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Ci sarà una guerra contro il mondo intero dopo il 2 novembre?
Publie le giovedì 11 novembre 2004 par Open-Publishingdi John Pilger da The New Statesman
L’"americanismo" ha significato democrazia all’interno e guerra per la democrazia fuori. Dal Guatemala all’Iran, dal Cile al Nicaragua, alla lotta per la libertà in Sud Africa, fino al Venezuela dei giorni nostri, il terrorismo dello stato americano ha combattuto le forze democratiche e aiutato i totalitarismi. La maggior parte delle società, attaccate e sovvertite dalla potenza americana, è debole e indifesa. Un piccolo stato che si libera e istituisce una propria politica di sviluppo rappresenterebbe un ottimo esempio per il mondo, ma una minaccia per Washington.
Negli ultimi giorni della campagna presidenziale, negli Stati Uniti si respira un’aria surreale. Secondo uno scienziato che ho incontrato, a suo tempo fuggito dall’Europa dominata dal nazismo, se vincerà George W. Bush l’America si arrenderà ai numerosi simboli democratici e cederà ai suoi impulsi totalitari. Se invece vincerà John Kerry, secondo la maggior parte degli elettori democratici, il suo unico mandato sarà quello di non essere Bush.
E’ la prima volta che un numero così grande di mani liberali si stringe intorno a un candidato le cui affermazioni più significative cercano di far uscire allo scoperto Bush. Prendiamo l’Iran. Susan Rice, uno dei consiglieri di Kerry sulla sicurezza nazionale, ha accusato Bush di “restare in disparte mentre l’Iran continua a portare avanti il suo programma nucleare”. Non c’è un briciolo di prova che l’Iran stia effettivamente preparando armi nucleari, ma Kerry si unisce alla stessa concertata pazzia che ha portato all’invasione dell’Iraq. Inoltre, dopo aver iniziato la sua campagna promettendo altre 40.000 truppe per l’Iraq, ora si dice che abbia “un piano segreto per concludere la guerra” che punta al ritiro in 4 anni. Questo ricorda Richard Nixon che, nella campagna presidenziale del 1968, promise un “piano segreto” per porre fine alla guerra del Vietnam. Una volta in carica, accelerò il massacro e la guerra si trascinò per altri sei anni e mezzo. Per Kerry, come per Nixon, il messaggio vuol trasmettere alla gente l’idea che Kerry non sia un buono a nulla. Non c’è nulla né nella campagna né nella carriera che suggerisca che Kerry non continuerà, o perfino intensificherà, la “guerra del terrore”, ora santificata come la crociata dell’americanismo, come accadde per quella contro il comunismo. Nessun presidente democratico si è sottratto a questo compito: John Kennedy rispetto alla guerra fredda, Lyndon Johnson rispetto al Vietnam.
Questo rappresenta un grande pericolo per tutti noi, ma a niente e nessuno è permesso intromettersi nella campagna o nella “copertura” dei media. In una società libera e aperta, almeno in apparenza, il grado di censura e di omissione è sorprendente. Il New York Times, il liberale portabandiera del Paese, dopo essersi ripreso da un periodo di pentimento per la terribile incapacità dimostrata nel contestare le bugie di Bush riguardo all’Iraq, ora sta pubblicando articoli approfonditi riguardo a ciò che è andato male nella “liberazione” del Paese. Ci sono stati degli errori: sbagli tattici, mancanze da parte dei servizi segreti. Non una parola che affermi come l’invasione sia stata una conquista coloniale, intenzionale come qualsiasi altra e che 60 anni di legge internazionale l’hanno resa “il supremo crimine di guerra”, per citare i giudici di Norimberga. Nemmeno una parola indica che l’assalto americano alla popolazione irachena sia stato e sia ancora metodicamente atroce, di cui uno degli aspetti (ma non l’unico) è rappresentato dalle torture dei prigionieri di Abu Ghraib.
Le future atrocità nella città di Fallujah, di cui le truppe britanniche saranno complici anche contro il volere della loro stessa gente, ne è un esempio significativo. Secondo i politici e i giornalisti americani - con alcune rare e onorevoli eccezioni - i marines statunitensi si stanno preparando per un’altra delle loro “battaglie”. Il loro ultimo attacco a Fallujah in aprile ne fornisce un’anteprima. Carri armati di 40 tonnellate ed elicotteri da combattimento furono usati contro i quartieri poveri. Gli aerei sganciarono bombe di 500 libbre: i cecchini dei marines uccisero anziani, donne e bambini; si è sparato perfino alle ambulanze. I marines chiusero l’unico ospedale esistente in una città di 300.000 persone per oltre due settimane, così da utilizzarlo come posizione militare. Quando si stimò che avrebbero massacrato 600 persone, non ci fu alcuna smentita. Questa cifra è superiore alla somma di tutte le vittime dei kamikaze dell’anno precedente. Non negarono neppure che tale barbarie era una sorta di vendetta per l’uccisione di 4 mercenari americani nella città: guidati da cowboy dichiarati, esperti della vendetta.
