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Centomila sfidano Blair: via le truppe dall’Iraq

Publie le martedì 19 ottobre 2004 par Open-Publishing

di Gianni Marsilli

Il movimento c’è, è tuttora vitale. Secondo quelli di "Stop the war" a sfilare sono stati centomila, secondo altre organizzazioni 65-75mila, secondo la polizia non più di ventimila.

A noi è sembrato, per quel che vale l’occhio di chi ci sta in mezzo, che si fosse in 40-50mila. Ricordiamo che erano stati 50mila l’anno scorso al Social Forum di Parigi, e che alla vigilia del corteo di domenica serpeggiava il timore di restare molto al di sotto di quella soglia. Anche se va detto che queste manifestazioni hanno perso l’unghiata dei grandi numeri, quelli dei quali uno come Tony Blair può aver paura. Per quanto ingeneroso, è infatti inevitabile, trattandosi di Londra, il paragone con il 15 febbraio 2003, quando una marea di centinaia di migliaia di persone circondò Westminster. Testimoniarono all’epoca della sintonia tra il sentire pacifista dei no global e quello dell’opinione pubblica britannica, maggioritariamente contraria alla guerra e disposta a dirlo alto e forte scendendo in piazza. Lo stesso accadeva in Francia, in Italia, in Spagna.

Domenica a Londra abbiamo visto decine di migliaia di persone, gran parte delle quali ci sono sembrati militanti di provata fede. Non abbiamo visto quella che si dice "la gente". Molti giovani, poche famiglie. Molte rappresentanze sindacali, pochi lavoratori. Come se il movimento si fosse istituzionalizzato nel suo ruolo.

Iraq e "Free Palestine" sono stati largamente dominanti. Bush e Blair hanno fatto la parte del leone, trattati da "assassini" e "terroristi", quasi quanto Sharon e Israele. Una maglietta indossata da un signore ci è parsa riassumere un certo spirito che serpeggiava nella manifestazione. Sul davanti c’era scritto: "Il terrorismo è la guerra dei poveri". Sulla schiena "La guerra è il terrorismo dei ricchi".

Presente, per quanto minoritario, anche il tema dell’Europa neoliberale. Contro di essa sono sfilati i tedeschi dei "Leipziger Montags", i lunedì di protesta sociale che a Lipsia hanno avuto particolare vigore, gli affiliati all’Unison di Newcastle, il "Dundee Trades Council" e molte altre organizzazioni in gran parte inglesi. I britannici portavano bellissimi antichi e lisi gonfaloni sindacali, come si portano le bandiere dei reggimenti più gloriosi, sopravvissuti a tante vittorie e tante sconfitte. C’erano anche sette nepalesi molto eleganti in giacca e cravatta, ex gurka dell’esercito britannico oggi disciplinati militanti pacifisti.

C’era pieno di bandiere italiane della pace, che sono diventate un po’ un simbolo europeo dell’impegno contro la guerra. Ne sventolavano due anche davanti al parlamento di Westminster, a circondare uno striscione ammonitorio: "Non c’è mai stata una buona guerra per una cattiva pace". Firmato Benjamin Franklin, ultimi anni del 700.

C’era la sinistra della sinistra inglese, quelli di "Respect", e con loro torme di ragazze mussulmane con il velo, rappresentanze curde, turche, sudanesi, pakistane, e di tanti altri paesi. Rappresentanti del comunitarismo britannico, militanti dei gruppi storici di Brixton e di altre parti del paese. Si è partiti tutti da Russell Square per poi scendere verso il Tamigi e attraversarlo da ultimo sul Westminster Bridge, prima di imboccare il grande viale di Whitehall e passare davanti a Downing Street, dove gli slogan ("hooo, hooo, Blair must go", Blair se ne deve andare) e l’agitar di cartelli aumentavano d’intensità.

La polizia, presente in forze ma senza aggressività, aveva tagliato a metà quasi tutto Whitehall con una fila di transenne. Tutto si è svolto senza incidenti, fino alla confluenza in Trafalgar Square. Discorsi e musica davanti alla National Gallery. George Galloway, uno dei tenori del Social Forum nel corso del weekend, ha arringato la folla: "Falluja è la nuova Stalingrado! Resistono casa per casa, strada per strada! Falluja unida jamas serà vencida!".

La polizia ha fermato qualche ragazzo che aveva tentato la scalata al palco degli oratori. Ha fermato anche due giovani italiani, Andrea Olivieri e Vittorio Sergi, ma sembra soltanto perché avevano dormito in una casa occupata dagli squatters, che al corteo erano stati vivaci e numerosi.

Il Social Forum ha prodotto un documento finale. Vi si afferma l’opposizione all’occupazione militare dell’Iraq e il sostegno ai "movimenti israeliani e palestinesi che si battono per una pace giusta e durevole". Si chiede la fine "dell’occupazione israeliana e lo smantellamento del muro dell’apartheid", oltre che sanzioni politiche ed economiche contro Israele.

Rispetto alla Costituzione europea, il Forum dice che "non incontra le nostre aspirazioni", visto che "consacra il neoliberalismo". Per questo appoggerà "la mobilitazione del movimento italiano il 30 ottobre" contro il trattato costituzionale che verrà firmato il giorno prima a Roma, così come appoggerà l’analoga manifestazione del movimento spagnolo a Barcellona contro il vertice che lì si terrà in gennaio tra Zapatero, Chirac e Schroeder. Ma l’appuntamento per loro più importante sarà quello del 19 marzo a Bruxelles: per la pace nel secondo anniversario dell’inizio della guerra in Iraq e per farsi sentire dai capi di governo europei che lì si riuniranno il 22 e il 23 marzo 2005.

