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Così cominciò la Guerra

Publie le lunedì 14 agosto 2006 par Open-Publishing

di Giuliano Santoro [da CalabriaOra, 20 luglio 2006]

La Guerra è cominciata cinque anni fa, il 20 luglio del 2001. Quando è
avvenuto, mi trovavo in via Tolemaide, a Genova.
Eravamo a decine di migliaia, in marcia verso la Zona rossa. Mi ero
imbacuccato, come gli altri. Un incrocio tra un giocatore di football
americano e arlecchino. Qualche pezzo di materassino sulle spalle, tre
bottiglie di plastica sulla schiena come paracolpi e un casco
rimediato
all’ultimo momento. Era senza cinghia, non potevo legarmelo al
collo e mi stava largo, quindi mi ballava in testa. Pacche sulle
spalle a
profusione:
per collaudare l’armatura e per rassicurarsi a vicenda.
All’uscita dello stadio Carlini avevo incontrato Claudio che
saltellava, eccitato come un
bambino e con un materassino arrotolato in testa, a mo’ di turbante:
"Giuliani’, non ho mai visto un corteo così motivato.

Ce la faremo!". Un anno e mezzo dopo l’avrebbero arrestato nel
cuore della notte, mitra spianati, per aver attentato all’ordine
economico
dello stato.
Lui si sarebbe vendicato scrivendo il libro più bello uscito finora
sulle giornate di Genova. Poi avevo fatto un altro pezzo di strada con
un
drappello di cosentini arrivati la notte prima. In cinque, ci tenevamo
a
braccetto formando un piccolo cordone anomalo. Gli raccontavo
l’entusiasmodelle giornate precedenti, le ultime discussioni
all’interno del
Genoa social forum, la meravigliosa efficienza del media center. Ero
convinto
che questi segnali anticipassero la vittoria. Cosa avrebbe voluto
dire,
"vittoria"? Avremmo invaso la sede del G8? Bush e Berlusconi
avrebbero chiesto scusa in mondovisione e avremmo ballato per tutta la
notte -
autonomi suore ravers scout punk volontari squatter vigili studenti -
di
fronte a palazzo Ducale?

Avremmo messo un piede nella zona proibita, e poi li avremmo lasciati
fottere, i signori del pianeta, e ci saremmo andati a fare un bagno a
mare?A pensarci adesso non me lo ricordo. Probabilmente non ne avevo
idea, di
che cosa avremmo potuto ottenere, nell’immediato, per tornarcene a
casa
vittoriosi, per poter dire "Missione compiuta". Ma sapevo che
quell’esercito di straccioni che stava assediando i potenti della
terra segnava un
punto di non ritorno. Parlavo, e cercavo di spiegarlo ai miei fratelli
che
annuivano preoccupati, mentre guardavano le nuvole di fumo salire dai
confini
della Zona rossa.

Quando arrivammo, la città ancora era in preda al tran tran
quotidiano.
A pochi giorni dall’inizio del vertice, i giornali sostenevano che i
manifestanti contro il Vertice avrebbero sequestrato degli agenti di
polizia per usarli come scudi umani nel tentativo di sfondamento della
Zona
rossa. Ma ancora non erano state montate le sbarre a protezione degli
Otto
grandi.
Ci dirigemmo subito al Media center della scuola Pascoli, di fronte
alla
Diaz, dove si sarebbe consumata la mattanza. C’erano i primi
mediattivisti delle radio e dei siti, gli smanettoni che avevano
costruito la rete
telematica. Mancavano ancora gran parte degli abitanti di quella
palazzina, che sarebbero arrivati a mano a mano nelle prossime ore.
Aspettavamo
anche i treni con i compagni e le compagne da tutt’Italia e sapevamo
che le
nostre vite sarebbero cambiate.

A dieci anni dalla Prima guerra del Golfo, che aveva segnato la mia
prima manifestazione, sentivo che mi trovavo a un punto di svolta.
L’accumulazione d’immaginario, saperi e pratiche degli anni novanta,
quei miei
primi dieci anni di movimento, era arrivata a maturazione. Ne avevamo
per tutti.
Come il gatto gioca col topo, facendo finta di distrarsi per il gusto
di
riacciuffarlo, usavamo allegramente i mass media. Scoprivamo parole
nuove, e appena queste diventavano un cliché ne tiravamo fuori altre.
Parlavamo
al mondo a cuore aperto, e la società civile globale ci guardava con
curiosità.
I partiti inseguivano col fiatone o rimanevano al palo. Eravamo
indefinibili. Non eravamo né violenti né nonviolenti. Eravamo nuovi,
ma
venivamo da lontano. Giovani ribelli e vecchi nostalgici. Eravamo i
marginali delle periferie sfigate dell’Impero che reclamavano la
loro fetta di torta.

