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Cronaca di due morti sul lavoro che amavo: mio figlio e mio marito

Publie le mercoledì 30 luglio 2008 par Open-Publishing

Cronaca di due morti sul lavoro che amavo: mio figlio e mio marito

di Franca Mulas

Mio marito che aveva sempre fatto il capocantiere, dalla morte di nostro figlio Luciano, non ne volle più sapere di farlo.
Un giorno era a Varese a lavorare, e mi chiamò, e mi disse: chiama l’Asl di Varese e chiedi cosa devi fare per un ponteggio che non è a norma, ma non dirgli chi sei.

Io chiamai subito, ma invece gli dissi chi ero, e che non volevo che succedesse qualcosa a mio marito, visto che 15 mesi prima avevo perso mio figlio.

Tre/quattro giorni dopo, io non ero in casa (ero andata a prendere un quadretto).

Quando tornai a casa c’erano un po’ di chiamate in segreteria.
Feci il primo numero, mi rispose l’ospedale, ma siccome ero io che chiamavo continuavano a dirmi cosa volevo, e io che gli dicevo: ma non mi avete chiamato voi? Ma la risposta fu: quando sa cosa vuole richiami.
Feci l’altro numero, era lo zio, io gli dissi: come mai mi chiami la mattina se sai che Gianfranco (è il nome di mio marito) è al lavoro?

Lui cominciò a chiamarmi per nome: Franca, Franca!!
Lì capii che c’era qualcosa che non andava, e gli dissi, fammi il nome, perché io ho altri 5 figli.

Mi fece il nome di Gianfranco: misi giù il telefono e richiamai l’ospedale.
Mi rispose la stessa persona, quasi scocciata, e mi disse: se non sa neanche lei cosa vuole, cosa ci posso fare io? E io gli risposi: adesso lo so, hanno portato lì mio marito.

Lui mi rispose: aspetti un attimo, e mi mise una musichetta di attesa.
Dopo un bel po’ mi rispose un medico, dicendomi di andare subito lì perché mio marito era grave.

Chiamai invano l’ufficio dove lavorava mio marito, ma non ebbi risposta.
Verso mezzogiorno rispose il geometra.

Io ero molto arrabbiata, e gli dissi: non vi siete neanche presi la briga di chiamarmi, ma nel frattempo arrivò anche un cugino di mio marito, gli dissi di venire con me.

Mi portò al cantiere, lì c’erano già quelli del sindacato, e gli dissi: vi prego, non lasciatemi sola, devo fargliela pagare.

E questo geometra continuava a dirmi che non sapeva dov’era l’ospedale.
Ma quelli del sindacato mi dissero: la portiamo lì noi.

Vidi il cartello rianimazione, e entrai.

Mi chiesero cosa volevo, e gli dissi: hanno portato qua mio marito.
Mi risposero: qua oggi non è arrivato nessuno.

Subito dopo qualcuno mi disse: vieni qua.

Ancora pronto soccorso, entrai in una stanza, c’era una barella e una sedia a rotelle.

Il medico mi girò verso la sedia e allargò le braccia: non ce l’ha fatta.

Destino crudele, stessa ora, stessa telefonata, quel dannato ponteggio aveva portato via anche mio marito.

Quando me l’hanno fatto vedere era già dentro una cella frigorifera.

A dieci giorni dalla morte di mio marito, mi diedero i 5 milioni di lire che mi spettavano di liquidazione di mio figlio.

Quando è morto mio figlio (il 28 aprile del 2000), abbiamo scoperto che era in nero.

Il suo datore di lavoro è andato ad assicurarlo il 2 o il 3 maggio del 2000.

L’assicurazione risponde, io non le do niente, perché il giorno che è morto non era assicurato.

A 4 mesi dalla morte di mio marito il datore di lavoro dichiara fallimento.

Un giorno al processo gli ho chiesto se lui di notte riusciva a dormire tranquillamente, e con la sua aria di strafottente mi ha detto: certo signora, perché non dovrei dormire.

Due anni e mezzo fa il processo di mio marito era quasi finito.

Sentenza finale: troppi colpevoli, tutto fa rifare.

Il 23 luglio ha fatto 7 anni che mio marito è morto, ma il processo è tutto da rifare.

C’è la prescrizione, e i miei avvocati dicono che a sette anni e mezzo, sti signori, per non dargli un termine diverso, non verranno mai giudicati, né puniti.

L’Asl di Varese mi fece una lettera, scusandosi perché non avevano personale, e non avevano potuto mandare nessuno a controllare il cantiere. E’ questa la nostra bella Italia, uno va sul posto di lavoro per portare a casa il pane quotidiano, e invece ti portavano via in una cassa, anzi in due, nel giro di 15 mesi: stessa impresa.

Io mi chiedo: anni di processo per cosa???

Io ho pagato sulla mia pelle le mie disgrazie (anche a livello economico).

Lo so che non potrò più riavere mio figlio e mio marito, ma pretendo giustizia.

Vorrei rivolgere delle domande a quelli molto in alto:

Perché devono succedere queste cose?

Perché oltre la disgrazia devi pagare anche per poter avere giustizia? E molto salato, per non arrivare mai ad una conclusione?

Perché durante i processi stai lì tutta una giornata per sentirti dire: rinviato a dopo 3/4 mesi?

I morti sul lavoro sono degli eroi.

Sono stanca, perché non sono mai arrivata a dire: sì, la giustizia funziona, sì, la giustizia c’è: mio figlio Luciano aveva solo 22 anni, e mio marito Gianfranco solo 41.

Certe cose ti cambiano la vita, e la mia si è proprio ribaltata, ma devi andare avanti per i tuoi figli, perché queste cose non accadano più, invece accadono tutti i giorni.

Se ci fossero più controlli e meno agevolazioni, secondo me ci sarebbero meno morti e infortuni sul lavoro.

Se ci fosse una punizione giusta, forse ci penserebbero due volte prima di rifare l’errore.

Il mio appello: controlli, controlli, controlli, severità.

Non dire mai la prossima volta, ma punirli severamente da subito, perché quello delle morti sul lavoro è un bollettino di guerra.

Vi giuro che fino a quando avrò fiato, mi batterò con tutte le mie forze per avere giustizia.

Ringrazio tanto quelli che avranno la pazienza di leggere la mia lettera.

Non voglio pietà, ma una vera giustizia, allora sì che potranno riposare in pace anche i miei cari.