.
Com’è successo dieci anni fa con gli scrittori di genere, che in qualche modo hanno raccolto e vinto la sfida della complessità, immagino che le patrie lettere possano vivere un nuovo scarto, una nuova stagione, se molti autori si impegneranno a scrivere storie che anche altri possano abitare: professionisti, fan, fumettari, cineasti, grafici e teatranti. Scrittori capaci non solo di battere le dita su una tastiera, ma di coinvolgere altri in una narrazione aperta, espansa, che stimoli le sinapsi e le comunità di lettori.
Ma di questo, come ci insegna Desperate Housewives, parleremo meglio alla prossima puntata.