John Kerry non ha detto nulla; i media hanno raccontato le atrocità come “operazione militare”, contro “militanti stranieri” e “rivoluzionari” e non contro civili o iracheni che agiscono solo in difesa delle proprie case e della propria terra. Inoltre, gli americani sono quasi del tutto all’oscuro che i marines furono spinti fuori da Fallujah da eroici combattimenti di strada. Gli americani non si rendono neppure conto della pirateria che accompagna quest’impresa omicida del governo. Quale personaggio pubblico chiede dove siano finiti i 18,46 miliardi di dollari che il Congresso statunitense ha approvato per la ricostruzione e gli aiuti umanitari in Iraq? Come riferisce l’Unicef, la maggior parte degli ospedali è perfino priva di antidolorifici e dall’inizio della “liberazione” la malnutrizione tra i bambini è addirittura raddoppiata. Infatti, sono stati stanziati meno di 29 milioni di dollari, la maggior parte dei quali per le forze di sicurezza britanniche, con i loro criminali ex-SAS e i veterani dell’apartheid sudafricano.
Dove è il resto del denaro che dovrebbe aiutare a salvare vite? Kerry, il cosiddetto “non fannullone”, non osa neppure chiederlo. Né lui né qualsiasi altro personaggio pubblico si chiede la ragione per cui gli iracheni, dalla caduta di Saddam, sono costretti a pagare quasi 80 milioni di dollari a Stati Uniti e Gran Bretagna come “riparazione”. Perfino Israele ha ricevuto una somma incalcolabile in denaro ricavato dal petrolio iracheno come indennizzo per la “diminuzione del turismo” nelle Golan Heights - parte della Siria occupata illegalmente. Per quanto riguarda il petrolio, questo termine cruciale non si può neppure citare nella lotta per l’attività più influente del mondo. Nella sua campagna di sabotaggio economico, la resistenza ha talmente successo che l’importantissimo oleodotto che porta greggio al Mediterraneo turco è stato fatto scoppiare 37 volte. I terminali nel sud del Paese sono costantemente sotto attacco, interrompendo in realtà tutte le esportazioni di greggio e rappresentando una forte minaccia per le economie nazionali. Il fatto che il mondo possa avere perso il petrolio iracheno è avvolto dallo stesso silenzio che conferma che gli americani non abbiano idea della natura e della portata dello spargimento di sangue effettuato a loro nome.
Il silenzio più duraturo è quello che protegge il sistema, causa di questi eventi catastrofici. Questo è l’americanismo, benché stranamente non osi definirsi in questo modo, come il suo opposto, l’antiamericanismo, è stato a lungo considerato negativo, risposta polivalente alle analisi critiche del sistema imperiale e dei suoi miti. L’americanismo come ideologia ha significato, per alcuni, democrazia all’interno e guerra per la democrazia fuori. Dal Guatemala all’Iran, dal Cile al Nicaragua, fino alla lotta per la libertà in Sud Africa, fino al Venezuela dei giorni nostri, il terrorismo dello Stato americano, concesso sia dalle amministrazioni Democratiche che da quelle Repubblicane, ha combattuto i democratici e aiutato i totalitarismi. La maggior parte delle società attaccate e sovvertite dalla potenza americana è debole e indifesa; c’è una logica in questo. Come potrebbe riuscire un piccolo stato a liberarsi e istituire una propria politica di sviluppo? Questo rappresenterebbe un ottimo esempio per gli altri, divenendo così una minaccia per Washington. Ma qual è il vero scopo dietro a tutto questo? Madeleine Albright, segretario di Stato di Bill Clinton, una volta disse alle Nazioni Unite che l’America ha diritto a “un uso unilaterale del potere” per assicurare “un accesso disinibito ai mercati cruciali, alle forniture energetiche e alle risorse strategiche”. O come Colin Powell, sostenitore di Bush pubblicizzato in maniera ridicola dai media come liberale, disse più di una decina d’anni fa: “Voglio essere lo spaccone del quartiere”. Gli imperialisti britannici la pensavano allo stesso modo e ancora lo pensano; il linguaggio è solo un po’ meno vistoso.
Questa è la ragione per cui nel mondo la gente, la cui consapevolezza riguardo tali questioni è radicalmente aumentata negli ultimi anni, è “antiamericana”. Questo non ha nulla a che fare con l’americano medio che ora osserva il capitalismo darwiniano che consuma le proprie vere e presunte libertà e riduce il libero mercato ad una svendita di beni pubblici. E’ straordinario e quasi ispirante che così tante persone rifiutino la classe sociale e la razza basandosi sul lavaggio del cervello che dall’infanzia considera il sistema della classe sociale e della razza come “il sogno americano”. Cosa accadrà se l’incubo iracheno continuerà? Forse i milioni di americani preoccupati, che ora sono paralizzati all’idea di sbarazzarsi di Bush ad ogni costo, si libereranno della propria ambivalenza indipendentemente da chi avrà vinto il 2 novembre. Allora forse il gigante si risveglierà come ha fatto in passato per esempio durante la campagna per i diritti civili, durante la guerra del Vietnam o con il grande movimento per congelare le armi nucleari. Bisogna sperarlo; l’alternativa è una guerra contro il mondo.
Attualmente John Pilger è visiting professor presso l’università Cornell di New York.
Il suo ultimo libro è Tell Me No Lies: investigative journalism and its triumphs (pubblicato da Jonathan Cape).
Pubblicato per la prima volta su The New Statesman - www.newstatesman.com
Fonte: http://pilger.carlton.com/print
Traduzione di Chiara Zanardelli per Nuovi Mondi Media