Ma eravamo anche i nuovi protagonisti della Storia, arrivati
direttamente dal cuore pulsante della produzione globale. Eravamo la
vera faccia
della globalizzazione, frutto della potenza spaccafrontiere dei
movimenti dei
migranti in cerca di libertà e delle pretese anti-economiche degli
operai occidentali stanchi di sacrifici. O piuttosto eravamo un urlo
disperato
delle vittime della globalizzazione neoliberista, idra a cento teste
di
un sistema che ha innescato automatismi antropologici ed economici
tali da
portarci verso l’Apocalisse. Ballavamo a testa alta sulle tombe
dello stato-nazione e del lavoro salariato, i due principali artefici
delle
sconfitte delle istanze di liberazione novecentesche. Ma forse
cominciavamo a correre lungo la via del disastro che si sarebbe
consumato negli anni
a venire e che era stato annunciato dalla tonnara dei Balcani.

Era bello stare in mezzo a questi opposti. Facevamo impazzire
analisti,
osservatori, guardie e politicanti. Ma puoi rimanere a fare surf sulle
onde della complessità solo quando sei tu a dettare le regole del
gioco e a
decidere i tempi del cammino. Se la tua unica arma è una narrazione
che
si propaga di bocca in bocca fino a svuotare di senso il cuore
immateriale
della produzione globale, basta il fragore delle bombe per impedire
che
la tua voce si senta. Se la materialità pesante della Guerra irrompe
sulla
virtualità leggera del capitalismo postmoderno, il gigante dai piedi
d’argilla crolla travolgendo con le sue macerie tutto quello che
sta sotto.
Con la Guerra non puoi più giocare di fino. Gigi Lentini, eterna
promessa del calcio italiano e primo protagonista di trasferimento
miliardario
del neocalcio, è passato dalle piroette di San Siro con il Milan alle
botte
nei campi dell’Interregionale con il Cosenza. E non ha avuto vita
facile. Ogni tanto, sprazzi di genio e sospiri sugli spalti, ma nulla
di più.

Le prime file, quelle con gli scudi di plexiglass, avevano cominciato
a
guadagnare la testa del corteo e via Tolemaide andava stringendosi. In
altre occasioni, la testuggine di scudi si era rivelata efficace e i
compagni
delle prime file in grado di proteggere il corteo. Per questo non mi
preoccupavo più di tanto per ciò che sarebbe avvenuto lì davanti. Mi
misi a perlustrare le strade laterali. A destra, c’era la ferrovia. A
sinistra, alcune traverse che davano verso la città. Mi fermai e vidi
che
sfociava su di una piazza. Piazza Alimonda. Pensai che ci avrebbero
potuto
attaccare da lì, per dividere il corteo in due tronconi.

Non ho mai rivisto le ricostruzioni di quanto è avvenuto in quei
momenti. Ho sempre badato a coltivare la memoria: dalla strage di
piazza Fontana
all’omicidio di Valerio Verbano, ho ricordato le circostanze in cui
il lato oscuro della democrazia è venuto fuori. Ho tenuto il conto
della
cronologia della striscia rosso-sangue che si allunga, ogni volta che
in questo
paesen ci sono dei morti causati da neofascisti, polizia, eserciti e
apparati
deviati. Colpiscono ogni volta che un movimento diventa minaccioso e
mette in discussione il Potere. Ma questa volta ho rimuginato per
cinque anni.
Senso di impotenza e frustrazione mi perseguitano ancora oggi.

E non ho nessuna intenzione di cercare le mie pupille terrorizzate in
mezzo alle altre migliaia, nelle centinaia di ore filmate da quel
Grande
fratello rovesciato che è stata Genova, dove tantissime persone
avevano la loro
telecamera. Ero lì, e mi è bastato. Ho visto la carica a freddo,
contro
un corteo regolarmente autorizzato dopo mesi di trattative, con i
blindati
lanciati a velocità. Mi viene ancora la pelle d’oca quando penso
alla generosità di chi stava nelle prime file e li ha sfidati, per
difendere
la fuga di chi rischiava di rimanere stritolato dal fumo giallo dei
gas Cs
sparato in quel budello che era via Tolemaide. E so bene che Carlo
Giuliani e gli altri che si trovavano in piazza Alimonda, cercavano di
fermare
(e ci riuscirono, anche se a caro prezzo) un plotone di Carabinieri
che voleva
aggredire la manifestazione.

Per scacciare ogni dubbio sulla natura globale della Guerra dichiarata
quel giorno a Genova, mi sono appuntato che quella carica fu opera di
professionisti del terrore: nelle schiere dell’Esercito dell’Impero
c’erano
i corpi speciali dei Carabinieri che si erano fatti le ossa nelle
"missioni di pace" italiane, quelle in cui la gente venne torturata
con gli
elettrodi attaccati ai coglioni, come è avvenuto in Somalia. Le strade
di Genova
in quei giorni erano come Beirut, Gaza, New York e Kabul. Chi ha visto
Genova ha visto anche le sbarre di un Centro di detenzione per
migranti, ha
vissuto i ritmi nevrotici di lavoro di un call center, ha subito la
violenza
delle betoniere che occupano una montagna per costruire una Grande
opera.