A noi è sembrato, per quel che vale l’occhio di chi ci sta in mezzo, che si fosse in 40-50mila. Ricordiamo che erano stati 50mila l’anno scorso al Social Forum di Parigi, e che alla vigilia del corteo di ieri serpeggiava il timore di restare molto al di sotto di quella soglia. Anche se va detto che queste manifestazioni hanno perso l’unghiata dei grandi numeri, quelli dei quali uno come Tony Blair può aver paura. Per quanto ingeneroso, è infatti inevitabile, trattandosi di Londra, il paragone con il 15 febbraio 2003, quando una marea di centinaia di migliaia di persone circondò Westminster. Testimoniarono all’epoca della sintonia tra il sentire pacifista dei no global e quello dell’opinione pubblica britannica, maggioritariamente contraria alla guerra e disposta a dirlo alto e forte scendendo in piazza. Lo stesso accadeva in Francia, in Italia, in Spagna. Ieri a Londra abbiamo visto decine di migliaia di persone, gran parte delle quali ci sono sembrati militanti di provata fede. Non abbiamo visto quella che si dice "la gente". Molti giovani, poche famiglie. Molte rappresentanze sindacali, pochi lavoratori. Come se il movimento si fosse istituzionalizzato nel suo ruolo.
Iraq e "Free Palestine" sono stati largamente dominanti. Bush e Blair hanno fatto la parte del leone, trattati da "assassini" e "terroristi", quasi quanto Sharon e Israele. Una maglietta indossata da un signore ci è parsa riassumere un certo spirito che serpeggiava nella manifestazione. Sul davanti c’era scritto: "Il terrorismo è la guerra dei poveri". Sulla schiena "La guerra è il terrorismo dei ricchi". Presente, per quanto minoritario, anche il tema dell’"Europa neoliberale". Contro di essa sono sfilati i tedeschi dei "Leipziger Montags", i lunedì di protesta sociale che a Lipsia hanno avuto particolare vigore, gli affiliati all’Unison di Newcastle, il "Dundee Trades Council" e molte altre organizzazioni in gran parte inglesi. I britannici portavano bellissimi antichi e lisi gonfaloni sindacali, come si portano le bandiere dei reggimenti più gloriosi, sopravvissuti a tante vittorie e tante sconfitte. C’erano anche sette nepalesi molto eleganti in giacca e cravatta, ex gurka dell’esercito britannico oggi disciplinati militanti pacifisti. C’era pieno di bandiere italiane della pace, che sono diventate un po’ un simbolo europeo dell’impegno contro la guerra. Ne sventolavano due anche davanti al parlamento di Westminster, a circondare uno striscione ammonitorio: "Non c’è mai stata una buona guerra per una cattiva pace". Firmato Benjamin Franklin, ultimi anni del 700.
C’era la sinistra della sinistra inglese, quelli di "Respect", e con loro torme di ragazze mussulmane con il velo, rappresentanze curde, turche, sudanesi, pakistane, e di tanti altri paesi. Rappresentanti del comunitarismo britannico, militanti dei gruppi storici di Brixton e di altre parti del paese. Si è partiti tutti da Russell Square per poi scendere verso il Tamigi e attraversarlo da ultimo sul Westminster Bridge, prima di imboccare il grande viale di Whitehall e passare davanti a Downing Street, dove gli slogan ("hooo, hooo, Blair must go", Blair se ne deve andare) e l’agitar di cartelli aumentavano d’intensità. La polizia, presente in forze ma senza aggressività, aveva tagliato a metà quasi tutto Whitehall con una fila di transenne. Tutto si è svolto senza incidenti, fino alla confluenza in Trafalgar Square. Discorsi e musica davanti alla National Gallery. George Galloway, uno dei tenori del Social Forum nel corso del weekend, ha arringato la folla: "Falluja è la nuova Stalingrado! Resistono casa per casa, strada per strada! Falluja unida jamas serà vencida!". La polizia ha fermato qualche ragazzo che aveva tentato la scalata al palco degli oratori. Ha fermato anche due giovani italiani, Andrea Olivieri e Vittorio Sergi, ma sembra soltanto perché avevano dormito in una casa occupata dagli squatters, che al corteo erano stati vivaci e numerosi.
Il Social Forum ha prodotto un documento finale. Vi si afferma l’opposizione all’occupazione militare dell’Iraq e il sostegno ai "movimenti israeliani e palestinesi che si battono per una pace giusta e durevole". Si chiede la fine "dell’occupazione israeliana e lo smantellamento del muro dell’apartheid", oltre che sanzioni politiche ed economiche contro Israele. Rispetto alla Costituzione europea, il Forum dice che "non incontra le nostre aspirazioni", visto che "consacra il neoliberalismo". Per questo appoggerà "la mobilitazione del movimento italiano il 30 ottobre" contro il trattato costituzionale che verrà firmato il giorno prima a Roma, così come appoggerà l’analoga manifestazione del movimento spagnolo a Barcellona contro il vertice che lì si terrà in gennaio tra Zapatero, Chirac e Schroeder.

Ma l’appuntamento per loro più importante sarà quello del 19 marzo a Bruxelles: per la pace nel secondo anniversario dell’inizio della guerra in Iraq e per farsi sentire dai capi di governo europei che lì si riuniranno il 22 e il 23 marzo 2005.

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