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Caro Bertinotti, non credo che la storia del comunismo si sia conclusa con la caduta della Comune di Parigi
Publie le mercoledì 22 ottobre 2008 par Open-PublishingCaro Bertinotti, non credo che la storia del comunismo si sia conclusa con la caduta della Comune di Parigi
di Giuseppe Prestipino
Caro Bertinotti, nel partecipare alla grande manifestazione dell’11 ottobre, ci siamo incontrati e, dopo un caloroso abbraccio, abbiamo avuto una breve conversazione. Ti ho dapprima manifestato la mia fiducia nelle menti acute come la tua per la loro capacità di rimeditare le proprie convinzioni alla luce dei fatti nuovi e di nuove argomentazioni. Mi hai risposto, tra l’altro, che la storia del comunismo si è virtualmente conclusa nel 1871 con la caduta della Comune di Parigi e che Marx non ci basta più.
Vorrei non lasciar cadere quell’amichevole confronto. Soltanto ora, poco meno che centocinquant’anni dopo la Comune, tutti gli umani pensieri sono diventati attivamente o passivamente capitalistici: vi sono intelligenze capitalistiche ordinatrici nei pochi, intelligenze capitalistiche subordinate o subalterne nei molti; le une e le altre orientate a perseguire il proprio utile, benché con risultati effettuali molto differenti e non senza animosità internamente competitive tra i pochi (e anche tra i molti), ciascun singolo contrapponendo il proprio guadagnare, o consumare, alle ragioni o ai calcoli utilitari degli altri, similmente consumatori o distruttori più che produttori. Nel perseguire il proprio utile, ciascuno tenta di prevaricare gli altri, anche appropriandosi di strumenti efficaci, ravvisati non tanto nei mezzi di produzione quanto in più generici criteri dettati dalla ragione strumentale, interessata al minimo mezzo per il massimo risultato.
Dunque appropriazione in quanto distinta o indipendente dalla proprietà giuridica e spesso in sintonia, invece, con accumulazione (tuttora "primitiva") o persino con devastazione predatoria.
La crisi organica esplosa ora nel capitalismo globale non è solo finanziaria ed è la più grave, non soltanto dal 1929, ma forse dagli inizi della modernità. Saremmo perciò sospinti anche noi verso una globale barbarie, se non fosse chiara in noi l’urgenza di superare il capitalismo. Superarlo, ma per transitare verso dove? Taluno risponderebbe: verso il "sinistrismo". E nessuno capirebbe il significato di quella risposta, le cui generiche risonanze fanno nella migliore ipotesi pensare solo agli schieramenti parlamentari dopo il 1789 francese; il Parlamento è tuttora un’istituzione necessaria, ma l’esserne temporaneamente esclusi può tramutarsi per i comunisti, se saranno non divisi e non isolati, in occasione vincente contro i guasti sociali di un capitalismo inferocito dalla grave crisi.
Altrettanto inadeguate sarebbero le parole "egualitarismo" (l’uguaglianza-base, nella differenza di opzioni, è condizione necessaria non sufficiente per quel fine superiore che è la libertà di tutti e di ciascuno) o "solidarismo" (parola troppo contigua a carità, elargizione, compassione) o anche "giustizialismo" (sia pure nel senso non "dipietrista" del termine). Socialismo e comunismo, invece, sono parole chiare, in uso prima e dopo (gli eventuali limiti teorici di) Marx. E, se «sono diventate opache - incomprensibili e mute per i più», come scrive con la sua prosa sempre insuperabile Rina Gagliardi, è questa una buona ragione per ritentare di restituire a quelle parole comprensibilità di massa. Proviamo a ridefinirle, nei limiti del possibile, con semplicità e brevità; anche per non avvalorare con il nostro silenzio, cara Rina, la grottesca immagine dei comunisti cannibali agitata dal pesce grosso di Arcore, guizzante sui flutti delle sue fortune mediatiche.
Socialismo significherà allora intelligenza ordinatrice orientata pur sempre verso una utilità economica, ma in quanto fattasi utilità relativamente più generale, o almeno nazionale: quell’intelligenza è parsa storicamente esemplificata dal Welfare State o, se si vuole, dal presunto "socialismo in un solo paese". L’intelligenza ordinatrice comunistica, se potrà prender corpo in un suo futuro tempo storico, vorrà essere finalizzata soprattutto al bene comune. E bene comune non sarà una "cosa" utile e la solitamente congiunta proprietà giuridica della cosa, ma sarà il bene — eticamente o etico-politicamente connotato — di tutti gli umani presenti e futuri; sarà razionalità secondo fini (o valori) universali, riposti appunto nella libertà di tutti e di ciascuno.
Platone, un comunista un po’ più vecchio di Marx, aveva giudicato il possedere in comune i beni materiali, o le "cose", soltanto come un mezzo, il cui fine mirasse al Bene, al bene comune di tutte le persone, come "Idea" somma. Utopia? Si badi che, se non muoviamo dall’umana meta di un domani lontano e ipoteticamente perfetto, con sguardo retrospettivo, non ci è possibile capire il belluino stato di cose presente: l’anatomia dell’uomo, diceva il Marx di scuola, ci fa ricostruire scientemente l’anatomia della scimmia. Peraltro, non è possibile capire il presente, diceva a sua volta Gramsci, senza un sentire appassionato: anche la pelle navigata e ormai indurita di chi scrive queste righe è stata percorsa da un brivido di emozione alla vista di tantissime bandiere con i "simboli" di falce e martello.
E, senza capire o carpire le radici storiche del presente, non è possibile trasformarlo o riformarlo. Così, chi esercita un’egemonia culturale, sempre secondo Gramsci, afferma insieme e anzitutto una sua egemonia politica. Il movimento dei movimenti, valorizzato da ciascuno dei due partiti oggi in competizione (altra "guerra tra poveri"?) dentro il partito della Rifondazione comunista, il movimento dei movimenti lotta soprattutto per difendere ed estendere i beni comuni. Anche per noi, volere i beni comuni è (il voler) innalzarsi dell’umana specie alle altezze di un’etica della responsabilità verso se stessa e verso la natura, madre di ciascun essere umano, «terra / che lo raccolse infante e lo nutriva, / nel suo grembo materno ultimo asilo / porgendo».