Tornammo verso lo stadio Carlini, inseguiti fino ai cancelli dalle
cariche delle forze dell’ordine. Il dolore di un chiodo conficcato nel
cervello mi ricordava che avevo respirato per ore un gas velenoso. In
mezzo alla
gente che si abbracciava in lacrime mi misi a cercare le facce dei
miei
amici, per verificare che stessero bene. Incontrai Paolo avvolto in
accappatoio a
quadri scozzesi, come un nobile, di quelli interpretati dal Vittorio
Gassman dei tempi d’oro. Una scena surreale. Mi disse che aveva deciso
di
farsi una doccia perché era l’unico momento in cui "non c’era la
fila". Presi nota: "Per sopravvivere in Guerra serve l’ironia".

Il giorno successivo trecentomila persone scesero in piazza,
nonostante
Ds e Cgil avessero invitato la gente a starsene a casa. Ma a centinaia
raggiunsero la città, capirono che chi avrebbe manifestato sarebbe
stato in grave pericolo e che solo in tanti ci si sarebbe potuti
salvare. I miei
compagni si guardarono negli occhi e capirono che bisognava sfidare lo
stato di Guerra e manifestare, ma anche che bisognava portare a casa
la
pelle. Per questo ripristinarono cordoni e servizio d’ordine, e a
passo veloce
si avviarono in corteo tenendo a bada polizia e black bloc. Sono in
corso
tre processi a Genova per le violenze e le torture di polizia e
carabinieri.

A farne le spese, soprattutto i manifestanti meno organizzati, quelli
che venivano dall’estero, i piccoli gruppi. Dopo una giornata di
follia
per le strade roventi di Genova, mi trovai allo stadio Carlini. Le
migliaia di
persone che avevano trasformato quel campo sportivo di periferia in
una
cittadella della disobbedienza (con tanto di cucine, sale internet,
laboratori artistici) si avviarono verso la stazione ferroviaria.
L’esercito impazzito che vagava per la città aveva fatto capire che
avrebbe
garantito un periodo di tregua perché tutti se ne andassero. Rimanemmo
al Carlini
in venti persone. E mentre stavamo per raggiungere il media center per
recuperare le nostre cose, ci telefonò Annetta. "Non venite qui,
stanno per assaltare la scuola Diaz e il media center. Ci sono
rastrellamenti nelle
strade qui intorno".

Anche questa telefonata, che ci ha salvato dai pestaggi della caserma
di
Bolzaneto, sarebbe stata intercettata e finita nel plico del pm
Domenico
Fiordalisi, della procura di Cosenza. Il processo per associazione
sovversiva è ancora in corso: di fatto (insieme ai procedimenti contro
86 poliziotti alla sbarra per le violenze di piazza e una sessantina
di
manifestanti accusati di "devastazione e saccheggio" con la
singolare aggravante della "compartecipazione psichica") il processo
sui fatti del luglio 2001 è quello di Cosenza. Quello ordito da
Fiordalisi, imboccato
da Ros e Digos, è un procedimento che riscrive le storie collettive di
decine di persone, tutte quante spiate per anni, in funzione di una
pena
esemplare da sbattere in faccia all’opinione pubblica.

Bisognava abbandonare il Carlini: dopo la scuola Diaz la polizia
sarebbe
arrivata qui, nella tana del lupo. Mentre stavamo decidevamo che
saremmo
usciti, a piedi, nelle strade silenziose della città, un tizio
sconosciuto, sulla quarantina, si mise a urlare con una spranga in
mano: "Dove
cazzo andate! Dobbiamo resistere, non dobbiamo dargliela vinta!
Barrichiamoci
dentro". Resosi conto che non avevamo nessuna intenzione di
giocare alla guerra, si allontanò con aria vaga verso il cancello. Con
una tempistica
impressionante passò un taxi, si aprì la porta di dietro, e il tipo
montò sull’auto, con tutta la spranga. Mi resi conto che poteva
accadere
di tutto, non c’era più nessuna certezza, tutti i diritti erano stati
cancellati.
Demmo vita a una lenta e interminabile via crucis, e accompagnammo
alcuni manifestanti in luogo più sicuro. Poi ci infilammo in macchina
e
cercammo con ansia una via d’uscita da Genova. Stravolti dalla
stanchezza,
accecati dalla rabbia e annichiliti dalla paura imboccammo
l’autostrada
contromano.
Una macchina della polizia stradale ci fermò dopo pochi metri.
"Addio", pensammo. E invece l’agente ci disse, con fare paterno:
"Ragazzi, tutto a posto? Se siete stanchi fermatevi a dormire, non
mettetevi in
viaggio". Farfugliammo parole incomprensibili e ripartimmo.

Nei giorni successivi in tutte le città italiane si manifestò contro
la
brutalità delle forze dell’ordine. La sinistra istituzionale,
sconfitta pochi mesi prima alle elezioni politiche, non teneva più il
rapporto
con la base, che cominciava a guardare con interesse lo strano animale
che
avanzava. Poi ci fu l’11 settembre. La Guerra fu dichiarata
ufficialmente e cambiò il corso della storia. Di volta in volta veniva
accompagnata da
aggettivi inquietanti:
"preventiva", "globale" e "permanente", "infinita".
Con quella faccia un po’ così, noi, che avevamo visto Genova, ci
stupimmo meno di altri.

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